di Emanuela Borgatta, Enciclopedia dannunziana
Gabriele d’Annunzio nei musei torinesi
I legami tra Gabriele d’Annunzio e Torino sono molteplici, a partire dalle tracce e dai cimeli presenti sul territorio. Si segnala, innanzitutto, la presenza di un documento estremamente prezioso, riguardante la donazione del Vittoriale. L’ultima dimora di d’Annunzio viene, infatti, assicurata con una polizza siglata il 1° marzo 1928 per Reale Mutua, con valenza al 31 dicembre 1938. Se si tiene presente il prezzo pagato dal Poeta all’acquisto della villa nel 1921 (Lire 130.000), esaminando la polizza si noterà il notevole rialzo del valore acquisito dal fabbricato nel tempo, fino a raggiungere l’ammontare stimato di Lire 430.000.
Rocamboleschi i tentativi di contattare il Vate per la stipula. Dalla documentazione del Museo Archivio Reale Mutua apprendiamo – infatti – che, inizialmente, d’Annunzio non pare interessato a stipulare l’assicurazione presso la vicina filiale di Brescia. Tuttavia, intuendone il valore intrinseco, la Reale non demorde e interpella il proprio agente in Salò, buon conoscente del dottor Duse, medico di d’Annunzio. Anche questo contatto, però, si rivela insufficiente e la compagnia di assicurazioni riesce nel suo intento solo grazie agli affiliati di Riva del Garda, in contatto con l’architetto Gian Carlo Maroni, il quale – come è noto – cura tutti gli interessi relativi alla dimora, non soltanto quelli squisitamente edilizi.
Nell’Archivio della Reale è conservata una missiva da parte dell’agente di Riva del Garda all’architetto Maroni, in modo da tenerlo al corrente. La lettera recita:
Riscrivo nuovamente, e prego Lei di attendere pazientemente, poiché dovendo conferire con una persona tanto originale, devo usare ogni precauzione per venire allo scopo prefissomi, fiducioso in una favorevole e lieta conclusione. Le sarò tosto preciso.
I tentativi hanno esito positivo e il contratto, perfettamente conservato nella terza sala del Museo, è firmato per esteso: Gabriele d’Annunzio – Principe di Montenevoso.
Nel Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, invece, è conservato un ritratto fotografico del Vate a opera di Mario Nunes Vais datato 1906, varie volte utilizzato dal Poeta, nonché dai Fratelli Treves Editori per pubblicizzarne le opere. Inoltre, fanno parte della collezione non esposta testimonianze fotografiche importanti, inclusa una radiografia del cranio del Poeta, il grafico barometrico del volo di andata su Vienna e le missive indirizzate a Ermanno Amicucci, direttore della Gazzetta del Popolo, spesso comprensive di scherzose dediche.
Ulteriori scatti sono presenti nella collezione del Museo dell’Artiglieria di Pinerolo (Torino), dove le istantanee d’epoca celebrano le gesta eroiche del Comandante, relative al volo su Vienna e alla carica rivestita di Tenente Colonnello del Reggimento dei Bianchi Lancieri di Novara.
Altro cimelio torinese è conservato presso l’Associazione Volontari di Guerra, di cui d’Annunzio fu Comandante d’Onore, dove è possibile osservare lo scritto tramite il quale lo scrittore affida ai volontari la Bandiera di Spalato:
Il vecchio e novo perpetuo Vessillo di Spalato, nella perpetuità della fede di Antonio Baiamonti, affidato ai Volontari d’Italia per giuramento silenziosi, per profonda Promessa, dal ponte della nave insanguinata e non vendicata. Gabriele d’Annunzio, 19 maggio 1927.
Il Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia è, altresì, di interesse per l’ampio archivio digitale dedicato a Paola Lombroso (figlia di Cesare), nota come «Zia Mariù», scrittrice per bambini, ideatrice del Corriere dei Piccoli e di oltre mille bibliotechine scolastiche rurali. Nel 2021, in occasione del centocinquantenario della nascita, il fondo è stato interamente inventariato e digitalizzato per renderlo fruibile a tutti, in loco e sul sito della Fondazione Tancredi di Barolo. Da un bollettino in particolare, a cura di Lombroso, apprendiamo che Luisella Terzi, giovane maestra fiorentina, illustratrice di quattro opere dell’autrice e magistrale creatrice di giocattoli in carta, prende parte all’Esposizione del Giocattolo di Venezia del 1917 e riceve lodi sincere da parte del visitatore d’Annunzio.
Cabiria
Nel Museo Nazionale del Cinema è conservata l’imponente statua del Dio Moloch, presente nel film Cabiria.
Realizzato tra il 1913 e il 1914, Cabiria è considerato il primo blockbuster della storia del cinema in costume. Trionfo della messa in scena, vi si fondono macchina da presa e arti in toto, accostando elementi musicali, letterari, pittorici e architettonici. Il Museo possiede la più grande raccolta di materiali in merito (ampiamente digitalizzati e disponibili online) e ha curato il restauro della copia sonorizzata del 1931, presentandola a conclusione delle Olimpiadi della Cultura nel 2006, per poi distribuirla in tutto il mondo.
Il kolossal diretto da Giovanni Pastrone (Montechiaro d’Asti, 1883 – Torino, 1959), interamente girato a Torino per il costo, stratosferico per l’epoca, di un milione di lire, viene ideato accompagnando la pellicola con didascalie letterarie per le quali Pastrone pensa, immediatamente, al Vate d’Italia. Il poeta accetta, molto probabilmente per motivi economici, e sceglie il nome di Cabiria, per poi proseguire con la creazione delle didascalie, in modo da donare al grande pubblico un’esperienza unica nel suo genere. Dannunziana anche l’idea di utilizzare una pregevole xilografia dell’amato pittore De Carolis per il libretto accompagnatorio al film, opera raffigurante un cavallo azzannato da un lupo, simboli di Cartagine e Roma.
Oltre alle didascalie, d’Annunzio volge un occhio di riguardo alla realizzazione delle musiche e alle locandine di sostegno alla pellicola. Citando le sue parole (in stampatello nel libretto originale), CABIRIA CON UN NOME EVOCATORE DEI DEMONI VULCANICI è destinata a conquistare lo spettatore con una trama ricca di «casi prodigiosi, straordinarie fortune, fulminee ruine».
L’iniziale coinvolgimento dello scrittore è attestato da una missiva che il regista astigiano gli invia il 6 giugno 1913, promettendogli un ottimo profitto per un impegno limitato. Il Vate accetta, con contratto siglato il 30 giugno, e inizia a lavorare su trama e sviluppo già delineati dal regista, dando forma definitiva all’intreccio.
Pastrone ha già pensato a trama e sviluppo e di d’Annunzio vuole sfruttare l’incomparabile guizzo poetico. L’intuizione del regista nel volerlo coinvolgere è doppiamente riuscita non solo per il legame indissolubile che, all’epoca, inizia a unire cinema e letteratura, ma per la forza ineguagliabile del verbo dannunziano. Errato, tuttavia, credere che l’influenza letteraria di Pastrone sia relegata solo agli inizi della genesi del progetto, poiché i testi che ancor oggi possiamo ammirare su pagina e pellicola, sono il frutto di una collaborazione assidua e costante tra regista e scrittore, non sempre in accordo, ma solidali nell’individuare nel fuoco l’elemento chiave dell’opera.
Incisive le didascalie, presenti sul libretto, in questo senso:
GLI EVENTI E GLI EROI SEMBRANO OPERARE SECONDO LA VIRTÙ DEL FUOCO INFATICABILE.
A MACISTE IL FUOCO SELVAGGIO SPLENDE DA LUNGI COME UN BAGLIORE DI SPERANZA
UNA NOVISSIMA FORZA CHE SCAGLIA DARDI PER GLI OCCHI
CONSUMA IL SACRIFICIO TU STESSO NELLE TUE FAUCI DI FIAMMA VORACE! FAME ARDENTE, RUGGENTE…
RE DELLE DUE ZONE, T’INVOCO, RESPIRO DEL FUOCO PROFONDO
La fiamma è la protagonista indiscussa, in grado di impregnare l’intero tessuto narrativo, esaltando trama e personaggi, segno distintivo dell’approccio teatrale di d’Annunzio, il quale si presta anche dal punto di vista promozionale, disquisendone in un’intervista al Corriere della Sera, datata 28 febbraio del 1914, pubblicata in occasione dell’uscita del film:
– Qual è il soggetto?
Si tratta di un disegno di romanzo storico, delineato parecchi anni fa e ritrovato tra le mie innumerevoli carte. Il disegno era troppo ambizioso e non fu attuato in opera d’arte. Che tremendo sforzo di cultura e di creazione ci voleva infatti per rappresentare, nel terzo secolo avanti Cristo e il più tragico spettacolo che la lotta delle stirpi abbia dato al mondo! Gli eventi e gli eroi sembrano opera secondo la virtù del fuoco infaticabile. Il soffio della guerra converte i popoli in una specie di materia infiammata che Roma si sforza di forgiare a sua somiglianza.
– Si tratta dunque di una vastissima tela.
Credo che non ne fu mai presentata di più vasta né lavorata con più cura dei particolari, con più rispetto dell’archeologia e del carattere storico, con maggiore armonia di movimenti e di aggruppamenti. La Casa Editrice ha senza dubbio compiuto il più grande e ardito sforzo che sia mai stato fatto in quest’arte. Si tratta di grandi composizioni storiche collegate da una finzione avventurosa che si rivolge al più ingegno sentimento popolare. E il mio dilettissimo Ildebrando da Parma ha composto su Cabiria un mirabile poema sinfonico.
La Vittoria Alata di Edoardo Rubino
Alla sommità del Parco della Rimembranza, sulla collina di Torino, spicca il maestoso Faro della Vittoria, opera di Edoardo Rubino (Torino 1871- 1954). Il monumento, anche noto come Vittoria Alata o Faro della Maddalena, è simbolo dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1928, organizzata per celebrare il decennale della vittoria italiana nel Primo Conflitto Mondiale. All’epoca, la città necessita di un rilancio economico e l’Esposizione Nazionale, con i suoi quaranta padiglioni ospitati all’interno del parco del Valentino, risulta essere un’iniziativa particolarmente riuscita. Per l’occasione, inoltre, la Mostra della Vittoria celebra d’Annunzio con l’esposizione del MAS 95, utilizzato durante la Beffa di Buccari.
A seguito dello smantellamento dell’Esposizione, si propone di realizzare un’opera scultorea di grandi dimensioni da collocare al già citato Parco della Rimembranza, da qui la commissione – da parte di Giovanni Agnelli – a Rubino. La scultura, chiaramente ispirata alla Statua della Libertà, di cui riprende gesto e sguardo fiero, viene finanziata dal Senatore e ha le fattezze della modella Cecilia Lavelli, collaboratrice di molti artisti attivi all’Accademia Albertina di Belle Arti.
Il monumento raffigura la vittoria alata nell’atto di spiccare il volo e rappresenta la maturità artistica di Rubino, che lascia alle spalle lo stile liberty per seguire i più severi dettami fascisti, benché la veste scolpita tradisca un’influenza ancora fortemente secessionista. La statua, nel suo movimento netto, è solenne e armoniosa, nonostante la posa abbia richiesto la divisione in tre blocchi per via di peso e dimensioni ciclopiche. Salutata dalla stampa locale e nazionale come il capolavoro assoluto di Rubino, è realizzata in travertino e viene dapprima posta all’entrata del parco, per poi essere trasferita su Piazzale Gorizia, che la ospita tutt’oggi.
Dopo aver consultato la Società Piemontese di Elettricità, per far sì che il faro sorretto dal monumento fosse visibile da ogni angolo della regione, si passa alla stesura dell’epigrafe, al centro del nostro interesse, la quale avrebbe dovuto essere aulica e imponente come il monumento stesso.
Mirata, quindi, la scelta di Agnelli nel consultare l’amico d’Annunzio, il quale risponde alla richiesta, donando i versi:
ALLA PVRA MEMORIA
ALL’ALTO ESEMPIO
DEI MILLE E MILLE FRATELLI COMBATTENTI
CHE LA VITA DONARONO
PER ACCRESCERE LA LVCE DELLA PATRIA
A PROPIZIAR COL SACRIFIZIO L’AVVENIRE
IL DVREVOLE BRONZO
LA RINNOVANTE SELVA
DEDICANO
GLI OPERAI DI OGNI OPERA
DAL LORO CAPO GIOVANNI AGNELLI
ADVNATI SOTTO IL SEGNO
DI QVELLA PAROLA BREVE
CHE NELLA GENESI
FECE LA LVCE
FIAT LVX: ET FACTA EST LVX NOVA
MAGGIO MCMXV – MAGGIO MCMXXVIII
Rubino gioca di sottrazioni nell’ideare il basamento di granito sul quale scalpella l’epigrafe del Vate, quasi a voler suggerire che il masso si trovi lì da sempre, perfettamente integrato nella morfologia del luogo.
L’opera compiuta avrebbe dovuto essere inaugurata il 24 maggio 1928 ma, a seguito di un lutto che colpisce la famiglia Agnelli (la morte di Anicina, figlia del Senatore) si opta per la sola accensione della fiaccola, con conseguente rinvio della cerimonia.
I passaggi di d’Annunzio a Torino
Per quanto riguarda i passaggi teatrali del Vate in quel di Torino, segnaliamo il soggiorno risalente al 25 gennaio 1901, per la prima assoluta de La Canzone di Garibaldi. Torino saluta a gran voce il Vate, il cui soggiorno è, largamente, commentato dal quotidiano La Stampa. La Canzone, infatti, è caratterizzata da una narrazione di forte presa, resa ancor più leggendaria dalla lettura dell’autore stesso, tenutasi al Teatro Regio, dove viene accolto vivacemente dal pubblico. Lo stesso teatro rivedrà il Poeta, l’anno successivo, per la prima piemontese di Francesca da Rimini datata 15 gennaio 1902.
Le rappresentazioni dannunziane si susseguono fino a quello che risulta essere uno dei maggiori successi torinesi del Poeta, ossia la prima de Il Ferro, tenutasi il 27 gennaio del 1914 e recensita per La Stampa da Domenico Laura, che ne elogia lo stile squisito, sottolineando come: «un’ansia di tragico dolore lo riempie, un suono tenuto costantemente su di un tono di alta tensione è nella sua voce». La messa in scena è destinata a distinguersi con ben quindici chiamate al proscenio.
La collaborazione tra Gabriele d’Annunzio e il costumista Caramba
La mostra torinese dedicata al costumista Caramba, ospitata presso le sale della Fondazione Accorsi – Ometto nel 2022, ha dato modo di approfondire gli stretti rapporti tra l’artista pinerolese e Gabriele d’Annunzio, soprattutto durante la creazione di Parisina (1913).
Luigi Sapelli (Pinerolo 1865 – Milano 1936), dopo aver frequentato il liceo tecnico di Torino, inizia una carriera da caricaturista e illustratore, utilizzando attivamente lo pseudonimo di Caramba (ispirandosi alla gioiosa esclamazione spagnola). A partire dagli anni Dieci del Novecento, è il Teatro alla Scala di Milano a richiederne i servigi e a coronarne la maturità artistica. Proprio in questo periodo si dedica a Parisina (1913), tragedia lirica in quattro atti, ispirata al poema omonimo di Lord Byron, musicata da Pietro Mascagni e accompagnata dal libretto di Gabriele d’Annunzio. La pièce, nata come parte di una trilogia dedicata ai Malatesta che resta incompiuta, trova nei costumi di Caramba il proprio segno distintivo, poiché ottimamente abbinati alla forza tragica che contraddistingue i protagonisti dannunziani. Il Vate rimaneggia, per l’occasione, elementi già utilizzati in precedenza per rendere l’opera più solida, impreziosendola con vocaboli arcaici.
Una proficua comunione d’intenti, quella nata con Caramba, poiché quest’ultimo non si occupa solo di ciò che più squisitamente gli compete, ma offre suggerimenti registici, attoriali e scenografici, affinché nulla venga lasciato al caso e, anzi, i dettagli dei suoi costumi siano maggiormente evidenziati, in modo da formare un insieme organico con l’opera per i quali sono stati disegnati.
Riportiamo, ai fini di questa indagine, alcuni versi significativi tratti dal II Atto:
Qual roba mi metti?
La più bella, la più bella,
quella di panno d’oro
foderata d’armellini;
e il mantello fiamengo,
gli zoccoli d’argento,
e la rete, e la borsa, e il vel di Candia,
e tutte le collane al collo, tutti
alle dita gli anelli,
e la cintura
per cingermi più ricca,
la più alta,
quella a perle e balasci; ch’io sia carica
di gioie, ch’io mi porti
addosso quel che m’è più caro.
L’allestimento della già citata mostra piemontese accoglieva i visitatori proprio con il «mantello fiamengo» indossato dall’attrice Tina Poli-Randaccio per la prima tenutasi presso il Teatro alla Scala di Milano, il 15 dicembre 1913. Veste che Laura Malatesta (detta «Parisina») indossa per presentarsi al cospetto della Madonna di Loreto. Si tratta di un superbo capo, per il quale Caramba utilizza ori e argenti atti a evocare la grazia di un pavone e la leggiadria del volo, ornandolo di piume a simboleggiare la vanità terrena. Il mantello indossato dall’attrice, da un lato strizza l’occhio a motivi orientaleggianti, abbracciando prepotentemente le atmosfere liberty del tempo, dall’altro porge il fianco alla britannica Morris & Co. con una fantasia ipnotica.
Effetto reso possibile dalla traduzione su tessuto delle parole del Poeta da parte di Caramba, il quale amalgama elementi storici e poetici, facendo tesoro dei suggerimenti di d’Annunzio, artefice – altresì – dell’ambientazione di Parisina, incentrata su suggestioni scenografiche e costumistiche di eco rinascimentali.
I rapporti con Caramba proseguono nel tempo, fino alla trionfale rappresentazione de La figlia di Iorio, interpretata da Maria Melato l’11 settembre del 1927, al Vittoriale.
D’Annunzio negli archivi torinesi
Due gli archivi torinesi meritevoli di menzione ai fini di questo studio. Il primo, online, dedicato al quotidiano La Stampa, il quale offre svariate voci dannunziane, di cui riportiamo le più singolari.
Si parte dal 4 luglio 1937, data di inaugurazione del monumento al Duca d’Aosta, gruppo scultoreo in bronzo collocato in Piazza Castello, eretto per onorare la memoria di EmanueleFiliberto di Savoia , da parte del re Vittorio Emanuele III (altresì, artefice del conferimento a d’Annunzio del titolo di Principe di Montenevoso), con cerimonia trasmessa in diretta dalla Radio di Stato. Immediata la risposta di d’Annunzio all’invito del re benché, successivamente, decida di non intervenire: «non mancherò d’essere chinato davanti al bronzo del mio Duca nella mattina del 4 luglio, obbedendogli gelosamente».
Curiosi gli articoli del 25 e del 27 giugno 1929, dettagliata cronaca dell’operazione all’appendice che d’Annunzio subisce la notte del 24, a Gardone. L’intervento avviene per mano del professor Benali della Regia Università di Torino (aiutato dal dottor Duse) e si conclude con successo.
In altra occasione, La Stampa rimarca la passione di d’Annunzio per le automobili FIAT, a bordo delle quali compie gesta eroiche che consentono l’inizio di un fitto scambio epistolare con il Senatore Agnelli. Sarà proprio quest’ultimo a chiedergli di scegliere il genere del lemma ‘automobile’ entrato a far parte del vocabolario italiano su calco dal francese. D’Annunzio risponde attraverso una lettera indirizzata al Corriere della Sera (27 gennaio 1923) e riportata dal quotidiano torinese:
Mio caro Senatore, in questo momento ritorno dal mio campo di Desenzano, con la Sua macchina che mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza. Inclinata progreditur. Le sono riconoscentissimo di questo dono elegante e preciso. Ogni particolare è curato col più sicuro gusto, secondo la tradizione del vero artiere italiano. Per consacrare l’accertamento del genere masc. o fem., ormai determinato dalla novissima macchina, Mastro Paragon Coppella, orafo del Vittoriale, osa offerire alla Sua figliuola e alla Sua nuora questi infallibili talismani. Le stringo la mano.
Il Vittoriale. 18 febbraio 1920 Il Suo Gabriele d’Annunzio
***
Estremamente vario l’archivio relativo alla Gazzetta del Popolo, presso l’Archivio Storico di Torino: dalle immagini appartenute a Maroni, atte a documentare la costruzione del Vittoriale, alle istantanee che ritraggono, tra le tante, il Vate con Italo Balbo o Giuseppe Primoli. Documentati per immagini, altresì, l’opera scultorea di Armando Giuffredi (una medaglia raffigurante il Poeta) e il calco della mano, eseguito post mortem da Arrigo Minerbi che così descrive i particolari della realizzazione:
Ho nelle mie mani le sue mani. Levo il nastro che lascia un solco ai polsi, e le disgiungo. destra mi si abbandona morbida e confidente. Cerco di atteggiarla nell’atto di scrivere… mi ubbidisce all’istante. Il pollice si appoggia lentamente all’indice e vi aderisce. Vi aderisce tanto, che nel calco in gesso ne rimarrà visibilmente l’impronta. Penso: certo l’abitudine di serrare la penna ancora lo tiene! Il gesso liquido e freddo ricopre lentamente il polso, le dita, la mano che ha scritto le Laudi.
Le fotografie si susseguono e mostrano il pugnale d’argento donato dalle donne fiumane il 20 gennaio 1920, la bandiera di Torino offerta dal capoluogo sabaudo al Vittoriale nel giorno delle esequie del Poeta e un busto scolpito da Angelo Righetti.
La documentazione, esaminabile esclusivamente in loco, include un’altra curiosità, datata 20 gennaio 1931: un articolo interamente dedicato al celebre chiromante triestino Renato Damiani, il quale ha modo di leggere la mano a d’Annunzio nel 1926, rimarcandone l’inusuale, perfetta simmetria. Accorato il pensiero rivolto all’incontro col Vate e alla coppia di gemelli con rubini regalatigli dal Comandante, da quest’ultimo definiti: «due gocce di sangue».
Sempre a proposito di incontri inusuali, il 23 marzo 1938, poche settimane dopo la morte del Poeta, la Gazzetta dedica un articolo al rapporto privilegiato tra d’Annunzio e il dottor Pier Luigi Valdini, radiologo di fama internazionale che si occupa del Vate in occasione della caduta avvenuta in circostanze misteriose il 13 agosto 1922 che lascia d’Annunzio in gravissime condizioni per diversi giorni. Da quel momento, le visite del medico di Salò si fanno più frequenti, anche grazie al sincero interesse dello scrittore per gli studi e le ricerche del radiologo di fama internazionale. Valdini ne diviene confidente, al punto da ricevere questa missiva, citata nell’articolo:
Perché mio sapiente compagno, non v’è una macchina che allontani o fulmini o intossichi i troppi sollecitatori che orami mi disgustano della vita? Bisognerebbe che il dio ignoto mi circondasse d’un cerchio ultra-violetto micidiale.
Un ultimo, interessante messaggio, pubblicato il 25 settembre 1934 (ma datato 9) è indirizzato da d’Annunzio a Luigi Pirandello, per congratularsi della rappresentazione de La figlia di Iorio al Convegno Volta sul Teatro Drammatico. Evento che vede lo scrittore siciliano nelle vesti di curatore della messa in scena dello spettacolo (con scenografie a opera di Giorgio De Chirico) a chiusura della manifestazione, tenutasi presso il teatro Argentina di Roma. Così d’Annunzio:
Mio caro Luigi Pirandello,
Sono molto contento che in tanta lontananza tu mi dia d’improvviso questa prova fraterna, nell’allestire e inspirare una nuova rappresentazione della Figlia di Jorio, che non è se non una grande canzone popolare per dialoghi. E non serbi tuttora nell’orecchio gli accenti e le cadenze delle stupende canzoni di Sicilia?
Dico che nessuno saprà intonare il verso del mio dramma come tu solo saprai e insegnerai agli attori.
Anche penso che tu vorrai ridurre l’allestimento scenico a pochi rilievi essenziali, a una semplicità potente accordata con le forze ignude del contrasto scenico.
Ho chiesto ad Antonio Bruers s’io possa attendermi una visita in questo Vittoriale, ove talvolta fosti atteso invano.
Gioverebbe a entrambi un colloquio quasi direi tecnico, poiché tu sei “o teknikos” come io sono.
Ottimo a me ogni giorno che ti convenga e piaccia.
Ti offro un bel sasso da porre sulle tue carte scritte, con un bellissimo rilievo dell’animaliere parmense Renato Brozzi.
Ti prego di abbracciare per me, con l’affetto e l’ammirazione ch’egli di me conosce, il grande nostro Guglielmo Marconi.
Gli scriverò domani. Ti abbraccio
Gabriele d’Annunzio. 9 settembre 1934.
Bibliografia essenziale
Emanuela Borgatta, D’Annunzio. Tracce piemontesi, Pescara, Ianieri Edizioni, 2022
Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2002
Silvio Alovisio, Cabiria – Lo spettacolo della storia, Milano, Mimesis, 2014
Gabriele d’Annunzio, Cabiria – Visione storica del terzo secolo A.C., Torino, Itala Film 1914
Pier Luigi Bassignana, Il Faro della Vittoria, Torino, Edizioni del Capricorno, 2013
AA.VV. In Scena! Luci e colori nei costumi di Caramba, Genova, Sagep Editori, 2022
Archivio Gazzetta del Popolo, Archivio Storico di Torino, Buste Gabriele d’Annunzio
Sitografia
Polizza del Vittoriale:
https://museorealemutua.org/visit_path.php?id=3
La figlia di Iorio, 11 settembre 1927:
Archivio digitale Museo Nazionale del Cinema:
https://www.museocinema.it/it/collezioni/archivio-storico
Archivio digitale La Stampa:
https://www.lastampa.it/edicola/ricerca.jsp