di Costanzo Gatta, Enciclopedia dannunziana
Cantore di Brescia per antonomasia è Angelo Canossi. Simile a un organista che sa toccare tutti i registri dello strumento ci ha commosso fino alle lacrime, divertito senza ricorrere a scurrilità, inorgoglito facendoci sentire fieri figli della leonessa. Un grazie al buon menestrello che ha nobilitato «il parlare più bello» a lungo bistrattato, come ricorda il filosofo e poeta Francesco Bonatelli: «O lengua dei Bressà, lengua poerina, / che te sé stada semper despressada, / te sé come ’na bela s-citulina, / che nissü i varda perché l’è sbindada» (in Fappani-Gatti 1978, I, p. 156). M’è venuto l’uzzolo di avvicinare Canossi a d’Annunzio. Come dire, il princisbecco è l’oro zecchino. L’accostamento nasce dalla convinzione che le vite del ‘poverello francescano’ e del ‘principe rinascimentale’ corrano parallele come i binari del treno che solo in lontananza sembrano convergere. Tutti e due nascono di marzo, in una città di provincia: Canossi nel 1862, d’Annunzio nel 1863. Entrambi adorano la madre e detestano il padre. D’Annunzio nel Trionfo della morte è tranchant: «una ripugnanza invincibile gli si levava dalle radici dell’essere al pensiero di dover affrontare il padre, al pensiero di dover compiere un atto di forza e di volontà. Avrebbe preferito farsi troncare una mano». Se Canossi tace, il suo primo biografo non risparmia critiche al genitore:
Lo aveva allevato con eccessiva severità. […] Quand’era fanciullo il padre gli aveva detto grave e lapidario: ‘Sillaba di Dio mai si cancella e quella del padre idem’. Se chiamato dal padre il figlioletto andava a metterglisi dinanzi come se fosse stato un minuscolo militare. L’un braccio e l’altro tesi lungo i fianchi, senza batter ciglio. Scarse in quei verdi anni le carezze. Frequenti le privazioni, le rinunce, i castighi. [Furlan 1949, pp. 4-5]
Ambedue i poeti vivono a cavallo fra Otto e Novecento. Il vate chiude gli occhi a marzo del 1938 lasciandoci in eredità romanzi, drammi in italiano e in francese e la poesia più raffinata e varia. L’8 ottobre 1943, quando il cantore di Brescia dice addio al mondo, ha pubblicato solo due libri di poesie in dialetto: La MeLoDia e Congedo. Prima di accomiatarsi, butta giù pochi settenari in lingua che intitola, ispirandosi al purgatorio dantesco «Ai dolci amici addio». Ripiega su un mediocre italiano fra lo scherzoso ed il melanconico dopo aver dato prova, di maneggiare il dialetto da gran signore. Per un suo ritratto faccio tesoro delle parole di Pietro Gibellini (nell’Introduzione a Canossi 2012):
Canossi non è un grande poeta, e neppure il maggior poeta in dialetto bresciano: ma è certamente il più popolare e il più genuino interprete di un sentimento collettivo. Egli è stato, per più generazioni nelle quali era forte il senso di appartenenza corale, il piccolo vate della brescianità, l’interprete di un mondo di valori antropologici, etici e sociali, nel quale coesistono, o coesistevano, modestia e orgoglio.
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Prima del momento magico di Canossi, che non è Leopardi, ma uno squisito artigiano della parola, diamo un’occhiata al passato. La Passio Christi dei Disciplini di San Cristoforo è il primo documento di poesia. E siamo alla fine del Trecento. Dopo più di un secolo ecco tre vigorosi sonetti di Andrea Marone. Del 1544 è La Massera da bè, una frottola che non elogia solo l’abilità culinaria di Flor da Cobiàt, ma denuncia le condizioni di vita dei contadini. Il Seicento regala un curioso Mistero, con un ‘Re buffo’ che parla in dialetto. Segue una mordace tragicommedia di un Squaquadrante Carnevale e di madonna Quaresima. Quindi le ottave dello sboccato Pietro Rescatti. Segue il misterioso Persiano Melloni con la contraffazione del Pastor Fido del Guarini. Il Settecento offre componimenti laudativi di don Arcangelo Barcellandi e Giannantonio Rizzieri. E fiacchi versi di Buzzoni, Luzzago, Ronchi, Usupini. Di gran lunga migliori le rime del giansenista Guadagnini e del carmelitano Pierluigi Grossi. Viene l’800 di Francesco Perini, Tomaso Grossi, Cesare Arici, Piero Lottieri, del fecondo Gaetano Scandella e dell’arguto Giacomo Boventi. Infine, ecco Canossi, «il piccolo vate» – parole di Gibellini – che mi piace accostare al «grande vate». L’uno, collegiale modello al Cicognini, e l’altro – «ön scolér che fa ’l stüpid per miga pagà daze» (come Canossi diceva di se stesso: «uno scolaro che fa lo stupido per non pagar dazio») – mostrano di saper tenere la penna in mano fin da ragazzi.
A tredici anni il bresciano non pensa al dialetto. Anzi! Invaghitosi di una ragazzina conosciuta in vacanza a Cedegolo (Valcamonica) le dedica versi in italiano. Titolo: Incipit vita nova. E subito fa capire che la poesia in lingua poco gli s’addice. Endecasillabi perfetti ma superati.
Allorché vespro rosseggiante appare
un soave pensier mi scende al cuore,
che ogni cosa mi porta ad obliare
e sol di pace mi parla e d’amore,
onde solo m’en vo’ per salutare.
Amante di Dante al pari di d’Annunzio, definirà la ragazzina «al cadere di una rima la sua Beatrice»: «Allor disciolto il labbro a un dolce riso / con tal soavità “grazie” mi dice / che pel piacer mi credo in Paradiso» (Gatta 2012, p. 23).
A sedici anni pure Gabriele compone versi. Non sono eccelsi, ma altro è lo spessore. Anche rispetto al dialetto d’Annunzio e Canossi non sono lontani. Il poeta di Pescara non lo rifiuta. Prendiamo in Terra vergine il canto di Nara: «Fiore de line, / lu line ca lu fa lo fiore chiare; / la donne ci ji tesse lu panne fine» (Fiore Fiurelle, in D’Annunzio, Terra vergine). E in Fra’ Lucerta il canto della Mena e compagne «Tutte le fundanelle se so’ seccate; / Pover’amore mi’! more de sete!» (ivi).
Nella produzione letteraria dannunziana l’amore per la terra natia e l’attaccamento alla lingua parlata hanno sempre costituito una componente costante. Per questo in certe opere come La Figlia di Jorio si trovano espressioni dialettali. Il poeta sceglie il dialetto quando amoreggia scherzando con l’amante veneziana (Olga Brunner Levi) che gradisce giocosi versi nel suo «veneto lagunar». Oppure se vuol esser schietto con il conterraneo Pasquale Masciantonio che lo invita a tagliare alcune terzine della Canzone dei Dardanelli offensive per l’Austria. Infine se vuol compiacere un pasticciere di Mortara che aveva sfornato un’esemplare torta paradiso ecco rime in milanese. Acuto il giudizio di Pietro Gibellini (1977, p. 14): «pallidi echi portiani sono avvertibili nel componimento».
Canossi ama visceralmente il parlare bresciano e lo sceglie per comunicare e poetare. Gli piace esprimersi nel «lumacoso volgare» disprezzato da Carducci, regio commissario d’esame al Bagatta di Desenzano nel 1882. Rosicchiando una costoletta «alla fè di Dio con patatine ben crogiolate» il Quartucci – il nomignolo affibbiatogli – descrive a Severino Ferrari il gustoso pranzo offerto dai preti. Da intenditore, elogia «il buon vinetto nero» che è in in tavola. Dice che in cantina ci sarebbe un bianco migliore. Ma lui non vuol cedere alla tentazione del vino «ch’è un po’ traditorello, il furbetto». Teme di farsi «imbecherare». Ha da tener d’occhio i lombardotti «mentre devono scrivere i loro poveretti pensieri nel loro poveretto e lumacoso volgare». E chiude la lettera assicurando Severino «che non diventeranno mai né il Fracastoro né il Castiglione» (lettera Giosuè Carducci a Severino Ferrari, 8 luglio 1882).
Da quel giorno inizia il dileggio dei dialetti e, via via, il disprezzo e la decadenza, fino alla decisione del Duce. Per esaltare l’italianità fermò Gentile. Suggeriva che anche accettando il dialetto parlato dai bambini si poteva arrivare a un buon italiano. Canossi, mussoliniano sfegatato, aveva capito lo sbaglio del Duce. Mi figuro la gioia se avesse saputo che nel 1892 d’Annunzio aveva composto in napoletano A vucchella.
I due poeti amano il teatro. Gabriele a trentatré anni scrive La Città morta. Lontano dalla sua poetica il dialetto. Sopporterà a fatica la parafrasi in dialetto siciliano de La Figlia di Jorio (A figghia di Joru). Anche Angelo, giovanissimo, tenta un dramma in lingua. Tema le Dieci Giornate. Dato che Viviani, nonno materno le ha vissute, chiede un parere. Stroncatura secca.
Quando il carmelitano [Maraffio] ordina ala gente di farsi da parte la metrica è perfetta ma improbabile l’espressione: ‘Bresciani! Indietro! Indietro, ho detto! Olà’. Troppo raffinata la frase – dice il Viviani. Doccia fredda per il trageda in erba: Non ci siamo. Ho ancora nelle orecchie la voce del bechér ‘Endré, perché ’ncö l’è dé dè sbèrle! Vè dize, sbèrle’. [Gatta 2012, p. 28]
Salutare lezione: «Parla come tè majet». Quindi evviva Ruzante, il Magagnò, Baffo, Basile, Galeazzo dagli Orzi e viva Porta, Belli, Grossi. E ancora: Testoni, Bersezio, Pascarella eccetera. Dopo lo schiaffo benefico del nonno, Angelo si ribella al diktat del padre Carlo – maestro dell’Italia postunitaria – che gli aveva imposto l’italiano. Eccolo rifiutare la koiné e sposare «èl parlà piö bèl». Però, da eterno indeciso, farà passare del tempo prima di pubblicare versi sui giornaletti che dirige. Debutterà nel 1891 su «Guasco» con Fa fred, righe sbrigative che per pudore, non metterà mai nelle antologie.
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A Pasqua del 1881 d’Annunzio è a Firenze ospite di Mario Foresi, che il padre Francesco Paolo ha designato raccomandatario del figlio studente al Cicognini. Durante la vacanza, per ben tre volte, fa visita al professor Tito Zucconi, insegnante di lingue e letterature straniere nel collegio pratese. «A muoverlo, la prima volta era stato senza dubbio, l’affettuosa simpatia che da qualche tempo lo legava a quell’uomo. […] Ma subito un altro motivo si era aggiunto, cioè l’incontro, con Elda, figlia maggiore di Tito» (d’Annunzio 1985, p. 8). Gabriele il 29 aprile si dichiara alla ragazza. Seguono mesi di appassionata corrispondenza. Poi il 9 giugno, dopo averle promesso che avrebbe frequentato l’università della città del giglio, parte per Roma e solo sei mesi dopo riavvicina la ragazza. «A Firenze per riabbracciare l’amata, tornò e si trattenne in via Cassia una quindicina di giorni nel periodo natalizio» (ibidem).
In quell’inverno dell’81 è in Toscana anche il bresciano. Uscito dal liceo Bagatta di Desenzano, ha scelto il Regio Istituto di studi superiori di Firenze. Per caso i due giovani fanno amicizia. Il diciottenne di Pescara a quel tempo è incredibilmente trasandato. «Aveva allora i calzoni sempre rappezzati, un capello a sbrindulù [sformato] che faceva pietà, gli stivali senza tacchi, non portava mai cravatta e quasi mai colletto. […] Era trascuratissimo. Peggio di me che portavo ancora gli abiti di mio padre ingegnosamente ridotti» (Furlan 1949, p. 193).
La poesia è argomento che li accomuna. Possono discuterne per ore in piazza san Marco o nella sede dell’«Alcibiade», un giornaletto studentesco presto scomparso. Scoprono di amare ambedue la Divina Commedia e si trovano concordi nel rifiutare le tesi che i professori inculcano ai loro discepoli: Beatrice non è personaggio di fantasia, ma la figlia di Folco Portinari. Considerato che le correnti di pensiero sono due, Canossi e d’Annunzio cui non manca lo spirito, dividono gli studenti fiorentini in due squadre: «quella comprendente i simpatizzanti dei troppo diligenti commentatori danteschi e che vennero poi chiamati i critici; e quello chiamato dei matti. Comprendente coloro che, come loro due, trascurata ogni minuzia, dicevano di guardare il poema dantesco da più elevate vette» (ivi, p. 13).
Quasi vent’anni dopo – 8 gennaio 1900 – quando d’Annunzio in Orsanmichele tiene una Lectura Dantis e commenta il canto VIII dell’Inferno, Canossi, saputo che Pascoli ha bocciato l’interpretazione dannunziana, non esita a prender le difese dell’amico. Fosse stato un opportunista non lo avrebbe fatto. Pascoli aveva elogiato le poesie in dialetto del Canossi che gli aveva mostrato un alunno bresciano: Lucio Silla Cantù (1877-951), tenente del genio nella prima guerra mondiale, allievo del Pascoli a Bologna, che a questi fece conoscere la produzione dialettale canossiana, fino a quel momento inedita.
Con il rientro di d’Annunzio a Roma i due si perdono di vista. Per un caso Canossi rivede l’amico il 28 giugno 1883 alla stazione di Firenze. Ma eviterà di salutarlo. Dava braccio alla duchessina Maria Altemps Hardouin di Gallese, inseguito da Prefetto e poliziotti.
Un giorno anche Canossi lascia l’Arno. Sceglie di proseguire gli studi alla Sorbona di Parigi dopo aver litigato con il professore che assegnandogli la tesi voleva che il bresciano comprovasse che Beatrice era frutto di fantasia. Letta la tesi dell’alunno concluse che non era stato abbastanza attento alle sue lezioni.
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Passano gli anni, nessuno dei due si laurea. Viene il 1890 e mentre d’Annunzio pubblica Isotteo e ‘La Chimera’, Canossi è scelto come segretario di Pompeo Molmenti, eletto in quell’anno al parlamento. Anche Molmenti è fra le conoscenze di Gabriele. Filippo Caburlotto azzarda una data: «Presumibilmente nel 1885 durante gli anni romani» (d’Annunzio 2011, pp. XXIII-XXI).
Canossi, lusingato, va a Roma, ma basta l’aria di Montecitorio a fargli capire che non sarebbe un buon segretario. Ringrazia, torna a Brescia e qualche anno dopo (1905) scrive un sonetto che suona come dichiarazione d’amore per la sua città. Per titolo la frase storica di Pio IX: Non possumus. Nel 1897 anche d’Annunzio entra in politica. Sarà deputato – estrema destra – per poi scoprire nel 1900 che passando nelle file dell’estrema sinistra si va verso la vita. Passaggio inverso a quello di Molmenti. Dalla sinistra storica a destra.
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Angilì, convinto che nessuno sia pari a d’Annunzio, divora i suoi libri. Il titolo del 1910 Forse che sì, forse che no gli servirà per un divertente Forse ac e forse gnac: battibecco fra due impacciati promessi sposi che infarciscono il dialogo con frasi fatte, senza senso. Una mescola fra Jarry e Jonesco. Un anno dopo, a quarantanove anni, s’invaghisce di una maestra di venticinque, Ircea Poloni: non amerà che lei, ricambiato a strappi. Come d’Annunzio con ogni sua donna, le attribuisce un senhal: Ircea diviene Jole, o Giuditta che taglia la testa a Oloferne-Canossi. Per lei una cascata di poesie. Ahimé in un italiano petrarcheggiante. Il dialetto non deve contaminare la sua Beatrice. Versi, tecnicamente perfetti ma fuori del tempo. Marinetti ha già pubblicato il Manifesto del futurismo e Palazzeschi ha scritto Il saltimbanco. Canossi è indietro di secoli.
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Scoppia la Prima guerra mondiale. Il mondo si muove al ritmo delle marce militari. D’Annunzio (cinquantadue anni) e Canossi (cinquantatré) che amano la patria si offrono volontari. Mentre il primo scende in campo l’altro, scartato per troppi acciacchi, si offre di organizzare serate, recitare suoi versi e mandar l’incasso al fronte. Lui, povero in canna, non trattiene un centesimo. Nessun compenso. Gli basta un bicchiere di spumante prima del recital; ne terrà più di trecento. Nella sala Pichetti di Roma, il 15 dicembre 1915, declama, a beneficio degli alpini che combattono sull’Adamello, La scoperta dell’America, quarantanove sonetti in dialetto bresciano: gustosa parafrasi dall’opera di Pascarella. L’autore presente si complimenta. Canossi è felice: non solo ha fatto del bene ma ha dimostrato che anche le opere di altri – Pascarella, Trilussa, Pascoli, Fogazzaro – tradotte in dialetto bresciano risultano piacevoli. Al pari le composizioni di poeti stranieri quali von Bauernfeld, Heine, Adalbert Von Camisso, Petőfi. In barba ai detrattori il parlare bresciano, se ben usato, è lingua ricca di espressioni e non vernacolo privo di nobiltà. Musicalità ci vuole.
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Il 4 marzo 1923 Canossi, che non vede d’Annunzio dai giorni fiorentini, sale al Vittoriale per chiedere ramoscelli d’ulivo da distribuire, la Domenica delle Pame, sul sagrato di Santa Maria delle consolazioni. La chiesetta alle pendici del Castello di Brescia è divenuta tempio della Memoria: al tramonto una campana suona per ricordare i caduti in guerra, e ogni domenica le donne che hanno perso il figlio o il marito si raccolgono in preghiera.
Canossi trova sulla soglia della Prioria il poeta e l’avvocato Antonio Masperi: «il Comandante» gli stringe «fortemente le mani», bacia «sulla guancia il mutilato» di guerra Michele Giglio che lo accompagna e dichiara «il suo zelo per lo studio del dialetto bresciano» che compie sul volume La melodia, facendosene fare «frequente lettura da una fanciulla del paese per la pratica della pronuncia» (S.P. 1923). L’ interesse di d’Annunzio per il dialetto piace al Canossi. E più ancora quanto ha in animo: «Spero di poter presto scrivere un sonetto dialettale bresciano da dedicare a Lei». Pronta la risposta: «Ed io glielo correggerò!» (ibidem).
L’incontro è cordiale. Canossi confida di aver trovato per lui un epiteto ‘Lisofornio del Garda’. Calza bene visto l’impegno che mette per ‘stodeschizzare’ il lago. Mentre il Comandante ordina al giardiniere di preparare un fascio di rami d’ulivo Canossi gli parla della Schola cantorum della Memoria, sua creatura, e vorrebbe avere il permesso di fargli conoscere i cantori. Risponde d’Annunzio: «Non solo lo permetto ma lo esigo» (ibidem). Rientra il giardiniere con una bracciata di rami d’ulivo: «Depostala ritta su d’un sacro cuscino con la chioma fra i braccioli di un seggio venerando […] cominciò con un largo lunghissimo nastro di raso di colori fiumani ad avvolgerla religiosamente dalla base in su con gli intrecci della fascia littoria» (ibidem). Poi il padrone di casa, accompagna il dono con un messaggio su un foglio di carta Fabriano: «A Brescia gli ulivi del Vittoriale / nella Domenica Santa / Mutuo amore crescunt / Gabriele d’Annunzio / La vigila delle Palme 1923».
Prima che Canossi e il mutilato se ne vadano il Comandante fa capire quanto si senta figlio adottivo della Leonessa: «Sono oramai cittadino bresciano – e ci tengo – e credo di averci diritto». Purtroppo non avrà mai la cittadinanza onoraria – caldeggiata da molti oltre al Canossi – per il veto di Farinacci. Nel 1922 dalle colonne del suo giornale «Cremona nuova» il RAS aveva tuonato: «È ora che l’Italia conosca qual è l’idea di d’Annunzio. Poeta, parlate chiaro… O con noi o contro di noi». Lasciando la prioria Canossi nota il monito: «Clausura – Silentium». E il Comandante, per incoraggiarli a tornare, aggiunge: «Correggeremo: Clausura finché s’apra – Silentium fin che parli.» Anche il bresciano ama la quiete. All’uscio di Ca dè le bachere, il suo rustico e montano Vittoriale (della Nullatenenza), ha appeso un cartello simile:
Clausura per lutto perenne.
Frate silenzio qui con Suora pace
ebber compagno un povero poeta.
Ma sopraggiunto il pubblico loquace
cacciati ha tutti e tre da questa meta. [Gatta 2012, p. 241]
A Pasqua Canossi manda al Vittoriale una foglia di edera e tre viole e accompagna il delicato dono con poche righe in dialetto: «Fra Gabriel vardé ste foja del ligabosc e sté tré viöle e ulìga ’n po dè bé e alura capiré perché v’ho dit chè sé pròpe ‘l nòst söcher sö le maöle» (‘Fra Gabriele, guardate questa piccola foglia di edera e queste tre viole. Vogliate loro un po’ bene. E allora capirete perché ho detto che voi siete proprio come lo zucchero sulle fragole’). L’ammirazione per il Vate è sincera, come testimonia un giornalista bresciano del tempo:
Se gli toccate il d’Annunzio (che dalla giovinezza […] ha sempre seguito col pensiero e col cuore in tutta la straordinaria carriera fino alle più alte vette) se gli toccate di d’Annunzio, tosto s’infervora e mai vi lesina qualche sia interessante osservazione sull’uomo inconfrontabile. [S.P. 1923]
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Fra febbraio e maggio del 1923 i legionari bresciani, reduci da Fiume, costruiscono in Castello un’arena all’aperto da settemila posti. Nello spirito della Carta del Carnaro desiderano una stagione teatrale per tutti. Deve aprirla La Nave, per la prima volta non nel chiuso di un teatro. L’arena diviene realtà e la compagnia di Mercedes De Personali recita con successo la tragedia adriaca. Per un’indisposizione il Comandante, indisposto, deve limitarsi a mandar un messaggio che l’indomani i giornali pubblicano: «Dal suo eremo apprese con gradita soddisfazione la bella e nobile iniziativa meravigliosamente svolta a Brescia col richiamare il popolo alla vera giocondità dell’anima e col dare alla città il maggior risalto degno della sua tradizione e della sua gloriosa storia» (Sartori 1923). È invece presente alla recita dell’Orfeo di Gluck con l’orchestra scaligera. L’indomani «La Provincia» pubblica un amichevole scherzo in dialetto del Canossi per elogiare il vate che è stato in mezzo al popolo senza darsi arie. Ecco un frammento:
– Oho, Rusina, ghét vest chè belezza, chè ’l-è pròpe ignit a sentas zó ché ’n banda a noaltre de Porta Trent?
– Dèle ólte le persune piö per la quale j-è chèle che mèt zó manc bagole e manc
– Tè ghè vèst neh? Chè ’l m’ha parlat ensema! Èl m’ha dit de parlare pure in bresciano, ché lui lo sa benissimo gna più né meno di Canossi e che ci piace.
– ’L-è prope bu dè fa dè töt chèl mostro!
– Emmàginet ch’i gha inurbit ön öcc èn del vulà, e lü ’l fa sensa a’ dè chèl alter, e i sò liber èl ja scriv coi öcc seràc. […]
– Venga sempre a trovarci e non abbi paura della Leonessa. Se venisse più di spesso, la sbranerebbero di meno. I bressiani j-è fatti così! Eja Eja. [Anonimo 1923]
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Canossi torna al Vittoriale nel settembre del 1927 per far da comparsa ne La Figlia di Jorio. E lascia all’autore una quartina in lingua:
Come d’Abruzzo il magico cantore
si fé bresciano tra i lauri gardonesi.
Così i bresciani, qui per mutuo amore
corrono a trasformarsi in Abruzzesi.
Affettuoso il rimprovero del padrone di casa: «Bravo Canossi. Ma perché non ha scritto nel suo dialetto? Mi sarebbe piaciuto ancora di più» (Gatta 2012, p. 334).
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Anche dopo la morte Canossi onora il Comandante. Nel settembre del 1941, per la traslazione delle ossa di Goffredo Mameli, scrive Ghirlande del Vittoriale a Roma, una cantata musicata da Isidoro Capitanio. Intenso è il ricordo dell’amico che riposa al Vittoriale:
O Roma eterna, queste pie ghirlande
mandano a te le benacensi aiuole.
Là, dove tra i bresciani lauri e olivi
di Gabriele dormono le spoglie
e dove i morti parlan come vivi
per te intrecciammo, o Roma, queste foglie
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Canossi non è stato solo un divertente menestrello, ma un filologo che ha voluto un’accademia del Sedàs (lo staccio) dopo quella della crusca. Quando l’Ateneo gli commissiona un vocabolario bresciano-italiano evita pareri professorali. Per carpire antiche espressioni e parole dimenticate s’avvicina agli artigiani di Rossovera: un enclave non contaminato. Sulla scia di d’Annunzio che ha recuperato croio per zotico, sghignapappole per ridanciano e squarquoio per lurido, Canossi ripesca espressioni dimenticate: migole de tu (‘solluchero’), mèter le ma ’n Gesus (‘mani in croce’), se ghe salta ’l frinco (‘salta il ticchio’); esclamazioni come dicere, che esprime un brivido di gioia; parole dimenticate come cobis per ‘moltitudine’, bilicù per ‘bicchierone’, bàgher per ‘calesse’, benna per ‘automobile’, cül martel per ‘capitombolo’… Se mi chiedo chi abbia preso il posto del Canossi mi fermo a Regosa, Camerini, Gianani, Platto, Fava, Cibaldi, Tognali, Urbinati. Fuori classifica gli epigoni spocchiosi che Valzelli critica: «A rovinare specificamene il Canossi sono stati – e continuano ad essere – i suoi nipotini: quelli che l’arte sua non hanno ben appresa (a cominciare dalle particolarità morfologiche e fonetiche, ossia della scrittura e della pronuncia) e la sgalvagnano, la distorcono, la disonorano» (Valzelli 2002, p. 137).
Bibliografia
Angelo Canossi, Melodia, Congedo e altre poesie in dialetto bresciano, a cura di Elena Maiolini, introduzione di Pietro Gibellini, Bornato, Sardini, 2012.
[Anonimo], Questa sera L’ultima di Orfeo. Gabriele d’Annunzio parlerà, «La Provincia di Brescia», 8 settembre 1923.
Gabriele d’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, a cura di Ivanos Ciani, Pescara, Centro studi dannunziani, 1985.
Idem, Inediti 1922-1936, Carteggio con Maria Lombardi e altri scritti, a cura di Filippo Caburlotto, Firenze, Olschki, 2011.
Antonio Fappani, Tom Gatti, Nuova antologia del dialetto bresciano, i, Dalle origini al primo Novecento, Brescia, La Voce del Popolo, 1978.
Giovani Furlan, Canossi poeta della brescianità, Brescia, Vannini, 1949.
Costanzo Gatta, Canossi. Vita e opere, Roccafranca, Massetti Rodella, 2012.
Pietro Gibellini, D’Annunzio dialettale, versi inediti, «Quaderni del Vittoriale», 3, 1977, pp. 10-16.
Sartori, Il trionfale successo de La Nave in Castello. Un messaggio di D’Annunzio. Una recita gratuita de La Nave’, «La Sentinella», 25 maggio 1923.
S.P., La brescianità adottiva di Gabriele d’Annunzio, «La Provincia di Brescia», 28 giugno 1923.
Giannetto Valzelli, Brescia…mente. Storia Lingua Cultura Arte e Tradizioni bresciane, a cura di Vittorio Soregaroli, Alex Scalera, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 2002.
* La scheda corrisponde all’intervento su Canossi, il cantore di Brescia che guarda d’Annunzio presentato da Costanzo Gatta (1940-2024) al convegno La poesia del dialetto, promosso nelle giornate del 21 e 22 aprile 2023 dall’Ateneo di Salò e da quello di Brescia per iniziativa dei rispettivi presidenti, Elena Ledda e Sergio Onger, all’interno delle celebrazioni di Brescia e Bergamo Capitali della cultura 2023. Completava i lavori della seconda giornata, dedicata a La poesia del dialetto bresciano.