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Sapienza, Goliarda

di Alessandra Trevisan, Enciclopedia dannunziana

D’Annunzio nel contesto di Sapienza

La presenza di d’Annunzio nella formazione di Goliarda Sapienza, prima nella sua attività di attrice di teatro e di cinema, e più in generale di collaboratrice nell’ambiente scenico, poi come scrittrice, è rintracciabile a partire dal contesto culturale e dal suo corpus, come aspetto intertestuale pressoché inedito.

Alcuni dei docenti della Regia Accademia d’Arte Drammatica di Silvio d’Amico, che iniziò a frequentare dal ’41-’42, erano stati vicini a d’Annunzio: un esempio è Wanda Capodaglio, che aveva portato in scena la prima del Ferro al teatro Valle di Roma (in contemporanea con Torino e Milano, nella parte della Rondine, gennaio 1914). Mario Pelosini, che ebbe una cattedra nell’istituto fino al 1950 – poi passata all’allievo Vittorio Gassman –, fu un «fine ‘dicitore’ dannunziano (amico personale del Vate) […] un pilastro dell’Accademia […], insegnando a generazioni di attrici e attori la materia della dizione metrica e poetica» (Giardini 2016) e fu inoltre, secondo la principessa Maria José, un «mirabile declamatore di d’Annunzio e di tutti i grandi poeti della nostra letteratura» (Regolo 2014); nel settembre 1940 interpretò l’Alcyone al Quirinale, accompagnato proprio dall’amica Maria José. L’Accademia, dunque, proponeva alcuni contenuti e un modello che, spesso, i giovani antifascisti rifiuteranno. Sapienza non potrà mai dirsi un’autrice impegnata, anche se alcune sue posizioni influirono nel percorso culturale e artistico che dovette affrontare: prima come partecipante alla Resistenza, con lo pseudonimo di Ester Caggegi (Providenti 2010, p. 93), fatto che era stato sostenuto dal padre, Peppino Sapienza, e dalla madre Maria Giudice, convinti socialisti con tendenze anarchiche, lui imprigionato a Regina Coeli insieme a Pertini. Poi Goliarda Sapienza fu vicina al PSI a ridosso del 1983 e, infine, fu sostenitrice del Partito Radicale dalla seconda metà degli anni Ottanta in avanti.

Nei Taccuini del 1990, descriveva così il periodo che precedette la liberazione:

notti brave pre-guerra del ’45 quando il coprifuoco ci fomentava la fantasia: fuori c’era la guerra, i tedeschi, la repressione tetra dei fascisti, ma noi in casa ce ne “sbattevamo”, termine dei maschi dell’epoca, di tutte queste stronzate ed affrontavamo la notte con risa, sogni di liberazione di avventure impossibili, di paradisi e benesseri eterni da venire … stare fermi a fumare e bere e mangiare quel poco che c’era, era una sfida a quel mondo di fuori regolato su false leggi moralistiche e che sotto i panni del guerriero nascondeva il vizio eterno dell’ubbidienza, viltà e borghesume trito. Era bello allora sforare la notte parlando di tutto quello che fuori era proibito, Kafka, Brecht, ascoltare Kurt Weill, Schuman, radio-Londra e sognare rivolte all’infinito (Sapienza 2013b, pp. 61-62).

Era quello un momento in cui le letture e gli scambi procedevano in una direzione completamente opposta rispetto a quella che gli ambienti ufficiali avevano promosso, sostenuti dal ventennio.

Quando conobbe Citto Maselli, nel 1947 a Roma, era una giovane appena uscita dall’Accademia di Silvio d’Amico e stava sperimentando l’esperienza del T.45, un gruppo eterogeneo formato da Silverio Blasi, Valeria Ravò e dal regista Mario Landi, che aveva portato in scena, al Quirino di Roma, Gioventù malata di Bruckner e La frontiera di Leopoldo Trieste; grazie a quelle interpretazioni, seppure in ruoli ‘minori’, si era fatta conoscere da Luchino Visconti (Trevisan 2018a, p. 99; Trevisan 2020, p. 55 n. 77, 564) e da Maselli (Micciché 1998, p. 19). Anche questi aveva fatto la Resistenza dal ’43, come raccontò in varie occasioni (Micciché 1998, pp. 17-18). Soprattutto, la sua famiglia era vicina a Luigi Pirandello, che era stato suo padrino di battesimo, ma anche a molti intellettuali che si erano opposti al fascismo, i quali frequentavano il salotto di casa in cui il padre Ettore, fine critico d’arte, dialogava con tutti: da Massimo Bontempelli a Paola Masino, da Corrado Alvaro a Emilio Cecchi, a Silvio ed Elsa d’Amico, appunto. Era un ambiente nutrito di politica e cultura; non casualmente la sorella di Citto, Titina, diventerà una pittrice.

Sapienza si muoverà negli anni Cinquanta vicina al compagno, girando con lui l’Italia per aiutarlo nei suoi documentari, che ritraggono personaggi reali, mestieri, feste paesane e momenti di vita; è il momento della grande scoperta che porterà anche Ernesto De Martino a sostenere le proprie riflessioni antropologiche. Sapienza seguirà Citto quasi come un’allieva silente o come una ragazza che guardava il mondo per apprendere dal cinema (Sapienza 2013b, p. 104) attraverso uno stile nuovo che Pasinetti, Antonioni, Vancini e poi Vittorio De Seta e altri avevano ideato e porteranno avanti. Non si conosce la partecipazione di Goliarda Sapienza alla scrittura del commento parlato dei documentari del compagno (Trevisan 2018b) ma è certo che «La macchina da presa – disse una volta – mi insegnò a vedere e a vivere la vita» (Seminara 2006, pp. 846-848).

Maselli era allora un uomo impegnato nell’ambiente del PCI e concepiva i propri ‘documentari lirici’ come delle opere che si distaccavano parzialmente dal neorealismo, in cui «il carattere un po’ didascalico, di ‘denuncia’, del film era attenuato da uno stile fortemente poetico e da immagini (volti di bambini e la tragica periferia urbana alla Sironi) di grande intensità» (Ravera 2016); ciò gli permise di essere notato e di iniziare una collaborazione proprio con Visconti.

Anni prima di quest’intervista, Micciché aveva posto una chiara domanda a Maselli: «credo si possa dire che per te il cinema, anche se si basa sul reale, mette in gioco immediatamente un livello estetico. Come si accorda questa esteticità, che tu non smetti mai di cercare, con il tuo interesse per il documentario, con questa tua voglia di stare sulle cose?» e il regista aveva risposto:

Il livello estetico è una cosa, l’estetismo un’altra. Ricordo le polemiche di quegli anni, tra i comunisti, sul «compiacimento». Umberto Barbaro non amava i miei documentari. Diceva: «Sono stupendi ma sono estetizzanti». Per lui c’era un elemento di compiacimento formale: gli Ombrellai erano parte di una coreografia, di un paesaggio urbano. E Bambini, sotto questo aspetto, gli somiglia. Il rischio, secondo Barbaro, era quello delle Novelle della Pescara di d’Annunzio, e cioè un apparente dato realistico ma in realtà, diceva Barbaro, una trasfigurazione: mistica in d’Annunzio, formalistica, estetica nei miei film. Anni dopo gli ricordai queste parole e lui si stupì (Miccichè 1998, pp. 19-20).

Sapienza continua probabilmente a maturare, frequentando il circolo di Maselli, una certa radicalizzazione del gusto estetico, per il cinema e per la scrittura che secondo lei deriva quasi direttamente dall’esperienza della macchina da presa. La generazione di Sapienza e poi quella di Maselli conoscevano da vicino l’opera di d’Annunzio. Esiste, perciò, una continuità diretta-indiretta nell’ambiente della sua crescita come autrice e questa attecchisce a partire da altre arti.

Un altro dato arriva a fine anni Cinquanta. Nel film I Delfini di Maselli (1960) che Sapienza seguì da vicino, secondo una parte della critica come non accreditata sceneggiatrice (Gobbato 2016) o come actor coach o ‘cinematografara’ (Rizzarelli 2018), in un dialogo tra Fedora Santini (Claudia Cardinale) e Mario Corsi (Sergio Fantoni) si fa menzione della Figlia di Iorio, come di una pièce che sarà messa in scena nel teatro della città in cui i giovani personaggi si muovono: una innominata Ascoli Piceno (Trevisan 2016, pp. 46-47). La scrittura di d’Annunzio resta su un piano d’interesse anche per gli ambienti nei quali sarà a lungo messo in discussione. Alberto Moravia, nel cui circuito rientravano anche Maselli e, in parte, Sapienza, scriverà alcune pagine fondamentali contro Cesare Pavese mettendo in relazione due poli: «dal decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio), si giunge al decadentismo trasmutato in comunismo (Pavese), ma i modi dell’operazione non cambiano» (Ieva 2000).

Accettare o non accettare d’Annunzio, leggerlo per poi introiettarlo, rifiutarlo a prescindere sono tutti poli della costruzione di percorsi differenti dopo la prima metà del secolo. Alessio Verdone (2021) dà infatti traccia di un ‘anti-dannunzianesimo’ prolungato nel corso del Novecento in poesia, ma una probabile influenza su Sapienza sarebbe evidente proprio a partire dai testi poetici della raccolta postuma Ancestrale.

Funzioni degli echi dannunziani nel linguaggio dell’autrice: nella poesia della raccolta Ancestrale

Scritta negli anni Cinquanta – riveduta nel decennio Sessanta –, raccoglie testi che da un lato pongono l’autrice tra le voci coeve che si occupano di poesia con un taglio rivolto a sud: da Rocco Scotellaro ad Antonio Bodini, comprendendo Anna Maria Ortese, Fabrizia Ramondino, Livia De Stefani e altri (Toscano, Trevisan, Michieli 2016, pp. 27-28; Trevisan 2022b, p. 118). È nel lessico e nelle frequenze che Sapienza si pone a dialogare con il modello dell’Alcyone rifunzionalizzando la fonte, ossia traendo da alcuni specifici testi della raccolta dannunziana alcuni dei lemmi principali destinati alla propria raccolta. Si porrebbe così, consciamente o inconsciamente, sulla linea della koiné pascoliano-dannunziana individuata da Mengaldo, ponendosi come «diversamente dannunziana» (Trevisan 2022a, p. 219).

La definizione fornita da Pietro Gibellini dell’Alcyone come «diario poetico [e ideale] su un sentimento del tempo» fondato su un’«idea circolare del tempo» (Gibellini 2018, pp. 24-25), sulla linea dell’«unità narrativa [in cui] anche lo spazio e i luoghi lo strutturano saldamente» (Andreoli 2000, p. 381), risulta valida anche per Sapienza. Se per lei la scrittura non procede regolarmente lungo un periodo limitato di una sola estate, l’ipotesi del ‘diario’ convince certamente per la dimensione del dies di alcune liriche, in cui il livello tematico emerge nelle dicotomie ‘giorno/notte’, ‘luce/ombra’, ‘vita/morte’.

Ta i molti possibili, alcuni esempi della risemantizzazione del lessico dannunziano in Ancestrale possono essere i seguenti. Sapienza costruisce su essi una certa circolarità: ‘acqua’, ‘luna’, ‘mano’, ‘mare’, ‘morte’ e ‘morto’, ‘notte’ e ‘sangue’. Essi si collocano soprattutto in una posizione mediana della raccolta, alle pagine 75-95. Dai testi:

Mi volsi nella notte

vidi la luna

fissarmi con la testa arrovesciata

Da lei seppi che i morti

hanno sete

nelle notti affocate.

(p. 75)

Come potrò resistere alla notte che già serra i gerani le mie mani.

Al delitto avvinghiata vaga la luna

della notte del Monte al mare squassato

fra gli scogli in attesa di una morte

(pp. 80-81)

Risalire devi il fiume del tuo sangue

fino alla fonte

là dove la morte

ha deposto le sue uova Là dove l’acqua

è trasparente.

(p. 93)

In Alcyone le occorrenze sopraccitate si riconoscono nella Sera fiesolana ma anche nell’Otre, La morte del cervo, L’oleandro e nel Novilunio.

Anche la ‘soglia’ è vocabolo dannunziano. Nell’autrice si riscontra nei versi a seguire: «Cadendo sulla soglia della tua porta / in ginocchio rimasi / coi polsi recisi» (Sapienza 2013a, p. 84) e «Porto in me morta una pena / e puntuale il sole morde / la calce lungo il muro / E puntuale / la lucertola torna alla mia soglia» (p. 86). Francesca Favaro ha riconosciuto ‘la soglia’ come motivo ‘orfico’ in Alcyone (Favaro 2020), qui supposto come continuativo anche per Sapienza: si legge, infatti, nella Sera fiesolana «mentre la Luna è prossima a le soglie» (d’Annunzio 2018, 120, v. 8) e nella Pioggia nel pineto «Taci. Su le soglie» (169, v. 1). Nel rifunzionalizzare la propria fonte Goliarda Sapienza opera un’analogia tematica e significante.

Riferimenti dannunziani nel romanzo Lettera aperta

In alcune pagine della versione integrale di Lettera aperta – composta presumibilmente tra il 1962 e il 1965 e inedita al grande pubblico (Trevisan 2020, p. 51) –, si nomina d’Annunzio e non un suo testo specifico. Si tratta di un ambito di contrasto politico, incarnato da lui a dispetto dei personaggi del romanzo autobiografico:

 Ho una gran paura, non vorrei mai trovarmi a lottare contro… Saragat con le armi di Saragat. Certo è difficile e se non ce l’hanno fatta loro come posso farcela io? Certo hanno lottato, ma i loro gesti di tutti i giorni, i loro accenti declamatori erano… ma già, c’era anche d’Annunzio (don Nunzio, come lo chiamò con sufficienza una volta Giovanni Grasso, se potrò vi racconterò l’episodio). Eh… sì, è imbarazzante: sono stati bravi, antifascisti, sindacalisti, ma non a caso mi hanno chiamato Goliarda, non ve l’avevo detto? Sì, Goliarda… Non vi ricorda niente questo nome? (Trevisan 2020, 221-2)

Giovanni Grasso era stata una costante nella famiglia di Goliarda Sapienza e un indiretto maestro per il suo approccio teatrale. In questo caso è chiaro che lui stava paragonando il vate a una figura di stampo mafioso.

Nell’edizione a stampa di Lettera aperta per Garzanti (1967) è uno dei fratelli di Goliarda, Ivanoe, ad affermare: «ti cercherò qualche opera di teatro che ti possa servire, diciamo, da antidoto a questo d’Annunzio» (Sapienza 1967, p. 22), riferendosi alla conoscenza e allo studio della drammaturgia che Sapienza stava affrontando come studentessa all’Accademia.

Ancora Goliarda e Ivanoe, nel capitolo 7 che introduce la morte di Ercole Maselli, padre di Citto, parlano a distanza nella memoria di lei:

Hai ragione, Ivanoe, non bisogna temere la morte, ma il delitto che c’è in natura, e che uccide a tradimento, prematuramente. «Leggiti Leopardi, Goliarda, invece di tutte queste poesiole mistiche che parlano del bene e del male, e che esaltano la natura. La natura è criminale. Il diavolo esiste, e dio è un’invenzione degli uomini per calmare la loro paura davanti al fulmine. Quando sarai in grado di leggerti l’antico testamento, Goliarda, vedrai che altro non è che il parto di menti primitive, non ancora in possesso di nessun mezzo per dominare gli elementi. Oggi forse avrebbero inventato qualche altra cosa.» (Sapienza 1967, p. 24)

La menzione indiretta di d’Annunzio fa supporre che il fratello si riferisca all’Alcyone, in questa pagina modello antitetico della poesia leopardiana, da alcuni studiosi considerata come anticipatrice dell’opera dannunziana (Zollino 2013). Si può aggiungere che, visti gli anni della composizione di Lettera aperta, cui segue la scrittura del Filo di mezzogiorno, dove appunto si richiama la scrittura di poesie, vi sia una congruenza tematico-autobiografica tra i diversi generi da lei affrontati e la revisione – ipotetica – dei suoi testi negli anni Sessanta. Nel passaggio la voce dei personaggi è la voce dell’autrice; come nelle altre attestazioni, la presenza dell’anti-modello dannunziano da distruggere – poiché ideologicamente fascista – si fa più forte.

La scrittrice riprenderà il rinvio intertestuale anche in altri scritti, rimasti inediti fino alla sua scomparsa, nel 1996.

D’Annunzio nelle scritture postume: prose ed epistolario

Nell’Arte della gioia – scritto tra il 1967 e il 1976 – è Carlo, tra i protagonisti, a menzionarlo, contrapponendolo a Puccini: «[Jose] Dice che fra i due mali prettamente italioti preferisce sempre D’Annunzio» (Sapienza 1998, p. 298) ed è lo stesso personaggio a dire a ’Ntoni: «Lo senti, eh, vecchio lupo, che lo stanno rivalutando D’Annunzio?» (Sapienza 1998, p. 605) in una scena narrativa vagamente meta-teatrale. Si inserisce nel solco di posizioni culturali che abbiamo già vagliato e che iniziano a prendere forma durante l’infanzia della scrittrice.

Nel romanzo breve Io, Jean Gabin – che potrebbe risalire al periodo 1967-69 oppure alla fine degli anni Settanta – viene verosimilmente citato il romanzo Il fuoco: «il fuoco purifica» (Sapienza 2010, p. 97) ma è il personaggio del Professor Jsaya – già presente in Lettera aperta – il maestro elementare che la istruisce privatamente in casa tenendola lontana dalla scuola fascista, a suggerire a Goliarda bambina di cercare un’altra espressione per narrare di quando la sua divisa scolastica di ‘piccola italiana’ fu bruciata da genitori socialisti e antifascisti sul terrazzo di casa.

D’Annunzio rappresenta un modello politico da contrapporre e da evitare, soprattutto in una famiglia come quella di Peppino Sapienza e Maria Giudice. Ciò non sembra turbare, tuttavia, l’animo della scrittrice, che riprenderà un concetto nei suoi Taccuini datati giugno 1990: «Mi aggiro come una sonnambula o meglio come qualcuno che non vive ma solo si vede vivere (credo sia una definizione di D’Annunzio, ma è precisa)» (Sapienza 2013b, p. 82). Attribuendo erroneamente un concetto pirandelliano a d’Annunzio – oppure, forse, richiamando il ‘vivere inimitabile’ che il poeta aveva proposto (Andreoli 2000) , sovrappone due modelli, li fa collidere creando un cortocircuito e, per di più, riafferma la distanza da d’Annunzio con l’avversativa «ma è precisa».

Se nel primo paragrafo è stata considerata la posizione di Maselli nel proprio campo artistico, si può concludere quest’esplorazione menzionando alcune scritture private. In una lettera indirizzata all’amica attrice Piera Degli Esposti (non datata; post quem 2 ottobre 1977), Sapienza scrive:

Piera cara,

[…] Quando dico “imitare” lo dico in senso necessario a tutte le crescite. Cresciamo per imitazione. Anche io ho avuto e ho i miei modelli – che cambiano beninteso – e solo attraverso loro sono stata in grado di essere oggi come sono. Forse niente di speciale, ma almeno anticonformista e quello che è più importante “serena”.

Ti parlo di me perché anch’io sono stata malatissima (quattro anni nella pubertà e tre anni dai venti ai ventitré) e, cosa agghiacciante, malattia simile alla tua, lunga, con interventi dolorosi ora al collo ora al seno ora all’inguine.

Piera cara, come sono arrivata a essere fino a oggi così diversa da meritarmi una frase scherzosa come “Fai schifo per quanto sei sana?”. Non ti dico di chi è questa frase. Non è che il solito individuo che si attiene ancora a modelli culturali del 1930 e crede che il bello si annidi nel pallore, nella malattia e nel dolore. Un ragazzo oggi direbbe “È antico”.

Ma per tornare a noi. Anch’io allora davanti al male che si riproponeva costante dovetti concentrare tutte le mie forze psichiche per vincerlo e in questa ricerca – che, come sai, è fisica e intellettuale – scoprii la beffa atroce che si nascondeva dietro tutte quelle teorie estetiche che vanno da Baudelaire a D’Annunzio a Genet e cominciai a rivolgermi ad altro.

Tua Goliarda

(Sapienza 2021, pp. 273-274)

Il rimando a d’Annunzio qui certamente può dirsi sullo stesso piano critico avanzato da Maselli, come in un’altra lettera inviata da Bolzano il 16 dicembre 1978 e rivolta a Bambù (Bamboo Hirst). Sapienza circoscrive l’estetismo della casa di una conoscente dal nome Virginia: «si è rivelata qualcosa di molto interessante: ambiente alla Poe con un pizzico di D’Annunzio, ma con molta cultura e raffinatezza, e… mistero. Tutto l’insieme avrebbe fatto la gioia (estetica e professionale) di Luchino» (Sapienza 2021, p. 328). Si immerge ancora nella dimensione culturale che l’ha nutrita da giovane e che le dà conforto.

Bibliografia essenziale

Edizioni

Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Milano, Garzanti, 1967.

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Roma, Stampa Alternativa, 1998.

Goliarda Sapienza, Ancestrale, Milano, La Vita Felice, 2013.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia: taccuini 1989-1992, a cura di Gaia Rispoli, Torino, Einaudi, 2013.

Bibliografia secondaria

Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000.

Francesca Favaro, Su Gabriele d’Annunzio poeta orfico. Le soglie dell’Alcyone, «Rivista di letteratura italiana», 2020, 3, pp 129-36, (https://doi. org/10.19272/202002203007).

Matteo Giardini, La concessione di un frammento antico. Vicende capitoline dopo la morte di Ercole Luigi Morselli, in Tutto il teatro di Ercole Luigi Morselli, a cura di Zidarič Walter, Roma, UniversItalia, 2016.

Pietro Gibellini, Introduzione, in Gabriele d’Annunzio, Alcyone, Venezia, Marsilio, pp. 17-42.

Emma Gobbato, Goliarda Sapienza sceneggiatrice. Il caso “I delfini” attraverso un carteggio inedito, tesi di dottorato, Università degli Studi di Sassari, a.a. 2015-2016.

Saverio Ieva, Moravia contro Pavese. un esempio di critica «parodica»?, «Italies», 2000, 4/2, pp. 425-446.

Gli sbandati di Francesco Maselli: un film generazionale, a cura di Lino Micciché, Roma, Associazione Philip Morris progetto cinema; Torino, Lindau, 1998.

Giovanna Providenti, La porta è aperta. Vita di Goliarda Sapienza, Catania, Villaggio Maori, 2010.

Marco Ravera, L’ultimo neorealista. Intervista a Citto Maselli, «La Sinistra Italiana», 9/02/2016, (http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/lultimo-neorealista-intervista-a-citto-maselli/).

Luciano Regolo, Così combattevamo il Duce. L’impegno antifascista di Maria José di Savoia nell’archivio inedito dell’amica Sofia Jaccarino, Nova Gorica, Kogoj, 2014.

Maria Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia, Roma, Carocci, 2018.

Elvira Seminara, Goliarda Sapienza, in Siciliane. Dizionario biografico, a cura di Marinella Fiume, Siracusa, Emanuele Romeo editore, 2006.

Alessandra Trevisan, «Recitando si impara a scrivere»: Goliarda Sapienza a teatro, tra biografia e documenti inediti, «Sinestesieonline», 2018, 23, pp. 94-110 (<https://sinestesieonline.it/wp-content/uploads/2018/06/maggio2018-13.pdf>).

Eadem, A margine delle prime prove di scrittura di Goliarda Sapienza, «Carte Allineate», 67, agosto 2018, (<https://cartescoperterecensionietesti.blogspot.com/2018/08/alessandra-trevisan-margine-delle-prime.html>)

Alessandra Trevisan, Goliarda Sapienza: una voce intertestuale, Milano, La Vita Felice, 2016.

Alessandra Trevisan, «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza, Roma, Arance, 2020.

Alessandra Trevisan, Alcyone come modello nella poesia di Goliarda Sapienza. Prime osservazioni per uno studio in corso, «Archivio d’Annunzio», 2022, 9, pp. 205-221.

Alessandra Trevisan, La poesia di Livia De Stefani e i suoi modelli: per una prima lettura, «Metaphorica», 2022, 2, pp. 110-118.

Alessio Verdone, La poesia italiana del Novecento e la funzione d’Annunzio: ipotesi di lavoro, «Archivio d’Annunzio», 2021, 8, pp. 237-252, (http://doi. org/10.30687/AdA/2421-292X/2021/01/013).

Antonio Zollino, D’Annunzio fra Nietzsche e Leopardi. Evocazioni testuali e pause del tempo in Meriggio e L’infinito, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», 2013, 16, pp. 109-28, (https://doi.org/10.4454/nrli.v16i1-2.131).

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