di Alessandra Trevisan, Enciclopedia dannunziana
Un contesto letterario ed editoriale da ricomporre
Tra i nomi di scrittrici riscoperte dal mondo dell’editoria nell’ultimo decennio quello di Livia De Stefani assume un ruolo di primo piano. Non meno nota, all’epoca, di Anna Banti, Alba de Céspedes e Milena Milani – con le quali ha spartito anche l’appartenenza alla Mondadori – De Stefani è pressoché scomparsa dal panorama contemporaneo, dopo la sua morte nel 1991. È stata la casa editrice romana Cliquot a dimostrare un interesse nei confronti della ripubblicazione della sua opera, mentre oggi il Fondo omonimo è custodito presso la Casa delle Donne di Roma grazie al progetto «Archivia» e al prezioso contributo di Giulia Caminito, scrittrice attiva nel campo editoriale.
Palermitana, nata nel 1913 in una famiglia borghese, ma vissuta a Roma – città che l’aveva adottata a soli diciassette anni, con il marito e scultore Renato Signorini –, Livia De Stefani condivide con Goliarda Sapienza un elemento autobiografico, quello del trasferimento nella capitale, in cui quest’ultima sceglierà prima la carriera d’attrice e poi di scrittrice. Anche i versi di Sapienza sono usciti postumi con il titolo di Ancestrale (La Vita Felice 2013) e mostrano non poche affinità con quelli di De Stefani. Due vite diverse con esiti distanti ma, pur sempre, due vite di donne che hanno saputo lasciare un segno nella letteratura del Novecento.
De Stefani è stata conosciuta per i suoi romanzi e racconti pubblicati da Mondadori: La vigna di uve nere (1953), vincitore del Premio Salerno opera prima nello stesso anno, Passione di Rosa (1958), La mafia alle mie spalle (1991), poi le raccolte di racconti Gli affatturati (1955), vincitore del Premio Soroptimist nel 1956, infine Viaggio di una sconosciuta (1963). Pubblicò anche, per Rizzoli, La signora di Cariddi (1971) e La stella Assenzio (1975). Con il suo primo lavoro ottenne il plauso di Montale, Ravegnani, Carlo Levi e di numerosi altri critici, ma fu osteggiata da Elio Vittorini secondo quanto raccontò lei stessa. Lui non condivideva l’idea della sua «Sicilia mitica, identica a se stessa nel tempo» (Petrignani 1984, p. 96) e, al contrario di Sciascia, opponeva una propria visione politica ed etica della letteratura, lontana dalla poetica di Livia De Stefani, nei cui testi, infatti, la «sicilianità […] [è] punto fermo e assoluto, assorbito e maturato dal sangue di più generazioni» (Clementelli 1977, p. 771).
L’ambiente artistico e il panorama letterario romano, tra cui quello del Premio Strega e di Maria Bellonci, furono determinanti per lei: nel 1955 entrò a far parte del gruppo degli “Amici della domenica” ed ebbe anche relazioni culturali significative con figure quali quelle di Palma Bucarelli, Elsa De Giorgi e altre. In questo periodo scrive per i giornali, presumibilmente per crearsi una professione, come fanno molte altre scrittrici (da Milani a Marise Ferro, solo per citarne un paio). La ospitano «La Gazzetta del Popolo», «Il Giornale di Sicilia» e «L’Ora» di Palermo, come si evince dal testo riportato su «Libri e riviste d’Italia», vol. 11, 1959 e sulla quarta di copertina de Gli affatturati.
De Stefani apparteneva, inoltre, alla generazione di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Analizzando la loro opera in senso lato si può notare come molte abbiano sperimentato la scrittura in versi, “nascendo poete”, ma affrontando poi una carriera soltanto nel campo della prosa o, talvolta, del giornalismo. Una delle ragioni – da noi già avanzata sul blog de «Le Ortique» – è la maggiore possibilità, in determinati momenti storici, di ottenere una visibilità che la poesia, riservata ad ambiti ristretti, non dava. Alcuni nomi – pochi – che restano legati esclusivamente – o quasi – a questo genere sono quelli di Sibilla Aleramo, Antonia Pozzi, Alda Merini, Maria Luisa Spaziani e Amelia Rosselli. Un’ulteriore motivazione potrebbe essere la possibilità di ottenere premi di valore (lo Strega, il Viareggio e altri), facendosi così strada in un panorama maschile a cui la poesia non dava (o non voleva dare) accesso.
L’esordio in versi e la raccolta postuma: tracce di “odeporica poetica”
La lateralità di De Stefani è marcata da una pubblicazione del 1940, Preludio, firmata Livia Signorini (il cognome del marito) ed edita da Ciuni, un piccolo editore palermitano. Oggi raccolta acclusa al volume del 2018 per Cliquot, Poesie in diesis uscì postuma, nel 2002, per l’editore Ianua, come evidenzia Maurizio Gregorini. A questo libro, l’autrice lavorò nei decenni Cinquanta e Sessanta, viaggiando di nuovo nella sua Sicilia, e poi all’estero: Londra, New York, Los Angeles, Grecia, Spagna e Stalingrado. Riordinò i testi come li leggiamo oggi, scegliendone con cura la scansione in quattro sezioni.
Si potrebbe parlare, nel suo caso, di odeporica poetica, con cui lei registra gli spostamenti di una vita in movimento: la poesia diventa un diario di viaggio congeniale alla visualizzazione dei ricordi di luoghi cari, così come un perfetto ‘barometro visivo’. La poesia matura di De Stefani presenta un andamento quasi prosastico, che permette al lettore di cogliere un gusto particolare per l’immagine, anti-fotografico. Essa è istantaneamente fissata su carta solo attraverso una ‘parola che vede’ e poi rielabora, risemantizza e risignifica soprattutto la dimensione spazio-temporale.
Prima di proseguire il discorso con altre considerazioni, si rende qui conto di altre uscite poetiche, per lei limitate nel tempo ma non poco interessanti dal punto di vista filologico: tra queste ce n’è una sul «Giornale d’Italia», con una scelta dal titolo Tormento e passione dei luoghi. Poi, nel 1955-’56 – salvo altri ritrovamenti –, De Stefani uscì con tre testi poetici su «La Fiera Letteraria» che, in quegli anni, ospitava poesie di autori noti. I testi di Racconto nel n. 16 del 17 aprile 1955, p. 4; poi di Ponza, Estate e di Luglio in Sicilia sul numero del 12 agosto 1956, p. 2, presentano poche ma non insignificanti varianti d’autrice rispetto ai testi noti nella raccolta postuma, segno che il lavoro di revisione era stato affrontato con attenzione (si veda, a tal proposito, il post apparso sul blog di «Le Ortique» dedicato a queste poesie ritrovate: https://leortique.wordpress.com/2021/12/17/livia-de-stefani-poesie-ritrovate/). Inoltre, c’è già per lei una spinta ad emergere, un desiderio di appartenere al mondo letterario.
Tornando all’esordio poetico con Ciuni, va detto che era famoso per la pubblicazione di saggistica storica in pieno fascismo e aveva infatti stampato, nel 1933, il volume Abba e la letteratura garibaldina dal Carducci al D’Annunzio del critico Luigi Russo, un possibile collegamento tra De Stefani e l’editore stesso, proprio per la conoscenza dei coniugi Signorini.
Preludio resta un volume fuori del contesto editoriale del catalogo, fatto che rende ostico un paragone con altre poetesse contemporanee. Questo si configura per De Stefani come un tentativo malnato di cercare una collocazione editoriale, di fatto estraniandosi; Palermo non era Lanciano, dove l’editore Carabba, ad esempio, pubblicava Alba de Céspedes con Prigionie (1936). Quella prova resta isolata e non favorita in alcun modo. Ci vorranno diversi anni per ritagliarsi un posto nel mondo, soprattutto con la prosa, come ha individuato nel suo saggio Antonella Ippolito (2015). La stessa studiosa ha messo in luce un fatto necessario per leggere la vicenda di De Stefani: indagando i carteggi custoditi presso la Fondazione Mondadori (Archivio storico AME), si è ricostruita una valutazione negativa delle poesie a cura di Giuseppe Ravegnani, Roberto Cantini e di Elio Vittorini, indirizzata ad Arnoldo Mondadori (Ippolito 2015, p. 25, note 20-22). Questo passaggio circoscrive le ragioni di un mancato tentativo di pubblicazione.
Nella prefazione a Preludio lo scrittore e critico Francesco Sapori – figura in voga durante il ventennio ma successivamente dimenticato – descrive tratti di affinità tra De Stefani e Pascoli, d’Annunzio e Gozzano, autori da cui lei sembra attingere liberamente, senza alcun tentativo di dissimulazione. È come se volesse certificare che la sua voce resta ancorata a una precisa linea di ricerca tradizionale; la sua autorialità inizia a strutturarsi secondo alcuni criteri riconoscibili e certificabili. Un paio di testi si possono leggere sul blog «Le Ortique» al seguente link: https://leortique.wordpress.com/2022/04/14/preludio-di-livia-signorini-le-prime-poesie-di-livia-de-stefani/
Una poesia lirica, odeporica e musicale
Il titolo Poesie in diesis richiama all’orecchio una liricità legata alla musica. La prima sezione, Notturni, comprende dieci testi modulati come delle sonate, dove l’intrico di ricordi di Livia bambina si unisce al paesaggio siciliano ma anche ad immagini di pura invenzione, non prive di accidenti (i diesis). Già Gregorini fa cenno a questa dimensione musicale plurima nei testi. I versi, con prevalenza di endecasillabi e settenari, intrecciano visioni strumentali, corrispondenze visivo-sonore e un protendersi all’interno della natura, come in Notturno n.1: «Il silenzio è uno specchio a più luci / dove il vero si sfascia e dilegua / in fughe di misteri. / Ora il dolore è una perenne nota / di zufolo che muore nell’aria» (De Stefani 2018, p. 64). L’animalità sonante è quasi sempre presente, come negli ultimi versi: «Ora rido soltanto al ricordo / di me bambina nascosta nel canneto / da dove chiamavano i cacciatori / col verso dell’allodola». Non è difficile immaginare un rimando a Chopin qui, anche nelle “fughe”: De Stefani conosce l’armonia e riesce ad appoggiare il campionario di immagini del proprio passato su una tonalità mai dissonante, appunto tra dimensione memoriale e visivo-sonora immersa nel mondo naturale. Assegnando una relazione significante tra scelta lessicale, stile e musicalità, la sua odeporica diventa, pertanto, musicale sia nelle sezioni Paesaggi italiani (la seconda) sia in Momenti della memoria (la quarta).
Secondo la critica, De Stefani utilizza il verso libero con andamento prosastico per fornire la propria idea del «tempo di una narrazione ancestrale» (Pini 2020), calata in luoghi topograficamente familiari, come si evince dai titoli delle poesie delle sezioni menzionate, che esprimono, tuttavia, «una geografia dai contorni indefiniti» (Pini 2020) e dunque astratta. Anche a proposito di Goliarda Sapienza, Fabio Michieli ha definito questa stessa modalità stilistico-testuale come la scelta (involontaria) da parte di numerosi autori e autrici di rappresentare il proprio «mezzogiorno letterario» di riferimento (Trevisan 2016, 136) secondo i termini che ritenevano più appropriati, astraendo anche dalla toponomastica. Quest’ultimo dato estende il discorso a numerosi altri nomi di poeti del sud: Rocco Scotellaro, Vittorio Bodini, Fabrizia Ramondino e, non ultimo, Raffaele Carrieri appena ripubblicato (Carrieri 2023).
Nella poesia di De Stefani sussiste un esplicito legame con Gabriele d’Annunzio, che si configura come un modello per numerosi poeti del secolo, e anche per le poetesse, com’è stato già dimostrato nel caso di Goliarda Sapienza (Trevisan 2022a). Considerazioni tematiche e stilistiche, ma anche un’analisi delle concordanze d’autrice – aspetti fino a oggi quasi inconfessati –, permettono di osservare il “laboratorio poetico” destefaniano e far emergere relazioni di affinità e divergenza tra la poetessa e d’Annunzio, particolarmente evidenti – appunto – sul piano lessicale. Le occorrenze dimostrano come anche lei, alla maniera di Sapienza, si addestrò sulla poesia dannunziana. Per il nostro discorso ha particolare rilievo la raccolta Alcyone, che è stata definita dalla critica come «il libro generativo della lirica novecentesca» (Gibellini 1995). Ciò non significa che le somiglianze non abbiano portato ad esiti diversissimi per entrambe ma che la fondazione di uno stile non è mai del tutto involontaria e, come sempre riconosce Fabio Michieli, sussistono delle citazioni inconsce che possono essere vagliate, analizzate e comparate per rivelare nuove letture. Come modello è certamente d’obbligo rifarsi al campionario Concordanza di Alcyone di Gabriele D’Annunzio (Lavezzi 1991) mentre l’edizione di Alcyone di riferimento sarà quella curata da Pietro Gibellini per Marsilio (2018).
Elementi di Alcyone in Poesie in diesis
Nel caso di De Stefani è opportuno, probabilmente, parlare di un modello diverso di “canzoniere-diario” rispetto all’Alcyone di d’Annunzio (Gibellini 2018), dal momento che il tema cronachistico e memoriale per la nostra autrice si dipana nella natura, nello spazio e nel tempo di «una sapienza antica, oggi conservata nei profumi, nei colori, nei suoni di una Sicilia che resta ancestrale, il cui patrimonio va tramandato dalla memoria, laddove cessa l’esperienza o la consapevolezza del valore delle tradizioni» (Pini 2020).
La ricerca poetica di «un senso del vago, una nostalgia, un lessico che non è solo familiare ma che è di una comunità e cosmico insieme» (Pini 2020), dunque folklorico, si configura come un chiaro rimando anche a quella koiné linguistica pascoliano-dannunziana inscindibile di cui ha parlato Pier Vincenzo Mengaldo (1975), ma che andrà valutata nel caso di De Stefani. La critica rinvia, ad esempio, alla triade Carducci-Pascoli-d’Annunzio (Ippolito 2015, p. 52).
Esiste, secondo il nostro punto di vista, una forte analogia con l’Alcyone, definito un «grande catalogo, un album illustrato, baedeker di un favoloso turismo estivo» (Andreoli 2000, p. 381): da qui De Stefani attinge consciamente, muovendosi alla ricerca di una struttura in cui la centralità del paesaggio risulta autentica, come già affermato da Pini a proposito di alcune poesie facenti parte di Paesaggi italiani: Il giardino dell’Orecchio di Dioniso a Siracusa, Un’alba a Vizzì, mia terra e Lochicello, com’era. Ancora Ippolito rivela qui una somiglianza con Digitale purpurea di Pascoli (Ippolito 2015, p. 52). De Stefani utilizza anche un lessico a prestito dal vocabolario regionale siciliano, ad esempio «incannate» (in Ponza nel passato, nella medesima sezione).
Considerando la triade d’Annunzio-Sapienza-De Stefani, i temi semanticamente rilevanti emergono principalmente attraverso la rappresentazione del paesaggio e della natura, come elementi comuni. D’Annunzio delinea tuttavia confini precisi, conferendo una definizione chiara ai luoghi descritti. De Stefani avrebbe colto anche un altro aspetto della poesia dannunziana, riconoscendo come funzionale l’utilizzo del verso lungo alcionio, una risorsa espressiva di cui sembra fare abbondante uso. Plausibilmente il suo orecchio, allenato alla poesia del vate, sottende anche una complessa serie di reciproci ascolti musicali (abbiamo citato Chopin), che andrebbe sondata con documenti d’archivio e strumenti d’analisi approfonditi. Si può rinviare il lettore ad articoli e saggi su questo rapporto nella poesia e nell’opera di d’Annunzio (Guarnieri, Nicolodi, Orselli 2008; Guarnieri 2014; Giani 2020).
Tornando al lessico poetico destefaniano, esiste una maggiore attendibilità nei confronti del modello-d’Annunzio, dal momento che alcuni indicatori testuali la sostengono. Poesie in diesis si compone di 52 testi distribuiti dall’autrice nelle sezioni già citate, cui aggiungiamo Paesaggi esteri. Se per Notturni abbiamo accertato quale profondità musicale si renda disponibile a De Stefani, il rimando dannunziano non può non essere riconosciuto, e forse sotteso, in un abile gioco semantico. Sempre Chiara Pini ha letto il linguaggio di De Stefani concentrando l’attenzione sulla centralità dei verbi, in grado di costruire le immagini naturali dei luoghi e dei paesaggi, ma ha riconosciuto anche, al contrario, «enunciati privi di verbi, in cui il lettore è chiamato a vedere, a udire, a percepire in maniera viva, a richiamare il passato nel presente, a immergersi in quel luogo del cuore, ed enunciati accomunati da un unico aspetto verbale, quello della durata nel passato» (Pini 2020). Il lessico, effettivamente, si concentra su alcune frequenze che richiamano d’Annunzio, sebbene la poetessa abbia deliberatamente optato per una «rifunzionalizzazione della fonte» (Lorenzini 2004) rendendola efficace e, al contempo, consapevole.
I campi semantici che si possono definire paralleli in d’Annunzio e De Stefani sono molteplici. Alcuni tra i termini specifici indagabili saranno indicati, con tra parentesi un numero di frequenza relativo. Si può partire con quelli dell’umano e del sonoro: la voce (24; 10) e il silenzio (39; 8) ma anche la memoria (4; 8), il sonno (5; 10) e anima (36; 1), così vivi (11; 3) e morti (11; 6) o la morte (23; 6) nelle sue varianti, a cui si possono aggiungere nudi (33; 9) e la nudità in genere, e poi, ancora, gli occhi (57; 16), il sangue (53; 9), il grembo (13; 8) e i passi (7; 9). Il campo del tempo è evidenziato da: alba (12; 3), mattino (4; 3), sera (16; 8), notte (25; 12), insieme a meriggio (7; 3). La luna (13; 4) e il sole (52; 22), così come l’ombra (81; 5), il cielo (59; 13), il vento (50; 11) e il mare (60; 12), inoltre i colori verde (31; 21) e bianco (60; 6) si dipanano in entrambi gli autori. Tra flora e fauna, invece, abbiamo: i platani (3; 2), le cicale (8; 6), i gelsomini (1; 3), gli oleandri (13; 1), e poi il giardino (5; 14).
Nel testo del Ritratto del giardino di Polistena di De Stefani riscontriamo molti di questi lemmi:
Più verde che nella memoria
io ritrovo verde, in agosto,
nel profondo sud il giardino
nascosto dietro il palazzo, entro l’alta
cintura di pietra, le mura vestite
d’edera e gelsomino.
Si penetra nel giardino
attraverso un pesante sipario di glicine,
pesante di tutte le foglie cresciute
durante l’estate, un sipario
di chiaro velluto trapunto
al piccolo punto
dei grappoli viola
di fiori tardivi.
Gli ulivi signoreggiano altrove.
Si penetra nel giardino
da un alto gradino
di pietra colore albicocca
su cui posano nere le ombre della gardenia
che esala dai suoi bianchi stellari
fiati di ghiaccio nel sole.
Dentro, un odore di viole
morenti nel calore della terra bagnata…
e la grande felce, a sinistra, nell’orcio,
come un mazzo di piume immote
sul cimiero di un guerriero sepolto.
Poi le due camelie giganti in ascolto
del silenzio, quella contro il muro a ponente
tutta buia del suo verde profondo,
l’altra esposta a levante d’un verde
più lieve, disunito,
da cui traspare il verde di bronzo brunito
della vecchia magnolia.
[…]
Ippolito riscontra nel testo anche una prossimità col Poema paradisiaco dannunziano (Ippolito 2015, pp. 52-53).
Nel ricordo di De Stefani, l’osservazione del naturale si satura di immagini familiari, quasi come se l’occhio si perdesse al loro interno, immergendosi in una profusione lussureggiante di colori, odori e varietà che pulsano con un vivace spirito siciliano. In parallelo, leggendo Feria d’agosto di d’Annunzio, che inaugura una collocazione precisa del diario alcionio, riconosciamo in una certa misura elementi comuni. Il giardino già nel titolo destefaniano e dannunziano del Poema paradisiaco, trova poche occorrenze in Myricae, mentre in Alcyone è uno spazio circoscritto menzionato in Ditirambo IV: «Furtiva nel giardino» (v. 117); «Oh giardino di spessi [aromi, carco…]» (v. 136); «In quel giardino muto» (v. 407). Anche il verde qui rappresenta un continuum dannunziano, dalla poesia L’oleandro: «le copre il volto e il seno un pallor verde» (v. 276); «Tutto è già verde linfa, e sola è sangue» (v. 329). Ma è forse l«orcio» che sorprende in questo testo: anche in Alcyone è un elemento presente, ne L’aedo senza lira e ne L’otre.
In Io, la cisterna, testo della sezione Momenti della memoria di Poesie in diesis, c’è un richiamo a d’Annunzio piuttosto lampante:
Torno torno alla cisterna
i rumori della piazza sono ramarri
che si rincorrono al sole. I passi
uno spiover di ghiaie dalle dita del giorno.
Io sono l’acqua, cielo disteso per le grondaie
in un buco di terra, acqua ridotta ad un vitreo
cerchio di buio, a immota pupilla fra nere
ciglia di capelvenere, io contemplo
lo spazio che mi separa dall’azzurro del giorno,
il giorno in transito sul ferro del mio coperchio.
Talvolta lo sollevano fanciulli
in cerca dell’eco di parole e allora i passanti,
teste mozze di passanti talvolta si sporgono
a contemplare quaggiù, giù in fondo
alla gola di capelvenere il liscio mio volto
ove posa l’azzurro, rovesciato.
Il passaggio «fra nere / ciglia di capelvenere» è un rimando a Il fanciullo alcionio: «ha neri gambi il verde capelvenere» (v. 143); «neri ha gli steli il verde capelvenere» (v. 163). La dichiarazione della presenza dei fanciulli, inoltre, pare testimoniare questo parallelismo, che è sempre – e anche – vocale, vocativo, odeporico e musicale. De Stefani, qui, esclude il verde ma menziona l’aggettivo azzurro, sempre contenuto in L’oleandro, una poesia cardine che troviamo citata in altri testi. Infatti, una probabile matrice dannunziana resiste nella già citata Ponza del passato: «Fermo odore di miele veglia dal cerchio di oleandri / il sonno dell’orto nel sole. / Scrosciano torrenti di cicale / senza infrangere il vetro del meriggio.» (vv. 1-4) e in Luglio in Sicilia: «Stupisce giù al mare, al mattino la voce / straniera dei galli ed ancora / al meriggio quell’altra dei dodici chicchi / sgranati nell’orologio municipale / nel pozzo del sole. / Fondono le cicale l’alterno / schioccare dell’onde in una sciarpa di silenzio» (vv. 8-14); questi testi, lo ricordiamo, erano già stati pubblicati su rivista per poi essere rimaneggiati, con l’espunzione degli elementi di un linguaggio probabilmente artificioso e poco aderente all’idea poetica di De Stefani. Tornando al nostro discorso, in effetti Meriggio è uno dei capisaldi dell’Alcyone, da cui pure Montale riprenderà senza dubbio; anche Pascoli si serve del lemma in due occasioni, tuttavia non ne fa il centro del testo. La stessa poesia Meriggio di De Stefani riporta il verso «e le cicale cantano su i platani» (vv. 5, 43), pertanto le cicale possono essere ricondotte a d’Annunzio. La poetessa risemantizza il lessico del vate, scegliendo in quale modo fondare il proprio stile sincretico, nel quale si innestano immagini realistiche e concrete, quasi postmoderne.
Un ultimo caso che si può fornire ruota attorno al sostantivo sangue, in Alcyone presente con ben 53 occorrenze, mentre in De Stefani con 9, nei testi – tra altri – di Sicilia: «Ma suprema delizia / del tuo essere grembo al muggito / del superstite sangue del mondo / che ancora rigurgita con sovrano splendore / dalla bocca del tuo vulcano» (vv. 16-20) e in Notturno n. 6: «sul tappeto che ti stesi fino al ciglio del mondo, / calpestano il mio sangue ma io ancora / non grido.» (vv. 8-10). In Il vulture del Sole d’Annunzio scriveva: «veggo del sangue mio splendere il mondo» (v. 14), ed è curioso come il binomio sangue-mondo sia risignificato da lei nei versi con una corrispondenza dannunziana quasi diretta.
Mentre d’Annunzio si abbandona a una liricità imponente basata sul mito, De Stefani sceglie di fare eco a quest’aspetto, come ha evidenziato Chiara Pini, tra passato ed escursioni al tempo presente. Questa dinamica è presente nella struttura dell’Alcyone, utilizzato come diario per catturare l’istante della scrittura, e la si ritrova nella sezione Paesaggi esteri di Poesie in diesis. Qui l’autrice devia il proprio discorso fornendo delle poesie-cartolina, simili a rappresentazioni sognanti: sono testi d’occasione che si presentano come un ‘baedeker sentimentale’ lontano da d’Annunzio e con una virata stilistica.
Un esempio di ciò è rappresentato da Londra:
A milioni, puntelli al greve cielo cadente,
i comignoli. Dolcemente la folla ruscella
giù per le gole della sotterranea.
I garofani rossi sul petto degli uomini
stridono fino a notte rossi canti d’esilio.
Trasmigrano a frotte i bus corallini.
Platani e ippocastani dormono affacciati
sui fiumi d’asfalto dove scorrono ruote.
E sui laghi d’erba dei parchi galleggiano
ghirlande di bambini.
Questa poesia fotografa, in prima battuta, la città dal cielo e il suo aspetto industriale, tipicamente storico. Poi, come a bordo di un drone, il lettore scende dolcemente verso il basso dove si mostra la metropolitana («sotterranea», traduzione di underground). Gli uomini esuli che appaiono hanno appuntati al loro petto i «garofani rossi», probabile simbolo della Rivoluzione portoghese che mise fine, nel 1974, al regime dittatoriale di Salazar. È una visione urbana, non priva di elementi naturali (il «greve cielo cadente» la «folla ruscella», i «platani e ippocastani») e con un riferimento a un tempo storico definito. La chiusa, con il riferimento alle ghirlande è pascoliana (da Myricae, in Il Giorno dei Morti) e dannunziana insieme.
In un altro testo, di cui offriamo i versi iniziali, restiamo nel paesaggio inglese: «Il mare cercato fra le mammelle delle colline / come latte sepolto, si rivela di ferro / al suo stento apparire là dove / i neri petti delle scogliere vanamente / si volgono al mezzogiorno». Questo testo si intitola Polperro in Cornovaglia: la località è un piccolo villaggio di pescatori a sud dell’Inghilterra. La percezione del naturale come territorio poetico con ripresa di lemmi dannunziani («mare», «ferro» e altri), qui, fa distinguere la voce di un’autrice che utilizza plausibilmente il verso alessandrino (v. 2), traducendo anche metricamente la visione sonora ed estendendo una liricità dello stile, deducibile già nella prosa. Dà vita a una porosità di genere autentica e intertestuale – sottolineata anche da Antonella Ippolito in più occasioni –, una matrice duplice che la contraddistingue.
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Chiara Pini, Livia De Stefani e i tempi di una narrazione ancestrale, «Le Ortique», 11.11.2020. (https://leortique.wordpress.com/2020/11/11/%E2%99%AB-livia-de-stefani-e-i-tempi-di-una-narrazione-ancestrale-3-poesie-3-letture-e-due-opere-visive/).
Alessandra Trevisan, Goliarda Sapienza: una voce intertestuale (1996-2016), Milano, La Vita Felice, 2016.
Alessandra Trevisan, Alcyone come modello nella poesia di Goliarda Sapienza. Prime osservazioni per uno studio in corso, «Archivio d’Annunzio» n. 9, ottobre 2022, pp. 205-221.
Alessandra Trevisan, La poesia di Livia De Stefani e i suoi modelli: per una prima lettura, «Metaphorica», n. 2, 2022, pp. 110-118.