di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana
Il piacere
Con un drastico cambio di scenario rispetto alle novelle d’Abruzzo, il primo romanzo di d’Annunzio (D’Annunzio 1988, Il piacere, in PR, I, P) privilegia un’ambientazione aristocratica romana, entro la quale, intorno a «due donne e un uomo e tutt’e tre eletti [corsivo d’A.]» per «spirito» (D’Annunzio, LN, in Forcella 1939, 28) e status, si fa agire un pittoresco coro di dame e nobiluomini, di demi-mondaines, bari e avventurieri. Parte della materia cui attinge l’inventio dell’autore è il «vero» (P, 4), sia pur largamente filtrato dal cronista del bel mondo sulle riviste della capitale (Roncoroni, in D’Annunzio 1981; Ciani 1977; Andreoli, in PR, I, 1141, 1164-1165, et al.; Caliaro, in D’Annunzio 2009, 405-420). Tuttavia, intendendo far opera nuova rispetto al quadro italiano, d’Annunzio si rivolge a tecniche e temi di respiro europeo, quali la coniugazione parnassiana e simbolista, da Gautier a Baudelaire a Huysmans, di scrittura, musica e arti figurative in associazione a personaggi e vicende; o quali i tópoi d’origine romantica di più largo successo nella veste fin-de-siècle: i connubi devianti o morbosi; la contaminazione di sacro e profano; l’impero dei sensi esercitato dalla figura femminile e il mito d’una bellezza «acre e fatale», con un che d’androginico e meduseo, che l’esteta inglese Walter Pater aveva di recente incarnato nei dipinti di Leonardo (Tamassia Mazzarotto 1949, 415; Praz 1966, 227-230; Pater [1869] 1961, 103-125).
L’attenzione al contesto europeo si riflette in un trattamento intertestuale nutrito di letture le più diverse e numerose: il deciso ampliamento, grazie soprattutto all’anglista Enrico Nencioni (Giacon 1985), delle frequentazioni inglesi (Shakespeare, Keats e Shelley, Dante Gabriel Rossetti, Mary Robinson e Vernon Lee); la scoperta di Goethe e Schopenhauer e, soprattutto, il ricorso alle fonti francesi, individuate in una direzione principalmente post-naturalista ed estetizzante: le preziosità descrittive di Gautier, poeta e romanziere; la lezione di Théodore de Banville che presiede alla “teoria” del verso di Andrea Sperelli; il simbolismo di Baudelaire e Amiel; la scrittura en artiste dei Goncourt; lo psicologismo di Bourget, analista del disagio del secolo e acuto osservatore d’ambiente; la sensibilità malade di Huysmans e Péladan; le derivazioni dal Taine, non solo il maestro del determinismo biologico cui ancora rinvia il ritratto di Sperelli, ma anche il raffinato colorista en voyageur nella capitale e dintorni (Giacon 2009, 206-207; Bertazzoli 2015, 188); senza escludere nuovi apporti, in aggiornata consonanza coi tempi, da Flaubert e da Maupassant.
All’interno di simile ampiezza derivazionale, le modalità di fruizione restano quelle praticate nelle novelle: un montaggio di prelievi a mosaico da un medesimo autore o da autori diversi in contemporanea. Al contempo l’impianto analettico, che su modello maupassantiano era esperito già nel San Pantaleone, ora s’estende a larga parte del racconto aprendosi all’impetuoso io lirico di d’Annunzio e al suo epifanizzarsi nella descrizione di personaggi, interni, paesaggi.
Gli esiti intertestuali più ingegnosi si riscontrano nei ritratti dei personaggi femminili, prodotto di un intarsio squisito quanto lontano da ogni realismo. Per i suoi riferimenti analogici ad artisti del Rinascimento (Leonardo, Correggio, Bernini) e della contemporaneità (Reynolds, Rossetti, Alma Tadema) d’Annunzio attinge alla trattatistica pittorica coeva (Chesneau, Lafenestre), tenendo sempre d’occhio la descriptio di Agnolo Firenzuola con la sua messa a fuoco ordinata delle parti del corpo muliebre. Tuttavia, per il giusto fiato narrativo, egli si rivolge alle tecniche focalizzanti della recente letteratura transalpina: il capo e la capigliatura, il volto e le sue parti, le spalle e l’insieme delle membra sono oggetto d’inquadrature effettuate in primo piano o entro un’ékphrasis che dalla figura intera s’avvicina “filmicamente” ai singoli particolari corporei. L’impiego di tal genere di pars pro toto molto deve ai Goncourt di Idées et sensations e più di qualcosa al Péladan dell’Initiation sentimentale (cfr. P, I, i, 6, 24-25; I, ii, 42; III, iii, 299, in Andreoli, PR, I, 1143, 1151, 1158-1159, 1231). In particolare, per quanto riguarda la ricorrente caratterizzazione vinciana di Elena Muti (Gibellini 2018, 220-223), riporta ai goncourtiani Mémoires de la vie littéraire, «Femme […] aux yeux étranges qui semblent rire, quand sa parole est sérieuse […] le sourire plein de nuit de la Joconde», il «singolar contrasto di espressione», similmente associato a Monna Lisa, «negli occhi e nella bocca» dell’eroina dannunziana (cfr. P, I, i, 25 e Goncourt 1888, I, 317, in Giacon 2016, 139, 160). Da questo leonardesco ritratto non va però escluso l’apporto del Bourget di Heures de regret, già fruito nella Gorgon della Chimera (Palmieri 1955, 124-125; Ciani 1977, 30; Tosi 1985, 180).
Inoltre, per talune inquadrature ravvicinate degli occhi e delle mani di Elena (P, I, ii, 49, 53) appaiono rilevanti le derivazioni dal Bourget di Cruelle énigme e Mensonges (1885, 1887, in Bourget 1900, I: cfr. Giacon 1985, 216, 268), mentre la fruizione «incrociata» del Flaubert di Salammbô (Flaubert 1964, I, 758) e del Gautier di Mademoiselle de Maupin (Gautier 1878, 64-65) sta alla base d’un composito ritratto delle mani (unghie incluse) della Muti (in P, I, ii, 65: cfr. Giacon 1985, 219). Al celeberrimo romanzo gautieriano (1835) s’informa anche l’analogia tracciata tra la melancolica bellezza della deuteragonista Maria Ferres e quella dell’«Antinoo Farnese» (P, II, ii, 161): un riferimento apportatore d’un marcato tratto androginico suggerito dalla descrizione di Théodore, che, donna in vesti maschili, appare al cavalier d’Albert più bello di «Antinoüs, l’ami d’Adrien» (Gautier 1878, 208). Di poi, applicando la duplicità androginica alla voce di Maria («Era una voce ambigua, direi quasi bisessuale, duplice, androgìnica», P, II, ii, 165), di tale tema approfitta d’Annunzio per attivare, sulla scorta del Maupassant di Fort comme la mort (Tosi 1978-c, 10-14), l’identificazione e infine lo scambio sessuale fra le protagoniste (Giacon 2016, 139-140, 160).
Nella rappresentazione degli interni il trattamento intertestuale non consegue risultati sempre felici. Senza dubbio originale la re-invenzione dei prelievi da Huysmans, dal cui À rebours (Huysmans 1884) d’Annunzio ha derivato, nella contaminazione di sacro e profano, i liturgici arredi della camera da letto del suo eroe (Tosi 1978-b, 25-29; Andreoli, in PR, I, 1219); similmente abile la fruizione del Bourget di Mensonges, che ha fornito parecchi spunti sia alla linea generale della vicenda (Tosi 1978-b, 25; Tosi 1985, 181) sia all’episodio del ricevimento presso l’Ateleta durante il quale Sperelli incontrerà la Muti (P, I, ii: cfr. Giacon 1985, 267); e, ad impreziosire il décor del palazzo Roccagiovine, ben riuscito è il trapianto di minute giapponeserie dalla goncourtiana Maison d’un artiste (P, I, ii, 55: cfr. Tosi 1978-b, 32). Troppo ampia, invece, e meno meditata, tanto da rendersi scoperta già ai lettori coevi (Thovez 1896, in Thovez 1921, 52-60), è la fruizione dell’Initiation sentimentale di Joséphin Péladan (1887, in Péladan 1979), fonte dei riti sociali piccanti, degli accoppiamenti sessuali devianti e del malevolo chit-chat interni ai palazzi romani (Guabello 1948, 381; Tosi 1978-a, 47 e 1978-b, 25; Caliaro, in D’Annunzio 2009, 426, 432).
Per gli esterni del Piacere, scenografici fondali dal realismo spesso improbabile, è più difficile indicare referenti precisi. Fuor di dubbio, tuttavia, che la paesaggistica en plein air, specie nel Libro II, sia governata dai moti di un io liricamente proteso a rintracciare simboliche correspondances con il proprio nucleo profondo: in compagnia di Baudelaire, ma soprattutto di Frédéric Amiel, il cui generale principio, «Un paysage quelconque est un état de l’âme» (Journal intime, 31 ottobre 1852), ha guidato d’Annunzio anche nella recezione di Schopenhauer (Amiel 1949, in Tosi 1976, 239-251; Caliaro, in D’Annunzio 2009, 434-439). Per tradurre simile «état» in concreta pratica testuale, d’Annunzio si avvale di quel patrimonio descrittivo transalpino assimilato fin da Primo vere ed esperito durante l’intero corso delle novellistica successiva (cfr. Giacon, Fonti francesi nelle novelle 1-2), con la sua tavolozza di cromatiche nuances (verdiccio, giallognolo…) e le metafore stilizzate della ‘navigazione’ di nuvole e vapori, del ‘velo’, del ‘latte’ e del ‘gregge’ celeste (velario, velli e nuvoli fioccosi, luce lattea…): come in P, I, ii, 38, «Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro […], sotto un ciel quasi latteo […]», trasparente ripresa dei Goncourt di Madame Gervaisais (Andreoli, PR, I, 1157; Caliaro, in D’Annunzio 2009, 424); ma anche, con certa discontinuità d’intonazione stilistica, rimbalza dalle novelle l’accesa prosopopea degli elementi cara ai romanzi di Zola («Vapori sanguigni e maligni ardevano all’orizzonte […]; […] un viluppo di nuvoli […] simile a una zuffa di centauri immani sopra un vulcano in fiamme», P, II, i, 137; corsivi nostri).
Quanto al rapporto, mai facile in d’Annunzio, tra descrizione e azione, anche nel caso degli esterni l’autore del Piacere è ricorso a Flaubert. Nell’adieu au grand air della Muti a Sperelli sullo sfondo del paesaggio nomentano (P, I, i, 7-13, ma è già Il commiato del San Pantaleone), il drammatico annuncio di Elena presso l’Aniene (P, 9) e la resistenza da parte di Andrea al triste congedo (P, 10) poggiano su stringhe descrittive estratte dall’Éducation sentimentale e da Un cœur simple (Thovez 1896, in Thovez 1921, 80; Tosi 1978-a, 49); rinvia invece a Madame Bovary la descrizione connessa al ritorno della coppia in città, in cui, ai raggi dell’occaso, le acque dell’Aniene «in lontananza […] prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d’olio e di bitume» (cfr. P, 11 e Flaubert 1964, I, 661, in Giacon 2016, 141, 161).
Nell’insieme, la fruizione intertestuale del Piacere dà prova di un’avanzata capacità di re-invenzione, ma l’alto grado di complicazione del suo eclettismo è indizio di un’identità artistica ancora incerta tra realismo e simbolismo, vero oggettivo e lettura soggettiva del reale, tra prosa e poesia.
Giovanni Episcopo
Steso tra la fine del ’90 e i primi mesi del ’91, tra febbraio e marzo sulla «Nuova Antologia», Giovanni Episcopo giungerà a sciogliere l’impaccio poietico che durava dall’interruzione, alla fine dell’89, del romanzo L’Invincibile. Un buon anno di proficuo silenzio, in cui d’Annunzio si aggiornava sulle nouveautés del mercato librario, l’opera dei russi in particolare (Chiara 1981, 70), e seguiva con estrema attenzione il dibattito sul romanzo che si stava svolgendo oltralpe almeno dall’87, con la presa di distanza dei naturalisti d’ultima generazione dal Maître Zola (Le Manifeste des Cinq) e con la diagnosi del teorico wagneriano Téodor de Wyzewa sull’inadeguatezza della narrazione coeva (Wyzewa 1887, in Tosi 1981-b, 24-26). In tale ambito, di particolare rilevanza era l’uscita nel ’91 della Enquête sur l’évolution littéraire condotta da Jules Huret, fra le cui varie voci l’inquieto scrittore avrebbe colto con deciso interesse quella del «néo-réaliste» e «positiviste littéraire» Joseph Caraguel, che, proponendo la coniugazione di arte e scienza, affermava la necessità di studiare «les êtres et les choses directement, sans transposition aucune» (Tosi 1976, 227-228). La proposta del Caraguel sarebbe cioè intesa da d’Annunzio come un primo passo verso una forma d’arte nuova, che conciliasse «le verità sperimentate» della scienza con la rivelazione di «indizii di verità ancora nascoste», sì da restituire «all’arte […] il meraviglioso». Tale principio, espresso il 31 gennaio del ’92 nell’articolo Il romanzo futuro (D’Annunzio, SG, 17-21), era tuttavia formulato un mese prima nella dedica alla Serao dell’Episcopo in volume, dove si riecheggiava puntualmente il Caraguel: «Tutto il metodo sta in questa formula schietta: – Bisogna studiare gli uomini e le cose Direttamente, senza transposizione alcuna» (D’Annunzio 1988, PR, I, GE, 1028, corsivo d’A.; cfr. Tosi 1981-b, 28-30). Si suggellava così a posteriori il metodo “documentale” impiegato nel romanzo, ricostruzione del dramma di un mite archivista, che, caduto nel laccio d’una donna senza scrupoli, finisce per sposarla e poi ne subisce i continui tradimenti. Doppio della procace Ginevra è un losco figuro, Wanzer, che s’installa in casa di Episcopo e detta legge. Tutto sopporta «quell’uomo dolce e miserabile», ma, quando vede Wanzer metter le mani sul figlio Ciro, una «forza» tutt’affatto sconosciuta lo spinge all’assassinio. Già da tempo schiavo dell’alcol, l’infelice racconterà la propria storia alla «sagoma silente» di un «interlocutore azzerato […] chiamato in causa tramite una congerie di martellanti […] appelli» conativi (Crotti 2021, 119).
In rapporto dunque all’aggiornamento teorico dannunziano, si giustifica la sperimentazione di temi e forme d’espressione finora intentati: a partire dai romanzieri russi, che, di moda in Francia anche grazie al de Vogüe (Le Roman Russe, 1886), erano ivi tradotti nel corso degli anni Ottanta. D’Annunzio fruisce in tal modo dell’opera di Dostoevskij (Martignoni 1979, XII-XIII, XVI-XVII), un’ascendenza che, ben avvertibile nella ripresa dei temi del delitto e del pentimento, si palesa nella stessa struttura del memoriale «a catastrofe già avvenuta» (De Michelis 1960, 108, per Kròtkaja) e soprattutto stilisticamente, nel franto dialogismo del protagonista narrante.
Inoltre, la fonte d’ispirazione dello scrittore russo ben si sposa con il «fantastico» di Maupassant, in particolar modo con l’Horla, ove il protagonista nel suo allucinato monologo richiama la figura di Episcopo per l’essere soggetta alla «sensation physique […] d’être entouré de presences invisibles, cerné par l’inconnu» (Tosi 1976, 232; Tosi 2013, I, 529). Oscuro è infatti alla coscienza di Giovanni il magnetico potere di Wanzer, che lo rende vittima d’una volontà aliena proprio come l’attore dell’Horla. E similmente è ignota ad Episcopo la ragione dello stato inerziale che lo fa succube anche della moglie Ginevra. Tuttavia, a differenza della sua creatura di carta, l’artefice d’Annunzio ha la possibilità d’inoltrarsi nei misteri della psiche facendovi luce grazie alla scienza, ossia al Taine del trattato fra fisiologia e clinica psichiatrica De l’Intelligence (1870), e agli studi di psicopatologia e antropologia criminale ad opera della «Scuola positiva» francese e italiana di fine secolo – un interesse in d’Annunzio avviato dalla frequentazione, a Roma, del fisiologo Jakob Moleschott –, incentrati sulle malattie della personalità, sulla psicologia del delinquere e i meccanismi di soggiacenza a un carnefice avvertito imperioso al punto da esercitare una forma di fascinazione, come appunto quella del predatore Wanzer e della stessa Ginevra, una dominatrice e torturatrice nata.
Al tempo stesso, per sorreggere diegeticamente il farneticante dettato di Giovanni, d’Annunzio si rivolge al Maupassant dei contes du prétoire, cronache giudiziarie su crimini di varia entità e natura e tutte campioni di singolare pregnanza. Esperita la brevitas maupassantiana nel San Pantaleone, d’Annunzio ne trova ora applicazione nell’Assassin, ricostruzione per bocca dell’imputato Lougère, un impiegato di banca «doux et timide», dei moventi che l’hanno indotto a compiere un efferato delitto. Sposata in seconde nozze la cassiera d’una birreria, egli sarà tradito da costei «avec tous les employés de son bureau» e persino col figlio del direttore della sua banca. Licenziato con una spietata rivelazione, Lougère ucciderà il direttore conficcandogli un paio di forbici in gola (Maupassant 1974-1979, II, 991-995, in Giacon 1992, 109). Patenti le corrispondenze: sul piano dell’ambientazione impiegatizia, della caratterizzazione dei personaggi nei loro ruoli di vittima-carnefice, e della fabula (il matrimonio contratto dalle due donne per sola convenienza, l’adulterio, lo scandalo con la caduta in disgrazia del protagonista, il delitto). L’ascendenza di Maupassant resta verificata anche a livello di microtestualità: nell’adozione d’una cellula narrativa assai cara al realismo d’oltralpe come la ‘passeggiata’ e caratteristica dello scrittore francese nel tipo ‘a quattro’, con la coppia degli adulteri davanti, il coniuge tradito e un altro personaggio in posizione arretrata a significare il voyeurismo degli esclusi. Così è avvenuto nella passeggiata di Episcopo («Ginevra e Doberti andarono davanti, io e l’altro rimanemmo indietro», GE, 1071, corsivo nostro), in cui d’Annunzio è puntualmente ricorso alla novella L’Héritage (in Giacon 1992, 109-110 e 124-125).
Per la sua brevità, ma anche per l’accresciuta abilità contaminatoria dell’autore, Giovanni Episcopo dà prova d’una fruizione intertestuale più omogenea e coesa rispetto all’eclettica costellazione del Piacere. Quanto induce a vedere nel «piccolo libro» un interessante amalgama d’influssi e derivazioni, che, per ora in larga parte potenziali, si osserveranno felicemente in atto nell’Innocente.
L’Innocente
Composto fra la tarda primavera e l’estate del 1891, L’Innocente (D’Annunzio 1988, PR, I, I) volge in ampia forma narrativa le fonti d’invenzione e i materiali stilistici di recente saggiati nel Giovanni Episcopo, in primo luogo approfondendo la frequentazione degli studi coevi, italiani e francesi, di antropologia e psicopatologia criminale. Conforme al determinismo tainiano, Tullio Hermil reca inscritti nel suo corredo i sanguinari «caratteri ereditarii» del suo ceppo spagnolo; lo apparenta al lombrosiano «uomo delinquente» (Lombroso 1889) l’insorgere di raptus delittuosi nei confronti del rivale in amore Filippo Arborio e dell’infante Raimondo, frutto dell’adulterio della moglie Giuliana; rinviano alle indagini sulle maladies de la volonté e de la personnalité (Ribot 1883, 1885) l’insensibilità di Hermil nel tradire la moglie e l’abulica inerzia che lo rende incapace di sottrarsi alla passione per Teresa Raffo. D’ispirazione scientifica anche l’acuta messa a fuoco delle pulsioni aggressivo-distruttive entro la relazione coniugale (il rapporto sado-maso fra Tullio e Giuliana) e il tema della «coppia criminale» e «infanticida» (Régis 1880; Sighele 1889; Balestrini 1888), con la messa in atto da parte di Hermil, ma silenziosa complice Giuliana, dell’assassinio dell’«innocente».
Un esame ravvicinato del romanzo pone in luce come le sue molte fonti siano trascelte in un felice accordo di temi, lingua e stile, tutte collaborando al conseguimento d’una medietas espressiva che fa dell’Innocente «”il più romanzo” dei romanzi» di d’Annunzio (Gibellini 2023, 241). In particolare, la “clinica” spietata della vita di coppia e della psiche delinquenziale ben si coniuga con il persistente influsso dostoevskijano: con la novella Kròtkaja, pietosa vicenda, che per più d’un aspetto ricorda quella di Giuliana, d’una mite fanciulla indotta al suicidio dalla durezza del marito, e con l’ascendenza di Delitto e castigo, del quale, oltre a luoghi precisi (Hermil è un novello Raskól’nikof), si riprende, come già nell’Episcopo, il registro franto e interiettivo del débat. Ma la tecnica dostoevskijana fa ora tutt’uno con il Bourget di romanzi à thèse quali André Cornélis (caso d’un omicidio) e Le Disciple (d’un suicidio indotto). A quest’ultimo d’Annunzio si è specialmente rivolto trasferendo ad Hermil il metodo della tormentata analyse che Robert Greslou esercita su se stesso in forma d’un memoriale scritto dal carcere: nella veste dell’io monologante, è il medesimo impianto analettico che si ritrova dalla prima all’ultima pagina nell’Innocente.
Per la forma del memoriale-confessione, oltre che per il tema dell’omicidio, d’Annunzio ha sicuramente guardato anche al Tolstoj della Sonata a Kreutzer e del dramma La potenza delle tenebre, ma, per quanto rilevante sia l’ascendenza degli scrittori russi sull’Innocente, è soprattutto alla Francia che bisogna guardare, dove, oltre ai delittuosi romanzi bourgettiani e agli “estratti” zoliani di psicopatologia criminale (La terre, 1887; La bête humaine, 1890), s’impone la cruenta evidenza dei contes du prétoire di Maupassant. Saggiato tal genere narrativo nell’Episcopo, ora se ne estrae la spina dorsale del romanzo, ossia quel «racconto dell’infanticidio» di cui d’Annunzio discorre alla Leoni a stesura appena avviata (D’Annunzio, LB, 19 maggio 1891 (814), 626): un giudice di tutto rispetto confessa alla famiglia d’aver ucciso, esponendolo alla gelida aria invernale, il figlio avuto dall’amante (La Confession, in Toine). È esattamente il modo impiegato da Tullio Hermil per l’assassinio di Raimondo (I, xliv). Tuttavia, nel congiungersi dell’assassinat con il tema della nascita illegittima, ossia d’uno scomodo intrus, d’Annunzio ricorreva anche al racconto Un parricide, utile alla definizione del suo stesso intruso (cfr. Giacon, in D’Annunzio 2012, 402-404).
Gli imprestiti maupassantiani sono flagranti e numerosi anche al di fuori del tema del delitto, come nella derivazione (celeberrima a causa delle accuse di plagio che scatenò) dell’episodio dell’Usignuolo dalla novella Une partie de campagne della Maison Tellier (I, ix). Tuttavia, notabile è anche l’apporto di Zola: la lussureggiante caratterizzazione del parco di Villalilla (I, vii) conserva l’empito panico della Faute de l’abbé Mouret (Paratore 1966); la rappresentazione dell’agonia di Raimondo (I, xlviii-l) ricalca puntualmente quella di Jeanne, la ragazzina epilettica di Une page d’amour (in Giacon 1991-b, 128-130); la descrizione della semina del contadino Giovanni di Scòrdio (I, xxxvii, 325) rinvia allo Zola della Terre (Spaziani 1968), che d’Annunzio riecheggia in accordo col georgismo del Tolstoij di Guerra e pace e di Anna Karenina. Stilisticamente, a base zoliana sono la pratica sinestetica che trascorre per il romanzo e l’impianto paratattico utilizzato per il vagare di Tullio tra gli interni della Badiola, prima da marito geloso, poi da futuro assassino intento a studiare i modi del delitto.
Di Flaubert, invece, torna utile il linguaggio della medicina, il cui modello, già presente nel Libro delle Vergini, è affatto congeniale a un romanzo così aperto alla mimesi scientifica, specie nel caso del vocabolario da “gabinetto medico” impiegato per descrivere il terribile morbo che ha colpito Filippo Arborio e le varie infermità (affezioni ginecologiche, anemia) di cui, come Barbara Leoni, soffre Giuliana; inoltre si ricorre alla lezione flaubertiana nell’impianto voyeuristico di certe inquadrature della Hermil, esemplandolo su Mme Bovary (il voyeurismo di Léon nei confronti di Emma e l’incontrario) e dell’Éducation sentimentale (di Frédéric nei confronti di Mme Arnoux).
Oltre che da nuclei compatti, il ricorso ai grandi realisti si evince dal microtesto del romanzo, con l’importazione di cellule diegetiche (la ‘veglia’, la ‘colazione degli amanti’, la ‘passeggiata’, la ‘visione’ e/o ‘l’ascolto alla finestra’) e di materiali linguistici e stilistici che nel realismo d’oltralpe erano mirati a potenziare la funzione personaggio sì da dissimulare quella dell’autore. L’Innocente invero segna un generale acquisto di corporea concretezza grazie ad una fitta e largamente inedita innervazione di fraseologia e di lessico sensoriale (così per toccarsi [dei gomiti], reggere alle reni, sospingere, nella passeggiata; cingere il collo con le braccia o la viva mollezza del fianco, appannare il vetro con l’alito, nella visione alla finestra), da cui traspaiono l’intensa fisicità delle visioni alla finestra e delle passeggiate flaubertiane, l’erotica gestualità delle cornici liminali zoliane, l’istantaneismo visivo e l’indeterminato acustico cari a Maupassant (cfr. Giacon, in D’Annunzio 2012, 383-387, 390-394, 396).
Simile complesso di macro e microtesto impronta L’Innocente d’un carattere “forte” che lo rende il più fruibile dei romanzi dannunziani. In realtà si tratta di un’operazione mimetica mirata a contenere, bilanciandola in superficie, la prepotente liberazione di poetica energia che si va attuando nel profondo e che è sempre pronta a tradire l’occhio del personaggio per quello dell’autore: nella marcata liricizzazione della palette (tra bigio e turchiniccio, color gridellino…) e della sintassi paesaggistiche, ove pienamente si traduce il principio spiritualizzante di Frédéric Amiel («Un paysage quelconque est un état de l’âme», in Tosi 1976, 239), e nell’apporto in senso musicale fornito, sull’onda del Verlaine di Romances sans paroles, dalla tecnica del leit-motiv (Guarnieri Corazzol 1990, 60).
Un indizio chiarissimo di questa strategia d’occultamento-disvelamento viene assicurato precisamente dall’intertesto: la descrizione del canto appassionato del rossignol, che nella fonte maupassantiana (Une partie de campagne) faceva tutt’uno con l’azione dei personaggi (con l’amplesso di Henri e Henriette), si è convertita in pura ékphrasis musicale: nell’allegoria d’un poeta immemore del proprio ruolo di romanziere (I, ix, 470-471).
Trionfo della morte
Il romanzo, così come lo si leggerà nella princeps in volume (Milano, Treves, 1894), nasceva dal progressivo accorpamento d’una nuova materia narrativa al nucleo originario dell’incompiuto Invincibile, configurandosi sostanzialmente in 3 blocchi di scrittura separati da intervalli di mesi e anche di anni, dall’estate-autunno dell’89 all’aprile del ’94 (Ciani 1983; Mariano 1983). Sottesa a questo tormentato percorso era la necessità di recuperare un’identità artistica informata ai tempi e, soprattutto, a una spinta poietica che agiva nel profondo e però ancora in fieri. Segno ne è il fatto che fra il ’92 e il ’93, in coincidenza con le fasi della nuova stesura, uscissero numerosi saggi giornalistici, da Il romanzo futuro (1892) a La morale di Zola (1893), in cui d’Annunzio, quasi in un tentativo d’auto-chiarificazione, andava attualizzando le acquisizioni derivanti dal complesso dibattito apertosi oltralpe con la crisi del romanzo naturalista, e dunque riecheggiava il Wyzewa, fautore dell’estetica wagneriana, il Bourget analista del nouveau mal du siècle, il Caraguel dell’Enquête di Jules Huret, il Séailles del Léonard de Vinci, e altri ancora (Tosi 1981-b, 1981-c; Andreoli, in D’Annunzio 1988, PR, I, TM, 1298-1299). Tanta complessità dà ragione della stessa fisionomia intertestuale del romanzo: ottenuto per momenti compositivi diversificati quanto a cronologia e sotteso teorico, il montaggio delle fonti riflette le consistenti difficoltà incontrate da d’Annunzio nell’aggregare due centri d’ispirazione inevitabilmente disomogenei fra loro come la vecchia (I-III,vii) e la nuova produzione (III, viii-VI).
Ferma restando la diffusa ascendenza di Amiel e Schopenhauer, i Libri discesi dal corpo dell’Invincibile trasudano, come Giovanni Episcopo e L’Innocente, gli apporti della letteratura scientifica coeva, la lezione del determinismo biologico tainiano e zoliano, al cui complesso rinvia la personalità di Aurispa, espressione «d’una malattia della volontà» alla pari d’un paziente di Théodule Ribot (Marinoni 2016, 130) «e d’un caso di manìa suicida ereditaria» (D’Annunzio a Hérelle, 18 gennaio 1893, in DH, xxii, 120; Ciani 1983, 34). Al contempo, Aurispa incarna l’abito introspettivo di Frédéric Amiel e di Maurice Barrès (Tosi 1983, 95-99), e, in tutt’uno con l’esprit d’analyse à vide di cui dissertava Bourget nei suoi Essais de psychologie contemporaine, applica all’interiore proprio e dell’amante Ippolita Sanzio la méthode notomizzante di Robert Greslou (Le Disciple), aberrante sviluppo dell’«être pensant» in «une machine mentale» (Tosi 1985, 192). Ne viene che, per sua stessa costituzione, Aurispa sia destinato a sperimentare una serie di dolorosi fallimenti la cui logica catastrofe sarà appunto la morte.
A questo corpo testuale in definitiva compatto si imprime con il Libro IV una sterzata tematica. Volte infatti le spalle al mondo della famiglia abruzzese (II) e riposto ogni senso di vita nell’amore per Ippolita Sanzio (III), di tale progetto Aurispa ben presto esperimenta il fallimento: la donna agognata come datrice di vita gli si disvela priva «d’ogni spiritualità», puro «strumento di piacere e lascivia […], di ruina e di morte» (IV, i, 820); ella, anzi, diverrà «la Nemica», al punto da suscitare in Aurispa pulsioni omicide (IV, iii, 850). Questi allora ricercherà scopo all’esistere tentando di ricongiungersi alle radici religiose della propria razza. A suggerirgli tal voie de salut è il Barrès del ciclo narrativo Culte de moi (Tosi 1981-b, 15-19 e 1983, 96-112; Andreoli, in PR, I, 1323-1324 ). Tuttavia, quanto era riuscito al Philippe di Un homme libre non riuscirà ad Aurispa, che si ritrae inorridito dinnanzi agli episodi di fanatismo popolare occorsi presso il santuario di Casalbordino (IV, v-vii). Egli tenterà ancora, nel Libro V, di seguire le tracce dell’eroe barresiano per mezzo di un’altra via di fusione identitaria: immergersi nelle origini dionisiache sottese ai riti della terra officiati dalla gente dei campi, neo-incarnazione dell’Ellèno pagano. Tuttavia, in simile trasfigurazione dei contadini abruzzesi, d’Annunzio ha già tradito Barrès per Nietzsche. Affascinato dall’aspirazione a una morale «di vita ascendente», protesa a dispiegare la volontà di potenza dell’«Essere sopraumano» (V, iii, 932), Giorgio medita sul pensiero del filosofo (V, iii, 924-934) ricavandone le proposizioni ora dalla Nascita della tragedia, ora da Così parlò Zarathustra, ora da Al di là del bene e del male, ora disponendole in una libera configurazione a mosaico (Tosi 1973, 493-496, 506-513, in particolare): tutti extraits a d’Annunzio resi accessibili sul finire del ’93 grazie all’opera di Paul Lauterbach e Adrien Wagnon, À travers l’œuvre de Frédéric Nietzsche, ossia la «prima antologia europea di brani nietzscheani» (Mariano 1983, 167).
E però, isterilito dal proprio ipercerebralismo, Aurispa non potrà far sua la rigenerazione vitale proposta dal credo di Nietzsche: échec che condurrà il misero eroe del Trionfo ad abbeverarsi al magico filtro della musica di Wagner, precipitando, novello Tristano, in quella morte da lui sempre desiderata, e trascinando con sé l’inconsapevole Ippolita. Per quasi l’intero capitolo i del Libro VI, alla traduzione francese del libretto wagneriano ad opera dello Challemel-Lacour, Quatre poèmes d’opéras, d’Annunzio alterna una ingegnosa ri-scrittura del commento, uscito anch’esso nel ’93, del Nerthal: Tristan et Yseult: la passion dans un drame wagnérien (Tosi 1981-b, Appendice III; Andreoli, PR, I, 1340-1346; Guarnieri Corazzol 1990, 155-160). Se la traduzione del libretto viene citata regolarmente, il confronto con il saggio, non citato, del Nerthal pone in luce l’esaltazione del significante cui d’Annunzio ha tentato di sottoporre la fonte, sì da ricavarne quei valori musicali che facessero della conclusione del suo romanzo un esempio di Wort-Ton-Drama.
Questi ultimi campioni di narrato, il nietzschiano e il wagneriano, colpiscono per la minor capacità di tenuta diegetica in rapporto al corpo dell’Invincibile e alle stesse pagine sorrette dalla traccia barresiana; colpiscono altresì per il marcato écart stilistico nel passaggio, sia pur mascherato dall’indiretto libero, al linguaggio filosofico del Libro V, e ancor più nella mimesi musicale interna alla parodia wagneriana del VI, ove il parlato e/o pensato di Giorgio è riferito per voce del solo Narratore.
Un altro visibile scarto riguarda l’immagine del personaggio femminile: nel Libro IV, la «modesta, di origine e d’intelletto, ma umanissima Adriana» dell’Invincibile (Ciani 1983, 34), ossia l’Ippolita dei primi tre Libri del Trionfo, si trasforma in una femmina lussuriosa, che, nella sua «isteralgia» (eco biografica di Barbara Leoni), brama di «tenere continuamente legato il compagno», di «dominarlo, di possederlo». Per la costruzione di questo cartone misoginico d’Annunzio si è rivolto al romanzo di Barbey d’Aurevilly Une vieille maîtresse (Barbey d’Aurevilly 1886 [1849]), in cui Vellini, abbandonata da Ryno Marigny per Hermangarde, continua tuttavia ad esercitare su di lui una irresistibile fascinazione (Tosi 1981-b, Appendice II). Simile ripresa del tópos tardoromantico, che vede il maschio sopraffatto dalla terrifica potenza del femminile (Praz 1966, 189-190), si è del resto nutrita di altre fonti, tra le quali la zoliana Curée: l’episodio di travolgente seduzione di Ippolita nei confronti di Giorgio sotto la tenda (V, ii, 917-918) ricalca puntualmente quello in cui Renée seduce nella serra il giovane figliastro Maxime, lasciandolo, come poi Giorgio, «languissant […] terrassé et inerte» (Zola 1969-1970, I, 318, in Giacon 2016, 147-148).
Incerto tra passato e futuro, il Trionfo falliva nel suo scopo di «libro di prosa moderno» che, «[…] vario di suoni e di ritmi come un poema», celebrasse l’uscita dai «vincoli della favola» (A Francesco Paolo Michetti, TM, 639), ma la sua effettiva varietà di voci e di stili preparava il racconto dannunziano di poi, sperimentandone e saggiandone i successivi e inquieti slittamenti categoriali fra prosa e poesia.
Le vergini delle rocce
Affermata ma non realizzata nel Trionfo, l’uscita dai «vincoli della favola» ottocentesca si verifica nel romanzo del 1895 Le vergini delle rocce (D’Annunzio 1989, PR, II, VR), prima e anche ultima realizzazione di un ipotizzato ciclo del «Giglio», ove «la trama narrativa si delinea solo emblematicamente» (Ferrata 1978, 4). Riconducibili al genere del roman-poème caro al simbolismo d’oltralpe (Lorenzini, in PR, II, 1089), Le vergini tuttavia prospettano una peculiare duplicità di voce lirica e voce oratoria rispondente all’evoluzione della personalità autoriale dannunziana.
Sotto il profilo intertestuale, il romanzo muove da una fruizione che, diversamente dal Trionfo, non presenta discontinuità di struttura e/o di stile. Sul piano dei maîtres à penser si confermano i frutti dell’approvvigionamento tecnico-teorico affrontato tra il ’92 e il ’93 con l’esaurirsi non solo del naturalismo zoliano, ma anche del serbatoio del romanzo russo e dello psicologismo di Paul Bourget. L’esile vicenda di Claudio Cantelmo, che ricerca fra le principesse Capece Montaga la sposa più adatta a generare il futuro Re di Roma, è invero sorretta dalla «trama dottrinale» di Nietzsche (De Michelis 1963, 59). Già utilizzata negli antologici extraits posti in bocca a Giorgio Aurispa (cfr. Lauterbach-Wagnon, À travers l’œuvre de Frédéric Nietzsche), con più digesta appropriazione e felice ri-fusione essa andrà ora a sostanziare la centralità superomistica di Cantelmo: àristos dei tempi nuovi, allievo spirituale di Socrate e prototipo di una eugenèia che, nell’«apocrifo leonardesco» dannunziano (Gibellini 2018, 224), gli discende dall’antenato, guerriero e discepolo del Vinci, Alessandro Cantelmo di Volturara.
Ben fusa con la fruizione nietzschiana è dunque la lezione offerta dal Léonard de Vinci di Gabriel Séailles. Il principio interpretativo del Séailles, che Leonardo non imiti bensì «continui» e superi l’opera della Natura (Tosi 1981-b, 36), va infatti ad investire l’intero paesaggio fisico e mentale del romanzo, come in certi ritratti di stagliato nitore da assumersi quale trasfigurazione compiuta dall’artista-«aristòcrate» Claudio Cantelmo sul corpo della Natura: «Ciascuno sviluppo di linee […] s’inscriveva sul cielo col significato […] di una sentenza incisiva e con l’impronta costante di unico stile» (VR, 22, corsivo nostro). Sulla concezione dello «stile» della Natura, che l’opera d’arte riprende e supera convertendo il reale nell’ideale, di sicuro ha avuto peso il neo-platonismo di Angelo Conti, originale interprete nel suo Giorgione del saggio di Walter Pater su Leonardo (Conti 1894), ma al contempo è intervenuta l’estetica di Hyppolite Taine, per il quale l’arte ha il compito di svelare l’essenza delle cose attraverso l’individuazione dei loro caratteri essenziali, com’era avvenuto presso gli artisti italiani del Rinascimento e Leonardo per l’appunto (Taine 1879, 77, 116-117, in Giacon 2009, 215-216; cfr. Lorenzini, in PR, II, 1143-1145). La nervatura vinciana s’innesta anche nella caratterizzazione di Violante, la «vergine» dalla quale Cantelmo è più attratto: «enigmatica» e «impassibile», «piuttosto simile a una finzione dell’arte che a una creatura di nostra specie» e sovrana sulle cose a lei intorno (VR, 74, 192). L’aura è quella che spira dalla Gioconda pateriana (Marabini Moevs 1976), ma d’un Pater mediato dal Barrès di Une visite à Léonard de Vinci (1889), consolidata acquisizione di d’Annunzio avendola questi utilizzata già in chiusura alla Chimera, nella lirica Al poeta Andrea Sperelli (Tosi 1981-b, 17, 43-44; Gibellini 2018, 220-221). Come Nietzsche e Séailles, Barrès è del resto ben presente nel quadro ideologico e raccontativo del romanzo: il suo Culte du moi ha informato, con il romanzo Bérénice, la figura e la vicenda di Massimilla, mentre, componendosi con i recenti echi nietzschiani e i digesti ricordi peladaniani, riporta a Sous l’œil des Barbares l’invettiva del Libro I contro la borghesia responsabile dello scempio delle aristocratiche ville romane («Sembrava che su Roma soffiasse un vento di barbarie […]», VR, 43).
In effetti nulla di vecchio e di nuovo, proveniente dal di fuori ma anche da terreno proprio, dimentica d’Annunzio. Come il romanzo dell’89 («Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente», P, I, ii, 34) continua a risuonare nella deriva antidemocratica delle Vergini, così il Poema paradisiaco ha lasciato una eredità cospicua sul giardino dei Capece Montaga, con le statue mutili del suo hortus conclusus testimoni della bellezza d’un perduto jadis. In tutt’uno con l’intratesto, se non da esso mediate, sono le voci che dall’esterno concorrono al complessivo disegno ambientale. Assai rilevante nelle Vergini è infatti l’influsso di Maeterlinck: generale, per l’atmosfera di raggelato incanto che regna nel romanzo, e particolare, andando esso a sostanziare con le Serres chaudes la descrizione delle acque cristalline, ma infette del Linturno (VR, 170-171, 173-174: cfr. Lorenzini, PR, II, 1104, 1174). Il Rodenbach del Règne du silence (Lorenzini, PR, II, 1104) ha invece fornito spunti alla rappresentazione della fatiscente dimora principesca, del «grande claustro pieno di cose obliate o estinte», regno di morte e di follia entro il quale si consuma la decadenza della nobile stirpe, mentre Huysmans con il romanzo En rade (Fongaro 1959) ha agito sull’immagine dell’interno fané, su quella fortemente simbolica del labirinto vegetale in cui Violante inoltra Cantelmo, e altro ancora (VR, 101-105: cfr. Lorenzini, 1153-1154).
Significativa di questo riuscito concorso inter-intratestuale è la stessa resa stilistica, che nel ritmo sintattico, come nella palette descrittiva «legata a tonalità ascendenti e discendenti» (Lorenzini, VR, II, 1142), s’ispira alla mimesi wagneriana invocata dal Wyzewa (Tosi 1981-c, 14-15, 21-23) e che, saggiata nel vicino Trionfo, ora raggiunge risultati assai più persuasivi.
In tale orchestrato accordo si scorge, inaspettato, un residuo di tecnica realista nell’impianto della visione di Claudio e Anatolia dall’alto del Corace («Un fierissimo spettacolo avevamo ai nostri piedi […]. La catena delle rupi […] si propagava come una immensa adunazione di cose gigantesche e difformi […]», VR, 179-180). La descrizione, a d’Annunzio suggerita dalla geografia del suo Abruzzo (Papponetti 2006, 284) e senza dubbio memore dello scabro paesaggismo leonardiano, ricalca linguisticamente la visione plongeante di Erode Antippa nel flaubertiano Hérodias (Trois contes, in Giacon 1991-b, 119-120). Tuttavia, l’attenzione al «fuoco» del personaggio («Un fierissimo spettacolo […] ai nostri piedi»; «Les montagnes, immédiatement sous lui […]», corsivo nostro) si retoricizza e dissolve nel modo d’una simbolistica congerie: «[…] adunazione di cose gigantesche e difformi […] Torri dirute, cittadelle abbattute, cupole sfondate, portici pericolanti, […], tutte le enormità […]» (VR, 180). Segno della capacità maturatasi in d’Annunzio di ricondurre a sé ogni genere di apporti, anche quelli più remoti dalla sua attualità poietica.
Il fuoco
Espressione di un immaginario volto a possedere il mondo, Il fuoco (D’Annunzio 1989, PR, II, F) annovera una straordinaria molteplicità di letture: d’estetica e letteratura, di teatro, musica e arti figurative, di storia e folklore. La narrativizzazione di simile intertesto persegue, fondamentalmente, la duplicità esperimentata entro le Vergini nel concorso di voce lirica ed oratoria. Il romanzo, che da un lato segna il più limpido epifanizzarsi dell’io lirico dannunziano, poggia, dall’altro, sul supporto ideologico di stampo nietzschiano saggiato nel 1895 ed ora riformulato alla luce di nuovi e approfonditi apporti teorici. Infatti, là dove Cantelmo ne era solo il preannuncio, Stelio Èffrena è egli stesso Superuomo, latore di dionisiaca espansione sì da fecondare le sommerse potenzialità della «Città di Vita». Più precisamente, Èffrena realizza la sua superomistica funzione quale poëta-musicus emulo del grande di Bayreuth e destinato a trascenderlo; incarnazione del genio latino, egli si annuncia artefice di un’arte nuova, che, muovendo dall’«opera integrale», non sacrifichi però, come in Wagner, la «Parola» alla musica e all’azione (F, 356), bensì la restituisca alla dignità originaria della tragedia greca e mediterranea (Guarnieri Corazzol 1990, 161-164). Èffrena, poste le basi della sua azione innovatrice tramite un massiccio discorso in Palazzo Ducale (F, 231-259, ma è L’Allegoria dell’Autunno del 1895 o prodromo della stesura), va dando corpo al suo trionfante annunzio in battute di dialogo con amici e seguaci quanto in soliloqui mentali (così nella dimora di Foscarina, in F, 286-302); teorizza con enfasi, interlocutore privilegiato Daniele Glàuro (Angelo Conti), sul «drama» (La città morta) che egli avverte «sussultare» dentro di sé (F, 356-358). Il corredo di letture che sostanzia questa linea narrativa comprende le fonti più varie e numerose: italiane certamente, dall’intratesto La Rinascenza della Tragedia («La Tribuna», 2 agosto 1897, in SG, II, 262-265), che puntualmente riecheggia nelle riflessioni metateatrali di Èffrena (F, 264-265), ai contiani Giorgione e La beata riva, senza i quali né il discorso di Èffrena in Palazzo Ducale (F, 231-259), né altre essenziali pagine argomentative (F, 355-369) vi sarebbero state. Tuttavia, il complesso della tramatura teorizzante, estetica e ideologica del romanzo è fornito dai contributi di pensatori e studiosi francesi o in lingua francese. Alla base del dissertare di Èffrena è lo studio di Romain Rolland Histoire de l’Opéra en Europe avant Lully et Scarlatti (1895), evidenziante la riscoperta della grecità da parte della Camerata de’ Bardi e Claudio Monteverdi, un dato di cui d’Annunzio si appropria ai fini della contrapposizione, che però non era in Rolland, di genio latino e genio germanico (cfr. Tosi 1967; Ciani 1982; Lorenzini, PR, II, 1248-1250; Mariano 2016, 201-210). A questa «concezione razziale della musica» (Oliva 2015, 19) fa da complemento lo studio di H. Stewart Chamberlain, Richard Wagner, sa vie et ses œuvres (Lorenzini, PR, II, 1247) da cui Èffrena puntualmente deriva la definizione di Wagner quale «fiore supremo del genio d’una stirpe, […] il compendio […] dei sinfoneti e dei poeti nazionali» tedeschi, sì da poter infine esclamare: «Io mi glorio d’essere un latino; e […] riconosco un barbaro in ogni uomo di sangue diverso» (F, 286-287). Di grande rilevanza è poi l’opera del germanista Henri Lichtenberger, autore del saggio, utile all’aggiornamento nietzschiano del romanzo, La philosophie de Nietzsche (1898), e di fondamentali contributi wagneriani, tra cui la monografia, di ampio utilizzo nel Fuoco, Richard Wagner, poète et penseur; parimenti, afferiscono a tale contesto argomentativo numerosi articoli comparsi sulla «Revue wagnérienne», come il saggio di Édouard Dujardin Les œuvres théoriques de Richard Wagner, cui rimanda l’analogia posta da Èffrena tra la riforma wagneriana e «quella tentata da Lutero» (F, 286, ma cfr. Lorenzini, PR, II, 1246), e come i contributi di Téodor de Wyzewa, che sulla medesima rivista pubblicava una traduzione del Beethoven di Wagner ben presente all’autore del Fuoco (come in F, 296); assai attivo in questa tessitura è Édouard Schuré, entusiasta commentatore dell’opera wagneriana e qui (F, 293) in particolare del Parsifal (Lorenzini, PR, II, 1252-1253), mentre Alfred Ernst farà luce, per bocca di Baldassare Stampa (F, 297), sul rapporto, posto già da Wagner, tra il popolo, creatore inconsapevole dell’opera d’arte, e l’artista che ne realizza la creazione (Lorenzini, PR, II, 1256-1257). Infine, studi fondamentali sulla metrica antica, come quelli di François-August Gevaert, di Paul Masqueray e di Rudolf Westphal, hanno ingresso nel Fuoco per intermedio del Conti della Beata riva (in Conti 2000, BR, 69-76 in particolare) e già del dotto saggio La tragedia antica («Il Marzocco», 27 febbraio 1898, poi in BR, 154-158): sulla falsariga contiana, benché in tutt’uno con altri apporti (Lorenzini, PR, II, 1273-1275), ne approfitterà Èffrena per illustrare a Daniele Glàuro l’originale caratterizzarsi del proprio drama in rapporto a quello wagneriano e alla stessa tragedia antica (F, 356-357, in particolare).
D’altro canto, la prepotente artisticità che promana da tale Superuomo sarà in grado d’intervenire sulla duplicità di voci, l’oratoria e la lirica, che si è detta caratterizzare il romanzo, riducendone il contrasto e aprendo il racconto anche all’espressione pittorica, plastica, musicale dell’anima veneziana. Saturazione dunque di più modalità artistiche in virtù della poesia, Il fuoco segna in particolare la conquista d’una sintassi che, contigua alle Laudi, si realizza nella costruzione d’un «paesaggio sonoro […] come la sfera occupata dalla musica» (Tortoreto 1991-b, 365-366). Dominante nella seconda parte del romanzo, simile «aspirazione» musicale si rendeva avvertibile, sull’onda del Pater e del Conti (Ricorda 2015), già nella sinestesi che governa l’orazione di Stelio in Palazzo Ducale, per intero condotta all’insegna del vibratile cromatismo dei pittori veneziani (da Carpaccio a Giorgione e Tintoretto, da Bonifacio de’ Pitati a Veronese). Tuttavia, la conversione della funzione prosastica in poetica esigeva anche il concorso di precisi modelli di scrittura informati all’«espressione musicale dei colori e delle forme» (Murolo 1991-a, 201-202). Ecco pertanto d’Annunzio impastare la sua tavolozza d’imaginifici pigmenti tratti dalla storia del costume e dell’arte veneziani di Pompeo Gherardo Molmenti, ma anche largamente attinti a voyageurs d’eccezione, quali Hyppolite Taine (Taine 1866, VI, II, Venise), Théophile Gautier (Gautier 1876, VI) e i Goncourt (Goncourt 1894, IH), tutti coadiutori nella costruzione della spazialità effusa, pittoricamente e musicalmente vibrante, che sta alla base del caratteristico procedere del romanzo per quadri sottratti alla costrizione d’una fabula complessiva.
Il complesso e sfaccettato positivismo tainiano ha in realtà fornito vari spunti al pensiero estetico del Fuoco (Giacon 2009, 242-253), come il motivo, centrale nell’orazione di Èffrena, dell’influsso del milieu paesaggistico sull’opera dell’uomo (cfr. F, 241 e Taine, VI, II, 399-401). In contemporanea, dal taccuino del viaggiatore proviene il vocabolario plastico e cromatico utilizzato da Stelio nell’ékphrasis dell’Apoteosi di Venezia del Veronese, della Parabola del ricco Epulone di Bonifacio de’ Pitati (F, 236, 257: cfr. Tosi 1968, 19-20) e del Sogno di Sant’Orsola del Carpaccio (Lorenzini, in PR, II, 1229); mentre, fra i tanti luoghi mutuati dal Taine nella descrizione degli esterni, rinviano al Voyage l’inquadratura di palazzo Dario (F, 198), che «dischi preziosi di porfido e di serpentino […] ingemmano […] come una cortigiana» («[…] ces bigarrures de porphyre, de serpentine et de marmes précieux qui incrustent leurs palais», VI, II, 401, in Giacon 2009, 252, corsivo nostro), e la perlacea lattescenza dell’architettura lagunare, che per il Taine faceva della Salute «un splendide et étrange corail blanchâtre», di San Giorgio «une pompeuse conquille de nacre», e per d’Annunzio «qualche cosa di fresco, di argenteo e di gemmante […] un’imagine vaga di schiuse valve perlifere su le acque natali» (F, 201, in Tosi 1968, 19-20).
Oltre che «Città di Vita», Venezia è «Città anadiomene» per eccellenza (F, 217, 232, 320), e, nel «dipinger con le parole» del poeta di Emaux et Camées (Gautier 1970), «Venise» è la «Vénus de l’Adriatique», che, «Le sein de perles ruisselant, / […] / Sort de l’eau son corps rose et blanc» (Variations sur le Carneval de Venise, II Sur les lagunes, 16-19), o, agli occhi del viaggiatore, una «Vénus marine qui sèche sur le rivage les perles salées de l’élément natal» (Gautier, VI, 77). Ma se all’esterno «La ville est un madrépore dont la gondole est le mollusque» (VI, 72), all’interno essa cela «une caverne d’or incrustée de pierreries» (VI, 107): la «profonda caverna d’oro» di San Marco che sfavillerà alle spalle di Foscarina (F, 396; tutti corsivi nostri).
A loro volta i Goncourt dell’Italie d’hier sono gli indimenticati maestri d’un luminismo che il giovane d’Annunzio aveva appreso alla scuola degli scrittori di Francia. Associata al balenio di gemme e metalli, la palette goncourtiana ha informato più luoghi del Fuoco, specie la descrizione del tratto del Bacino compreso fra la Giudecca e la Dogana, forgiata a più riprese (F, 202, 318, 320) sul bel campione d’écriture artiste di IH, 49-50: «De notre fenêtre (décembre, 10 heures du matin) le ciel bleuâtre devient à l’horizon couleur d’opale […] et sur la boule d’or […] resplendit la Fortune volante» (per Gautier e Goncourt, cfr. Giacon 2009, 108-110, 113, 115-118, 119-121).
Forse che sì forse che no
Il più “romanzesco” dei romanzi di d’Annunzio (D’Annunzio 1989, PR, II, FRS) verrà alla luce nel gennaio del 1910. E non senza fatica. Le strategie narrative utilizzate in precedenza non sono infatti più adeguate ad esprimere lo spirito dei tempi e a rispondere alle esigenze del mercato letterario sempre presenti al termometro dannunziano. Mentre già maturano le tensioni del grande conflitto e si affermano i rivoluzionari mutamenti legati all’orizzonte anche fisico delle villes tentaculaires, dello sviluppo dell’industria e della tecnologia, un protagonismo di fattura nietzschiana come quello delle Vergini e del Fuoco non è più praticabile: altri «miti d’oggi» sono in via di elaborazione imponendo un aggiornamento d’espressione e contenuto anche in sede letteraria.
Ecco dunque d’Annunzio orientarsi verso una narrazione «di genere misto», fra aventure e romanesque (Lorenzini, in PR, II, 1315), che segna l’ingresso di temi d’assoluta attualità, come quello della velocità, con l’automobile, l’aereo e i suoi mitologemi (Icaro, l’uccello dedalico), e che determina la revisione dei referenti culturali di base: non più il Leonardo pittore consacrato dal Pater, bensì lo scienziato dell’aria; non più il Superuomo in veste estetica ed aristocratica, bensì in quella «borghese» (Roncoroni 1982, 17) d’un aviatore decisamente sanza littere; la proiezione della figura autoriale quale «artefice peritissimo» piuttosto che malcelato protagonista; l’infoltirsi del numero degli attori e la duplicazione, affatto nuova, del triangolo amoroso, con due donne in lizza per un uomo e due uomini per una donna; il complessivo complicarsi e costruirsi dell’azione per continui coup de scène: un tentato omicidio, un suicidio riuscito, un incesto conclamato, un’indagine poliziesca e un ricovero manicomiale. Nel sottobosco di questa scrittura è in realtà un fitto travaso di motivi, immagini, stilemi derivati dall’intratesto dannunziano ove gli apporti delle fonti francesi sono ormai bolo completamente digesto: la protagonista Isabella Inghirami è la regina di Saba della Tentation flaubertiana come già Teresa Raffo e Ippolita Sanzio; il motivo dell’inimicizia tra sessi («l’uno contro l’altro parevano ardere», «fu la mischia feroce di due nemici», FRS, 522, 812) è quello, risalente al Trionfo, del Barbey d’Aurevilly di Une vieille maîtresse; la desolazione di Mantova richiama, come già la dimora dei Capece Montaga nelle Vergini, le barresiane Toledo ed Aigues Mortes; mentre l’inebriarsi di Aldo e Vana con la musica di Schumann e Beethoven (FRS, 642) riporta naturalmente a quello di Giorgio e Ippolita con il Tristano di Wagner; l’incesto tra fratelli è ripreso dalla tragedia La città morta; per non dire degli echi della lirica delle Laudi, soprattutto da Elettra e da Alcyone. A simile massiccio corpo intratestuale, si aggregano i frutti d’un laboriosissimo impegno e aggiornamento documentale testimoniato dai Taccuini (D’Annunzio 1965, TT LIII, LV-LVII in particolare) e da molte carte del Poeta (cfr. Lorenzini, in D’Annunzio, PR, II, passim), cui s’uniscono i materiali più varî, alcuni provenienti da esperienza diretta: la saggistica in aura di Futurismo sulla macchina; gli studi leonardiani sul volo e l’appassionata frequentazione in prima persona dei circuiti di Centocelle e Montichiari; i giornali di viaggio degli esploratori in Africa e in Oriente; le guide storico-geografiche e artistiche su Volterra; la pubblicistica su Mantova rinascimentale, sulla figura d’Isabella d’Este e la musica ferrarese, e in chiusura di romanzo un notabile estratto dal Solus ad solam (D’Annunzio 1979), nella trasposizione della drammatica vicenda di Giuseppina Mancini a quella d’Isabella Inghirami.
In tanta ricchezza di lettura, d’arte e di vita, le fonti francesi di nuovo ingresso si limitano a memorie di viaggio utili a nutrire l’aspetto avventuroso del romanzo: per le esotiche esperienze di Tarsis e Cambiaso nel remoto Oriente (FRS, 569-572), valgono i reportages delle esplorazioni di A. Henry Savage Landor (Celenza 1914, 21; Lorenzini, PR, II, 1343-1344), e, per il soggiorno dei due amici in Egitto, le informazioni desunte dalla guida di Karl Baedeker (Lorenzini PR, II, 1344).
Anche la topografia italiana ha risentito di simile filone memoriale: il Bourget di Sensations de Italie (1902) accompagna l’autore del Forse nelle escursioni in automobile di Paolo e Isabella per il Volterrano e fornisce spunti alle suggestive inquadrature della città medievale, alle visite dei tesori d’arte in San Girolamo e dei reperti del Museo etrusco (cfr. Lorenzini, in PR, II, 1353-1354, 1360, 1373, 1375, 1377, 1383), benché sia evidente come l’asciutta scrittura bourgettiana non solleciti l’immaginazione di d’Annunzio, fungendo piuttosto da supporto al passaggio dagli appunti dei Taccuini alla veste d’arte del romanzo.
Altro è il caso di Eugène Fromentin. Maestro del pennello quanto della penna, che d’Annunzio aveva apprezzato già negli anni del Piacere (La grande arte, in D’Annunzio, SG, I, 8), Fromentin viene ora compulsato nei suoi Un été dans le Sahara e Une année dans le Sahel, frutto dei ripetuti soggiorni dell’artista in Algeria tra la fine degli anni ’40 e i primi ’50 («Revue de Paris», 1856; «Revue de Deux Mondes», 1858, in Fromentin 1984): scritti in cui la lucidità referenziale del narratore non è mai separata da tratti d’avvincente lirismo, specie là dove l’istinto del pittore si lascia andare alle alchimie della luce e del colore del paesaggio africano. La lettura di questi «journaux de route» ha invero segnato a fondo la sensibilità dannunziana fornendo al racconto non romanzesca, bensì poetica sostanza. Tutta tramata di riferimenti fromentiniani è la vicenda ambientata nella «marina pisana, in una villa solitaria fra la pineta e la prateria salmastra» (FRS, 648), là dove Isabella dapprima inebria Paolo con il suo favoleggiare su Algeri (649-654) e poi ne rende parossistico il desiderio danzando alla maura al suono del ronzante scarabillo (cfr. FRS, 701 e Un été dans le Sahara, in Fromentin 1984, p. 121). Componendosi con il mormorio degli echi alcyonî (specialmente I camelli), le assunzioni dal Fromentin vengono sottoposte alle consuete tecniche di smembramento, contaminazione o ripresa distanziata di un singolo passo. In simile «découpage ingénieux» (Renauld 1953, 210), stilisticamente si assiste alla regolare espunzione degli indicatori deittici che, in conformità all’occhio del pittore, scandivano il succedersi dei piani spaziali («À l’endroit où le Sahel expire […] on peut apercevoir […] le Massif de la Maison-Carrée […]. Derrière la Maison-Carrée, on devine […] un grand espace où l’azur commence […]. Enfin tout à fond, dans l’est, la chaîne dentelée et toujours bleue des montagnes kabyles […]», Fromentin 1984, Une année, 191-192, corsivo nostro). Il fine e risultato è la suscitazione d’una effusa, lirica spazialità quale sfondo alla «favola bella» di Paolo Tarsis e Isabella Inghirami: «– Dove siamo? – diceva Isabella […] – A El-Bahadja? E quella è la bocca dell’Arrach? e quelle laggiù sono le montagne della Cabilia? e tutto quel turchino quel verde e quel bianco è il Sahel?» (FRS, 649, corsivo nostro: cfr. Giacon 2016, 165 e 168-169).
Si è in realtà ormai giunti alle soglie delle Prose di ricerca, vera dimensione del racconto di d’Annunzio. Qui il poeta riscriverà se stesso principalmente rinvenendo le proprie fonti in un repertorio citazionale che ha del prodigioso: la sterminata «biblioteca di sé» (Crotti 2016).
Bibliografia essenziale
Bibliografia primaria
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Gabriele d’Annunzio, Giovanni Episcopo, a cura di Clelia Martignoni, Milano, Mondadori, 1979.
Gabriele d’Annunzio, Il fuoco, introduzione, cronologia, antologia critica e biografica di Anco Marzio Mutterle, Milano, Mondadori, 1967.
Gabriele d’Annunzio, Il piacere, introduzione di Pietro Gibellini, prefazione e note di Ilvano Caliaro, Milano, Garzanti, 2009 [con un’Appendice sulle fonti francesi, pp. 421-452].
Gabriele d’Annunzio, Il Piacere, nella stesura preparata dall’autore per l’edizione francese del 1894 e con una introduzione di Ivanos Ciani, Milano, Il Saggiatore, 1976.
Gabriele d’Annunzio, L’Allegoria dell’Autunno: Omaggio offerto a Venezia, Firenze, Paggi, 1895.
Gabriele d’Annunzio, Le vergini delle rocce, prefazione di Giansiro Ferrata, Milano, Mondadori, 1978.
Gabriele d’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni [LB], a cura di Vito Salierno, Lanciano, Carabba, 2008.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ad Enrico Nencioni [LN], a cura di Roberto Forcella, «La Nuova Antologia», vol. 403, fasc. 1611, 1° maggio 1939, pp. 3-30.
Gabriele d’Annunzio, L’Innocente, prefazione di Pietro Gibellini, introduzione e note di Maria Rosa Giacon, Milano, Rizzoli, 2012 [con un’Appendice sulle fonti francesi, pp. 381-409].
Gabriele d’Annunzio, L’Invincibile, con prefazione critico-biografica di Luigi Lodi, Napoli, Salvatore Romano, 1915.
Gabriele d’Annunzio, Prose di romanzi [PR], a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, introduzione di Ezio Raimondi, Milano, Mondadori, 1988-1989, I-II.
Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici [SG], a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori 1996-2003, I-II: I (1882-1888), testi raccolti e trascritti da Federico Roncoroni; II (1889-1938), testi raccolti da Giorgio Zanetti.
Gabriele d’Annunzio, Solus ad solam, introduzione e note di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1979.
Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni e misteri [TSM], a cura di Annamaria Andreoli con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2013, I-II.
Gabriele d’Annunzio, Trionfo della morte, a cura di Giansiro Ferrata, Milano, Mondadori, 1966.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria [VS], a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, introduzione di Luciano Anceschi, Milano, Mondadori, 1982-1984, I-II.
Bibliografia secondaria
Atti convegnistici [Atti d’A.] e volumi collettanei
Dal Piacere all’Innocente, Centro Nazionale di Studi Dannunziani [CNSD], Chieti-Penne, 15-16 maggio 1992, a cura di Edoardo Tiboni, con la collaborazione di Ivanos Ciani e Umberto Russo, Pescara, Ediars, 1992.
D’Annunzio e dintorni. Studi per Ivanos Ciani, a cura di Milva Maria Cappellini e Antonio Zollino, Pisa, Ets, 2006.
D’Annunzio e il simbolismo europeo, Gardone Riviera, 14-15-16 settembre 1973, a cura di Emilio Mariano, Milano, Il Saggiatore, 1976.
D’Annunzio e l’arte dei suoni. «Ebbi nella musica la mia natività e la mia sorte», CNSD, Pescara, 2-3 dicembre 2022, a cura di Elena Ledda e Lara Sonja Uras, Milano, Ledizioni, 2024.
D’Annunzio e l’innovazione drammaturgica, premessa di Elena Ledda, saggi introduttivi di Giovanni Isgrò e Carlo Santoli, «Sinestesie», XXIV, 2022.
D’Annunzio e Venezia, Venezia, 28-30 ottobre 1988, a cura di Emilio Mariano, Roma, Lucarini, 1991 (c).
D’Annunzio europeo, Gardone Riviera – Perugia, 8-13 maggio 1989, a cura di Pietro Gibellini, Roma, Lucarini, 1991 (b).
D’Annunzio in Italia e nel mondo a ottant’anni dalla morte, CNSD, Pescara, 25-27 ottobre 2018, presentazione di Dante Arnaldo Marianacci, premessa di Gianni Oliva, «Rassegna Dannunziana» [RD], XXXIV, 72, 2018.
D’Annunzio, la musica e le arti figurative, Gardone Riviera, 20-22 aprile 1982, a cura della Fondazione «Vittoriale degli Italiani», «Quaderni del Vittoriale» [QV], 34-35, luglio-ottobre 1982.
Il mondo di d’Annunzio: temi, forme, valori, CNSD, Pescara, 24-26 ottobre 2013, RD, 65-66, 2016.
Il Piacere, CNSD, Pescara – Francavilla al Mare, 4-5 maggio 1989, a cura di Eodoardo Tiboni con la collaborazione di Umberto Russo, Pescara, CNSD, 1989.
Studi su D’Annunzio. Un seminario di studio, Chieti, 23-25 novembre 1988, a cura della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Chieti, Istituto di Filologia Moderna, Genova, Marietti, 1991 (a).
Tessere di trame. La citazione nel romanzo italiano dell’Ottocento, a cura di Fabio Danelon, «Parole rubate» / «Purloined letters», 11, giugno 2015 (http://www.parolerubate.unipr.it).
Trionfo della morte, CNSD, Pescara, 22-24 aprile 1981, a cura di Edoardo Tiboni e Luigina Abrugiati, Pescara, Fabiani, 1983.
Contributi singoli
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Raffaello Balestrini, Aborto, infanticidio ed esposizione d’infante. Studio giuridico-sociologico, Torino, Bocca, 1888.
Barbey d’Aurevilly, Une vieille maîtresse, Paris, Lemerre, 1886.
Maurice Barrès, Le Culte du moi: Sous l’œil des barbares, Paris, Lemerre, 1888; Un homme libre, Paris, Perrin, 1889; Le Jardin de Bérénice, Paris, Perrin, 1891.
Maurice Barrès, Une visite à Léonard de Vinci, [«Le Figaro», 29 giugno 1889] in Id., Trois stations de psychothérapie, Paris, Perrin & Cie, 1891.
Raffaella Bertazzoli, Lourdes-Casalbordino: a proposito dei plagi dannunziani in Trionfo della morte, Atti d’A., 1983, pp. 261-268.
Raffaella Bertazzoli, L’intertestualità nell’opera di d’Annunzio, in Il mondo di d’Annunzio, Atti d’A., 2016 [RD], pp. 29-36.
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Ivanos Ciani, Esercizi dannunziani, a cura di Giuseppe Papponetti e Milva Maria Cappellini, prefazione di Pietro Gibellini, Pescara, Ediars, 2001.
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Tosi 1981 (c), D’Annunzio e «Il romanzo futuro». La prefazione del «Trionfo» e le sue fonti francesi, II, pp. 941-979 [D’Annunzio e «Il romanzo futuro». La prefazione del «Trionfo» e le sue fonti francesi, QV, 29, settembre-ottobre 1981, pp. 5-32].
Tosi 1983, Il personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, II, pp. 981-1062 [Il personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, in Trionfo della morte, Atti d’A., 1983, pp. 87-141].
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Téodor de Wyzewa, Les Livres, «Revue Indépendant», mars 1887, pp. 317-331.
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