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Solus ad solam

di Francesca Martinelli, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Il Solus ad solam fu pubblicato per la prima volta da Sansoni nel 1939, a cura di Jolanda de Blasi. La sua genesi e la sua vicenda editoriale sono estremamente incerte e controverse, tanto da presentare alcuni lati ‘oscuri’. La causa principale di queste difficoltà è imputabile alla mancanza del manoscritto autografo che, secondo quanto riferito dalla De Blasi nella Premessa all’edizione da lei curata, fu donato il 26 maggio 1915 da Gabriele d’Annunzio alla contessa Giuseppina Giorgi Mancini (De Blasi 1939, p. XVIII). Nell’aprile del 1918 la donna lo avrebbe restituito per «poche ore» al Poeta, che «in quell’occasione e di nuovo più tardi le domandò di poterlo pubblicare, desistendo da tale proposito in obbedienza alla preghiera di lei alla quale lo restituì». La studiosa precisò anche che, a circa un anno dalla sua morte, la contessa permise che si desse «atto all’intenzione» espressa dal Poeta. A corredo del testo, la De Blasi decise di pubblicare alcune delle missive che d’Annunzio le aveva scritto durante la loro relazione, scelte tra quelle che avevano «stretto riferimento nel tempo e nel contenuto» (Idem, p. XXVIII) con l’opera, suddividendole in due sezioni: Dalle lettere a Giusini  ̶  I e Dalle lettere a Giusini  ̶  II. Una scelta diversa fu invece effettuata per la lettera del 31 agosto 1908, che la curatrice scelse di inserire, in facsimile d’autografo, all’interno della cronaca del 17 settembre, quasi a dividere il racconto narrativo del diario dannunziano. Occorre però segnalare che l’autografo di questa missiva non è compreso tra i documenti del carteggio d’Annunzio  ̶  Mancini conservati presso gli Archivi del Vittoriale (Martinelli 2017), neppure nella versione dattiloscritta tratta dalla prima edizione del Solus. Nelle Tavole fuori testo furono invece incluse, sempre in facsimile d’autografo, le dediche che il Poeta aveva apposto sui libri donati alla contessa, due dei quattro sonetti scritti dopo il suo soggiorno a villa Mancini, nell’autunno del 1907, e alcune lettere indirizzate al dott. Nesti, medico curante di Giuseppina. Il manoscritto del Solus, secondo quanto dichiarato dai suoi familiari, sarebbe poi stato bruciato dopo l’udienza privata che Pio XII le concesse il 4 dicembre 1939.
In assenza dell’autografo, tutte le altre edizioni dell’opera hanno fatto riferimento al testo pubblicato dalla De Blasi, anche se, a partire da quella curata nel 1979 da Roncoroni per Mondadori, gli studiosi si sono interrogati sull’attendibilità di quell’editio princeps. Il merito di aver posto seriamente in dubbio il lavoro di curatela svolto per la prima edizione del Solus spetta, però, ad Ivanos Ciani. Dopo aver visionato un «pacco di carte costituito perlopiù da facsimili e fotocopie di autografi dannunziani e di personaggi a d’Annunzio legati» (Ciani 2001, p. 479), lo studioso ha infatti addotto le prove filologiche di molti ‘rimaneggiamenti’ apportati al testo originale.
Le congetture avanzate da Ciani sono state suffragate dall’acquisizione della maggior parte dei documenti da lui esaminati da parte degli Archivi del Vittoriale. Il primo gruppo (AGV, LXXIII, 4, fascicolo nominale “Mancini, Giuseppina – lettere a Jolanda De Blasi”) comprende carte redatte dalla De Blasi e dalla stessa contessa, tra cui dieci carte, numerate dalla curatrice dell’opera da I a X, che riportano varianti al Solus, ma diverse dal testo poi pubblicato, ed una lettera che la Mancini scrisse alla De Blasi dopo l’udienza con Pio XII. In questo gruppo di documenti è poi compresa un’altra lettera, inviata alla De Blasi il 21 febbraio 1939, dove Giuseppina trascrisse un passo della missiva ricevuta da d’Annunzio il 7 novembre 1924 (Martinelli 2017, p. 821), dalla quale traspaiono alcuni dubbi sulla sua decisione di pubblicare l’opera: «“Tu sai che in nessun modo io vorrei farti pena”. Mi sembrò che ier sera alludesse che lui voleva pubblicare quel libro, invece poi lo rimandò. È così?». Il secondo gruppo (APVms, lemma 2940), redatto completamente da Giuseppina, comprende invece la trascrizione di due brani di lettere ricevute da d’Annunzio, quella del 10 novembre 1911 e quella del 25 agosto 1912, entrambe inserite nell’appendice Dalle lettere a Giusini  ̶  II, e una nota datata «Agosto 1912», nella quale la contessa riportò un passo della missiva del 25 agosto 1912 e l’incipit del Solus. Sotto la medesima collocazione, c’è poi un quaderno autografo, che riporta la trascrizione integrale dell’opera e che, come sottolineato da Roncoroni nella sua riedizione del Solus (Roncoroni 2012, p. 301), fu con ogni probabilità il testo sul quale lavorò la De Blasi. Le undici dediche che d’Annunzio appose sui libri donati a Giuseppina, copiate da lei medesima, fanno invece parte di un altro gruppo di documenti (APVms, lemma 2939). A questi si aggiunge, poi, la trascrizione della missiva del 7 marzo 1908 (APVcor, inv. 37236). Rispetto alla descrizione fornita da Ciani, oltre a copie di lettere, telegrammi e cartoline inviate dal Poeta al dottor Nesti, risultano mancanti sedici carte redatte dalla De Blasi, nelle quali erano state trascritte sei lettere di d’Annunzio (10 novembre 1906, 13 gennaio, 13 marzo, 5 settembre, 13 agosto 1912, 22 febbraio 1924), ma nessuna di esse, tranne una parte di quella datata 13 agosto 1912, fu inclusa nelle appendici dell’edizione Sansoni. Secondo lo studioso, le varianti apportate dalla Mancini furono soprattutto di carattere «censorio» e condotte «tramite potature» (Ciani 2001, p. 481), mirate a «rendere meno crudo l’episodio d’avvio» dell’opera, «attenuare la negatività della figura del padre», evitare riferimenti espliciti ai nomi dei suoi familiari, «depotenziare l’acceso erotismo» della sua storia d’amore con d’Annunzio. Un esempio significativo del criterio utilizzato dalla contessa nell’apportare le varianti al testo originale è rappresentato dalla lettera datata «Arcachon (Gironde), Chalet Saint Dominique au Moulleau, 10 novembre 1911» (Martinelli 2017, p. 727), con la quale il Poeta la informava di aver scritto il Solus: «Di quei lontani e orribili giorni io tenni un diario, con la speranza ch’Ella potesse leggerlo e sapere quel che provai e quel che feci». Questa frase fu ricopiata da Giuseppina, ed inviata a Jolanda De Blasi, con una variante significativa rispetto al testo originale (AGV, LXXIII, 4, fascicolo nominale “Mancini, Giuseppina – lettere a Jolanda De Blasi”): al ‘tu’ scelto da d’Annunzio, fu preferito il più formale ‘lei’ («Di quei lontani e orribili giorni io tenni un diario, con la speranza che tu potessi leggerlo e sapere quel che provai e quel che feci»). Occorre tuttavia sottolineare che le lettere inserite nelle appendici della prima edizione del Solus hanno, come comune requisito, non solo una datazione contestuale a quanto narrato nel diario dannunziano, ma un contenuto ‘ufficiale’: si tratta, in sostanza, di missive ‘formali’, ostensibili anche al marito di Giuseppina, e non di lettere d’amore, poiché nel periodo in cui la contessa decise di acconsentire alla pubblicazione dell’opera, la maggior parte della corrispondenza inviatale dal Poeta, in particolare di quella relativa al primo periodo della loro storia d’amore (1906 – seconda metà del 1908), non era più in suo possesso. Dal carteggio d’Annunzio  ̶  Mancini è infatti emerso che queste missive le furono sottratte dalla sua cameriera, Angiola Vico, e riconsegnate al Poeta nei primi giorni del settembre 1908 («So che vi è stato affidato un pacco di lettere. È una grandissima prova di fiducia. E son certo che lo avete custodito gelosamente. Desidero che il pacco sia riconsegnato nelle mie mani», Martinelli 2017, p. 872), anche se l’interesse verso quelle missive era già stato espresso nel luglio di quell’anno, quando lui stesso le aveva richieste a Giuseppina («Ti rinnovo la preghiera di porre in salvo le lettere. Ho il presentimento che potranno essere trovate. Ascoltami, ti prego. Su la mia parola, te le renderò quando le vorrai, quando sarà passato il pericolo», Idem, p. 685). Il motivo che lo spinse a riappropriarsi di quei documenti fu sia il timore che alcune di esse potessero essere intercettate dall’amante del marito di Giusini, Adele Scholtzel, che il conte aveva conosciuto nell’estate del 1907 durante un viaggio in Austria e che aveva portato in Italia presentandola come istitutrice di lingue straniere, sia il desiderio di poter riacquisire, sin da quel periodo, i suoi più significativi epistolari d’amore.
I dubbi e le incertezze legate alla vicenda editoriale del Solus ad solam si ripercuotono anche nella ricostruzione della sua elaborazione. Dopo aver annunciato alla contessa l’esistenza di quel «diario» nella lettera del 10 novembre 1911, d’Annunzio ne fornì maggiori dettagli nella missiva del 25 agosto 1912 (Idem, pp. 732-735), nella quale le rese noto sia il titolo, sia l’incipit.

Perciò – la prima volta nella mia vita – scrissi la storia cotidiana dell’atroce sciagura. Questo giornale va dall’8 settembre (Natività di Nostra Donna) al 5 ottobre. Comincia così: «Scrivo per veder chiaro in me e intorno a me. Sembra che il sole si sia oscurato e che la mia notte insonne continui senza fine. Accendo una lampada perché io vegga, perché i tuoi cari occhi veggano quando si risveglieranno.

Purtroppo, è assai difficile avanzare congetture sulla data di composizione dei «quattro piccoli volumi». L’intenzione di d’Annunzio era quella di fornire la «testimonianza» del suo «amore vigilante e fedele» a colei che aveva amato fin dal loro primo incontro a Roma, nel 1906, e con la quale aveva vissuto una relazione intensa fino all’estate del 1908, quella che lui stesso definì come la sua «ultima felicità» nella lettera dell’11 febbraio 1938 (Idem, p. 833). Fu infatti nell’autunno del 1908 che quell’amore folle, tumultuoso, appassionato, venne spezzato da ciò che accadde alla contessa, alla quale il Poeta aveva conferito due senhal: Giusini, nome nato dall’unione di Giuseppina e Mancini, e Amaranta, che nel linguaggio botanico indica il fiore «che non languisce, che non si consuma, che è immortale, imperituro» (Idem, p. 401). La donna cadde in una profonda crisi nervosa, non solo perché il marito scoprì la sua relazione con d’Annunzio, ma soprattutto perché dovette affrontare le violenze psicologiche e i ricatti del padre, Gaspero Giorgi, che decise di farla ricoverare nell’ospedale San Salvi di Firenze. Il Solus, quindi, si proponeva di ripercorrere la cronaca di quei terribili giorni, dall’8 settembre al 5 ottobre 1908, ed anche la scelta del genere diaristico sembra supportare la volontà di narrare i fatti in modo oggettivo. In realtà, d’Annunzio aveva già maturato da tempo l’intento di scrivere un’opera dal titolo Amaranta. Una nota anonima, comparsa nel Corriere della Sera l’8 ottobre 1905, annunciava la prossima uscita di «Amaranta, il nuovo romanzo di d’Annunzio», la cui pubblicazione sarebbe stata affidata alla Libreria Editrice Lombarda di Tom Antongini e Arnaldo De Mohr. Il romanzo avrebbe rappresentato una novità all’interno della produzione dannunziana, poiché privo di riferimenti autobiografici, e avrebbe avuto come protagonista una donna intenzionata a fuggire da casa, «per correre la vita dei circhi». La conferma che quel nome aveva ispirato la fantasia dannunziana non viene tanto dall’‘album galante’ che il Poeta preparò per la contessa, citato nel Solus (cronaca dell’8 settembre) come Il libro segreto di Amaranta, quanto da una lettera che gli inviò la stessa Giuseppina, riconducibile alla fine del giugno 1914 (Idem, pp. 784-785). In quella missiva la donna aveva addirittura incollato un articolo del Corriere della Sera, intitolato Dina Galli fra le prime interpreti dell’“Amaranta” di d’Annunzio, nel quale si affermava che egli stava lavorando ad una commedia comica, di cui la Galli sarebbe stata la protagonista. Alle esortazioni di Giusini, che dichiarò di non poter concepire che la «comica protagonista» si chiamasse Amaranta, e che lo scongiurava di lasciare «il nome d’Amaranta al pianto» e «al dolore», d’Annunzio rispose pochi giorni dopo, il 5 luglio, con una delle sue frasi lapidarie: «stupide invenzioni dei giornali» (Idem, p. 785). Le preoccupazioni della contessa avevano tuttavia un fondamento di verità: l’edizione nazionale delle opere dannunziane del 1927 comprendeva infatti un’opera teatrale intitolata Amaranta, o l’amore di domani e, tra i documenti dell’Inventario dei manoscritti redatto nel 1967, compare il frontespizio autografo di una commedia con quel titolo.
Il «libro di follia e di dolore, di disperazione e d’amore» (Roncoroni 2012, p. 30) non fu tuttavia né un romanzo, né un ‘libro segreto’, né una commedia, ma il Solus ad solam. La sua elaborazione può esser paragonata a quella di un lavoro patchwork, ed è per questo motivo che è assai complesso ricostruirne la genesi: d’Annunzio ‘ritagliò’ brani dal suo carteggio con Amaranta, riadattandoli e ‘ricucendoli’ con quelli degli appunti registrati in alcuni Taccuini (LI, LIII, LIV). Il genere di scrittura prescelto, quello diaristico, si trasformò quindi in un altro genere di scrittura, nel quale riuscirono a convivere sovrapposizioni, connessioni e scambi intertestuali. L’unico riferimento certo, come ha sostenuto Roncoroni, è quello stilistico e, da questo punto di vista, «l’opera appare piuttosto omogenea», tanto da «far pensare di essere stata elaborata nella sua totalità in un periodo di tempo abbastanza unitario e di essere stata conclusa […] in un giorno non lontano dallo stesso 5 ottobre» (Idem, p. 289). È pertanto assai probabile che l’ultima cronaca del Solus coincida, o quasi, con quella della stesura dell’opera. Almeno per questa ipotesi abbiamo un riferimento importante, fornitoci dalla lettera che d’Annunzio stesso scrisse all’editore Treves il 30 ottobre 1908, nella quale gli comunicava l’intenzione di affidargli «almeno tre volumi, e altri, o due o tre, postumi. Tra i postumi ne ho uno che porta questo bel titolo Solus ad solam» (Oliva 1999, p. 336). Il progetto fu poi accantonato, ma molte delle pagine di quel diario furono utilizzate per il romanzo Forse che sì forse che no, che costituì la quarta rielaborazione di molti brani tratti dalle lettere indirizzate a Giuseppina Giorgi Mancini: la scrittura epistolografica, ‘ricucita’ con quella schematica dei Taccuini, fu prima filtrata da quella diaristica, per poi approdare a quella del romanzo. I «quattro piccoli volumi» seguirono d’Annunzio in Francia e rientrarono in Italia nel 1915, quando furono consegnati a Giusini, sia come prova «vigilante e fedele» di quell’amore, sia per lenire, almeno in parte, il grande dispiacere causatole dalla sottrazione delle lettere che il Poeta le aveva inviato, dolore che la contessa non superò mai, rivendicando il diritto di riaverle, come confessò nella lettera datata «Settembre del 1912»

Promettimi che riavrò questi documenti vitali per me, saranno il mio tesoro, saranno la mia giustificazione davanti alla Coscienza, saranno il mio tutto, mi sono necessarii. Ed ho, e voglio, la tua promessa (Martinelli 2017, p. 737).

La «promessa» non fu mai mantenuta e quel «tesoro» di memorie affettive si dimostrò assai appetibile anche per gli editori tanto che, circa un anno dopo (Idem, pp. 763-764), Giuseppina gli confidò la sua preoccupazione, poiché l’editore Quattrini aveva intenzione di riunire in un volume alcune sue lettere d’amore.

Sono scattata come un fulmine, dicendo che io non ne posseggo, e che mai e poi mai avrei accondisceso. Mi ha detto che ha già fatto un compromesso con una Signora, della quale non mi ha voluto dire il nome. Dice che Sommaruga ha detto, che d’Annunzio gli aveva detto, che sarebbe lieto di vedere pubblicate le lettere di quel periodo… Io ho detto che non ci credo assolutamente. Sono disperatissima, le mie lettere, il mio tesoro, dove è? Dimmi, per carità, dove sono: sono mie, mie. Intendi, ci penso sempre e mi struggo dal desiderio di rileggerle. Tu hai convenuto che sono mie, e che è per custodirle che le hai volute te.

Un altro aspetto ‘oscuro’, che ha suscitato molte congetture, è rappresentato dalla richiesta, espressa da d’Annunzio, di poter riavere il manoscritto. La testimonianza di Jolanda de Blasi, che nella sua Premessa aveva fatto riferimento a questo fatto, trova riscontro nella lettera scritta alla contessa il 2 aprile 1918 («Posso mandare a prendere il Solus ad solam? Ne ho bisogno», Idem, p. 809), ma purtroppo né questa testimonianza, né altre provenienti dal carteggio, forniscono i dettagli su questa presunta riconsegna e, soprattutto, su come essa poté avvenire, considerate le oggettive difficoltà di quel periodo: Giuseppina si trovava a Firenze e d’Annunzio era a Venezia, impegnato nelle operazioni militari della guerra. Secondo Tom Antongini, la violazione del manoscritto era già avvenuta nel 1913, quando Emilio Treves si era recato ad Arcachon. In quell’occasione l’editore avrebbe visionato le pagine del Solus, «la cui audacia, come contenuto» avrebbe permesso «solo (e forse nemmeno) una edizione fuori commercio» (Antongini 2013, p. 338). L’Antongini precisò, inoltre, che le «circostanze fecero ritornare nelle mani dell’autore» il manoscritto alcuni anni dopo. Tuttavia, su qualsiasi ipotesi avanzata, gravano le parole espresse da Giuseppina nella lettera del 7 aprile 1918 (Martinelli 2017, p. 810), che pongono in serio dubbio la possibilità che la contessa abbia esaudito quella richiesta.

Non mandare, ti prego, a prendere il Solus ad solam, non te lo rimando, non me ne separo davvero, davvero. È qui, custodito come un tesoro, nessuno lo sa, e nessuno lo vede, lassù sarebbe assai più in pericolo. No, no, sta troppo bene qui da me, e tu stanne sicuro. Io non arrivo a capire, come ne hai bisogno: se ti occorrono dei brani dimmelo, te li copio e te li mando, tanto tu ricordi tutto. Va bene? Ma non me lo portare via, mi raccomando.

Contenuto e struttura

Il titolo, oltre a riecheggiare stilemi biblici, richiama i versi della lirica alcyoniana Lungo l’Affrico, composta a Romena nel giugno 1902, («Luna, il rio che s’avvalla / senza parola erboso anche ti vide: / e per ogni fil d’erba ti sorride / solo a te sola», vv. 17-20), ma anche due brani tratti dalle lettere scritte ad Amaranta, la prima datata «L’equinozio di primavera, 1907» («Stanotte tiènimi sul tuo cuore, avvolgimi nel tuo sogno, incàntami col tuo fiato. Sii sola con me solo», Idem, p. 147), la seconda del 16 giugno di quell’anno («Tu sola, io solo; e un mare di malinconia tra noi due», Idem, p. 289). La locuzione ricorrerà anche nel carteggio con Olga Brunner Levi, a testimonianza di come essa fosse entrata a far parte degli stilemi dannunziani («Ma è dolce talvolta, in questo inferno, sentire dentro di me vivere l’imagine cara, e per qualche attimo essere “solo con sola”», Vivian 2005, p. 108). In assenza del manoscritto, l’unica fonte utile per ricostruire la distribuzione del testo narrato all’interno dei «quattro piccoli volumi» è la prima edizione curata dalla De Blasi. La studiosa dichiarò di aver visionato «quattrocentosessantaquattro cartelle autografe» (De Blasi 1939, p. VII) e segnalò la fine di ogni volume dopo l’ultima cronaca in esso redatta. È da questa suddivisione che si deduce che le cronache dei giorni 8 e 9 settembre occupavano il primo quaderno, quelle dal 10 al 21 settembre il secondo, quelle dal 22 al 30 settembre il terzo e quelle dal 1 al 5 ottobre il quarto. Il contenuto della «storia cotidiana dell’atroce sciagura» non risulta però organizzato in modo uniforme, poiché il primo volume occupa la narrazione più ampia dell’intero diario e, come segnalato da Roncoroni (Roncoroni 2012, p. 289), potrebbe anche essere l’unico redatto rispettando i tempi reali della vicenda. Successivamente, il piano narrativo appare sfalzato dalla realtà, e «d’Annunzio deve aver cominciato a registrare la cronaca dei vari fatti a distanza di tempo  ̶  uno o più giorni   ̶  da quando veramente accaddero» (Idem).
Dopo aver introdotto la finalità dell’opera («Scrivo per veder chiaro in me e intorno a me», Idem, p. 11), prende avvio l’immaginario dialogo tra lui e la destinataria di quella che, sin dalle prime pagine, appare al lettore come una confessione. La narrazione della prima sezione si concentra su ciò che accadde dal 5 al 7 settembre. Gli avvenimenti di quei giorni furono la diretta conseguenza di un incontro, avvenuto tra i due amanti la mattina del 1 settembre 1908 a Compiobbi, una frazione vicina a Firenze. Giusini stava cercando di raggiungere la sua residenza fiorentina per intercettare una lettera inviata al marito, nella quale aveva rinnegato il suo amore per d’Annunzio e dichiarato il suo pentimento. Su questo incontro, più volte citato come la «mattina di Compiobbi», il carteggio non offre alcuna testimonianza. L’unico documento, che può supportare la narrazione del Solus, è una nota conservata presso l’Archivio del Vittoriale (APVms, lemma 719), nella quale gli avvenimenti risultano già ‘romanzati’ e persino riportati in terza persona, come se quell’episodio avesse rappresentato un’autentica fonte d’ispirazione. La vettura della contessa si era dovuta fermare a Compiobbi per un guasto e la donna gli era apparsa «scarmigliata», «stravolta», «consunta», «incoerente», «come pazza», «irriconoscibile di dolore e di ansia», mentre «l’uomo» che le era «legato», «prigioniero del malvagio incanto», dopo aver constatato «la bassezza incurabile della creatura», si era dimostrato «sublime di perdóno e di tenerezza». La rielaborazione letteraria di ciò che veramente accadde quella mattina, nella quale l’amore era ormai divenuto insania e aveva condotto Giuseppina a rinnegare l’amante, fu poi alimentata dagli eventi accaduti il 6 settembre, ai quali d’Annunzio dedica ampio spazio all’inizio del Solus. Sopraffatto da una «pena tanto intollerabile», aveva sentito il «bisogno di essere altrove, di fuggire i fantasmi» (Roncoroni 2012, p. 16), e si era recato a Bologna per assistere a una gara della Coppa Florio. Quello stesso giorno la crisi nervosa di Giuseppina raggiunse il suo apice, traslandosi nelle drammatiche parole del telegramma che, nel carteggio, chiude il primo periodo della loro corrispondenza, e che d’Annunzio riportò fedelmente nel Solus: «Muoio di dolore e di amore. Vieni, vieni, vieni, per pietà. Alis» (Idem). La «fatalità inesorabile» di un guasto meccanico all’automobile non consentì al Poeta di rientrare rapidamente a Firenze, generando dubbi e rimpianto (Idem).

Se non fossi partito, la sorte sarebbe stata diversa? Non so. Una fatalità inesorabile ha costretto gli eventi, […]; un dio malvagio li ha precipitati nella catastrofe. […] A Bologna il rumore e la vista della gente mi sbigottirono. Non feci altro che telegrafarti parole di passione e di consolazione; non feci altro che rammaricarmi, non feci altro che maledire il momento della partenza, mostrarmi impazientissimo verso le persone che avevano necessità di parlarmi, inquieto e febbrile come se tu mi avessi infuso il tuo male.

Il racconto di quel difficoltoso rientro da Bologna fu poi trasposto dalle pagine del Solus a quelle del romanzo Forse che sì forse che no (Castagnola 1998, p. 318). A testimonianza di come la realtà di quella vicenda sia stata alterata per ben due volte dall’invenzione letteraria, interviene una fotografia apparsa sulla rivista l’Illustrazione Italiana il 13 settembre (Illustrazione italiana, 1908, 37, p. 252), che ritraeva d’Annunzio in tribuna, accompagnato da una donna. Guglielmo Gatti ipotizzò che si trattasse della De Goloubeff e che quel fatto avesse condizionato le sue decisioni di rientrare a Firenze (Gatti 1988, pp. 226-227). D’Annunzio attribuì all’episodio una grande importanza, perché è dalle conseguenze di quel mancato rientro che la narrazione iniziale del Solus appare modulata sulla tecnica di un romanzo poliziesco: Giusini che non rientra a casa e vaga per le strade di Firenze incontrando due loschi individui, il coinvolgimento della polizia alla ricerca della «povera creatura» (Roncoroni 2012, p. 25), i disperati tentativi di ritrovarla, l’inserimento della figura dell’‘aiutante’, il dottor Giovanni Nesti, che gli descrive il delirio psicologico della contessa e la sua convinzione di essere stata avvelenata con l’arsenico. Subito dopo, il racconto del diario è articolato ad ‘incastro’: d’Annnunzio alterna citazioni tratte dalle lettere di Giuseppina, resoconti sul suo stato di salute ricevuti dal medico, che assume il ruolo di ‘tramite’ tra lui e la donna, ricordi della vacanza trascorsa insieme a Salsomaggiore nell’estate del 1907 e della gita a Brescia in occasione della Coppa Florio (31 agosto-1 settembre 1907), commemorazioni del giorno della loro ‘prima volta’, l’11 febbraio 1907, e rievocazioni dei momenti più felici di quell’amore. Nell’architettura della trama, se si escludono la destinataria dell’opera e il dottor Nesti, l’unica interlocutrice con la quale d’Annunzio si confronta è Maria Votruba, la traduttrice cecoslovacca di alcune sue opere. Il suo personaggio è inserito a partire dalla cronaca del 25 settembre, nella quale il Poeta dichiara di averla ricevuta in visita alla Capponcina proprio quel giorno. Fallito il tentativo di «rinnovare su lei la frode voluttuosa del 17 settembre» (Idem, p. 109), quando si era abbondonato alla «trasposizione tragica» (Idem, p. 82) descritta nel romanzo Il piacere con una donna misteriosa, successivamente d’Annunzio sviluppa con lei un dialogo a distanza, citandone alcune lettere e riportandone la risposta nelle pagine del Solus.
Una grande attenzione è inoltre riservata alla descrizione dei luoghi nei quali si era incontrato con Giusini, tra cui la «Mirabella», il belvedere della villa dei Mancini in località Palazzetti (Giovi, Arezzo) e, soprattutto, i loro ‘nidi d’amore’ fiorentini. Le memorie dei giorni trascorsi alla «Mirabella» (5-11 ottobre 1907) filtreranno dal Solus («Giornata di malinconia senza confine. Tutto è ferita per il cuore nudo. Anche i ciclamini lo feriscono, i bei ciclamini selvaggi che nella foresta somigliano a quelli del bosco su l’Arno, quelli della Mirabella, innumerevoli», Idem, p. 49) al Secondo amante di Lucrezia Buti, nelle Faville del maglio, dove d’Annunzio scelse la data ‘retrospettiva’ «Dopo le calende di ottobre, 1907, (La Mirabella)», ed inserì, nella parte finale, i nove sonetti dedicati a Lorenzo Mancini. Anche la rievocazione dei ‘nidi d’amore’ ricorre spesso nelle pagine del Solus: il «piccolo giardino» (Idem, p. 11), la «stanza della Gioconda» o «stanza della Leda» (Idem, p. 43), il «chiostro verde» (Idem, p. 12). Il primo era situato presso lo studio di un caro amico del Poeta, Clemente Origo (Martinelli 2017, p. 19), e fu sostituito, l’8 giugno 1907, da un appartamento in Piazza Indipendenza, dove una riproduzione del ritratto della Gioconda era «sospeso su la parete di contro al letto» (Roncoroni 2012, p. 95), insieme a quella della Leda con il cigno. L’ultimo loro ‘nido’, il «chiostro verde», si trovava invece in via Pier Capponi. Anch’esso arredato con tessuti verdi, assunse questo nome per la presenza di un «giardino murato», sul quale si apriva la stanza che Giusini utilizzava per cambiarsi «nei grandi giorni del piacere». (Idem, pp. 12-13). Sul campanello dell’appartamento, d’Annunzio aveva fatto incidere «… e noi le nostre campane», mentre «su l’architrave dell’alcova Gabriele aveva fatto scolpire […] il seguente motto a grandi lettere dorate: “Per niun’altra”». (Palmerio 2009, p. 224). Per uno strano caso del destino, la famiglia Giorgi decise, prima di trasferire Giuseppina al San Salvi, di affittare un appartamento in una strada limitrofa a quella del «chiostro verde», via Cherubini. D’Annunzio ricorderà questo particolare nella cronaca dell’11 settembre, non senza una punta d’ironia (Roncoroni 2012, p. 46):

Il padre ha cercato qualche luogo quieto in campagna, per trasportarvi la figlia, non consentendo i medici ch’egli la chiuda in una casa di salute. Ha detto di aver trovato alcune stanze in una villa a Montughi, ma teme ch’io possa infrangere la clausura e giungere sino alla reclusa […]. Per ciò ha deliberato di trasportare la figlia nella casa di via Cherubini, a pochi passi dal chiostro verde!

Nel testo del Solus non mancano poi le celebrazioni delle imprese ‘ardite’ compiute durante la relazione con la contessa, prima fra tutte quella della «notte di Giovi» (Idem, p. 15), avvenuta il 20 agosto 1908. Complice l’assenza di Lorenzo Mancini, d’Annunzio si era introdotto furtivamente nella villa per rivedere Amaranta, provata da quanto era accaduto il 14 luglio a S. Gimignano, quando i coniugi Mancini avevano fatto una gita nella località senese insieme al Poeta. Il conte aveva sfruttato quell’occasione per rivelare ai due amanti che alcune lettere anonime lo avevano messo a conoscenza della loro relazione, rivolgendo offese e minacce alla moglie. La vicenda andò ad alimentare l’immaginario dannunziano e anche quell’episodio divenne oggetto di un’ennesima rielaborazione letteraria. Al primo rapido appunto del Taccuino LIII (Bianchetti, Forcella 1965, p. 530), seguì la ‘riscrittura’ intermedia della missiva inviata il 7 agosto all’amica Noemi Biaggini Gaspari (Damerini 1943, pp. 117-118), alla quale fece seguito dapprima quella rielaborata per le pagine del Solus (Roncoroni 2012, p. 55), e poi quella del Forse che sì forse che no (Castagnola 1998, pp. VIII-IX). Fu in seguito a questo episodio che, il primo agosto 1908, Gaspero Giorgi si recò a villa Mancini, riducendo la questione tra lui ed il conte ad una semplice ‘trattativa d’affari’: con il matrimonio Giuseppina aveva infatti portato in dote una cifra ragguardevole, centomila lire in contanti, e il marito era obbligato a riconoscerle gli interessi. Il tiranno «implacabile», «inflessibile», «inesorabile» (Martinelli 2017, p. 698) impose subito le sue condizioni, costringendo la figlia a scrivere una lettera d’addio a d’Annunzio il 5 agosto (Idem, pp. 699-700), alla quale aggiunse, di suo pugno, il congedo finale.

Tengo promessa di mia Figlia di ritornare, seriamente, sulla via del Dovere. Vorrei l’assicurazione che Ella contribuisse, pure, a far sì che tale ritorno avvenga prontamente, cosa indispensabile e necessaria perché mia Figlia conservi il mio affetto paterno.

La verità su quanto accaduto quel giorno fu rivelata da Giuseppina nella missiva del 6 agosto (Idem, pp. 700-702). Il dolore provocato dalle imposizioni paterne fu enorme ma, accanto a quello, c’erano altre due preoccupazioni a tormentarla: il fatto che d’Annunzio avesse deciso di trascorrere quei mesi estivi nella mondanità del Grand Hôtel di Vallombrosa, senza evitare gli impegni galanti, e l’esigenza di dare a quella relazione un’identità precisa, che potesse conferirle un ruolo ufficiale.

Perché non possiamo divorziare e sposarci, ed essere uniti per tutta la vita? È questo assolutamente impossibile? Dimmi se c’è un mezzo per questo, da potere fare di tutto per ottenerlo. Certe persone ci sono riuscite, non potrebbe essere che riuscisse un’altra volta? Sono folle e puerile, nel dire così? Che vuoi, mi venne subito alla mente, quando il babbo mi straziava coi suoi rimproveri e le sue guerre, e glielo dissi. E lui si disperò, pensando alla sciocchezza mia, all’amore mio, mentre lui diceva: “L’altro ti farebbe una risata in faccia. Non sai, che non è che per poco tempo ancora, che ti vorrebbe bene?”. Veramente tu ridi, veramente sono folle e puerile?

Dalla lettera della contessa, datata 10 agosto (Idem, pp. 703-705), apprendiamo che lui le confermò l’intenzione di «riallacciare la trattativa» per ottenere il divorzio, già tentata anni prima per sposare la Di Rudinì. Nei giorni seguenti (dal 14 al 18 agosto), su proposta di Giuseppina, che gli aveva ventilato la possibilità di allontanarsi da Giovi con la scusa di recarsi in visita da alcuni parenti, d’Annunzio organizzò un viaggio in Umbria. La serenità vissuta in quei quattro giorni, definiti nel Solus «giorni mistici» (Roncoroni 2012, p. 125), consentì ai due amanti di ritrovare la passione del loro rapporto e conferì al Poeta l’ardore necessario a compiere l’impresa della «notte di Giovi», grazie alla quale il suo amore si rafforzò e divenne «eroico» («Intatto era il mio, anzi divenuto eroico, afforzato dalle ultime prove, escito dalla notte di Giovi più ardito e più giovine, pronto a tutti i rischi, non d’altro desideroso se non di dare, di dare, di dare sempre», Idem, p. 15). Quella pace recuperata ebbe, però, una brevissima durata. Il ritorno di Lorenzo Mancini, che nel frattempo era stato informato della loro gita in Umbria, condusse la contessa all’esasperazione. La «crudele ironia» di quei drammatici momenti accentuò i suoi dubbi e le sue incertezze, offuscandone la ragione. Dalla missiva del [28 agosto] traspare non solo lo sconforto della sua condizione, ma perfino la paura di essere stata lasciata completamente sola a fronteggiare il marito (Martinelli 2017, pp. 718-719).

Non vivo più. Non credevo di soffrire così atrocemente. La gita di Perugia è stata veramente fatale, e tu niente facesti per mantenere l’incognito. Lorenzo è furibondo e si divide nella maniera più brutta a mio riguardo. Credo che i miei genitori ne moriranno. Di te non so niente, telegrafai d’urgenza che volevo vederti stamani, ma niente è giunto nella notte. Dove sei? Forse al mare a divertirti? Crudele ironia! Come sono stata cieca! Dove è il “tu per me, io per te sempre” giurato? Il telegramma urgente doveva impressionarti. Tu non mi devi e puoi mancare, devo sentire viva e sicura la tua amicizia, altrimenti che cosa mi resta? Io vivrò magari sola, ma tu mi devi restare a proteggere e ad amare; pensa tutti i giuramenti e tutte le imprudenze commesse, che anche a te devono rimordere. Io sono irriconoscibile dal soffrire, tu non mi guarderai più. Possibile che tu faccia tanto male, così tranquillamente?

Peraltro, la mancanza delle lettere scritte da d’Annunzio, nel periodo compreso tra il 19 luglio e il 30 agosto di quell’anno, non favorisce la completa ricostruzione degli eventi. Le poche testimonianze della sua corrispondenza sono offerte soltanto da alcuni telegrammi (Cappelli 1979), dei quali però non ci sono gli originali, e dalla missiva del 31 agosto, che la De Blasi inserì nel Solus. Nonostante d’Annunzio l’avesse esortata a non prendere alcuna decisione, senza prima averlo rivisto (Martinelli 2017, p. 719), Giuseppina decise di allontanarsi da Giovi. L’ipotesi di recarsi dalla famiglia a Santa Sofia in Romagna fu scartata, perché avrebbe comportato nuovi scontri con il padre, e la contessa preferì rientrare a Firenze. Fu la sua cameriera, Angiola Vico, ad avvisarlo che sarebbero partite (Idem, p. 871) e, in quello stesso giorno, fu redatta la lettera nella quale si ripercorreva la storia di quell’amore e si affermava che l’unica decisione giusta da prendere era quella di «congiungere per sempre» (Roncoroni 2012, pp. 60-78) le loro vite.

Nel centro del mio cuore è la certezza assoluta che non dobbiamo e non possiamo se non congiungere per sempre le nostre due vite. Qualunque altro pensiero è un sacrilegio contro l’amore e contro il passato. Io ho bisogno di te, ho bisogno di riposarmi nella tua presenza continua, nel possesso perfetto. Il destino ti ha condotta sul mio cammino, e ora affretta gli eventi. […] Ricòrdati che dinanzi all’altare del Crocifisso, in San Francesco, noi ci siamo sposati.

La realtà, tuttavia, prevalse su quel desiderio. Dall’incontro di Compiobbi gli eventi precipitarono e nelle ultime pagine del Solus sembra che d’Annunzio avesse presagito la sorte avversa («Vani i miei tentativi! Il fato è inevitabile. Tutto è destinato al più tristo dei naufràgi», Idem, p. 143). La parte conclusiva della cronaca del 4 ottobre riporta le sconfortanti notizie ricevute dal dottor Nesti, secondo il quale la «malata» era «fissa nel medesimo tormento, nel medesimo odio ostinato d’oblio». Sebbene il padre di Giuseppina si fosse allontanato, «l’orditura della rete» destinata a «strappare» dalla sua vita la donna amata era già stata «perfidamente […] annodata» (Idem). Prima di affidare la fine del diario alla nuda pagina bianca datata 5 ottobre, d’Annunzio contrappose il ricordo felice della «vigilia» dell’anno precedente, quando durante il suo soggiorno a villa Mancini aveva deposto sulle «ginocchia belle» di Giusini il manoscritto della Nave, a quello della «vigilia» del 4 ottobre: «Anche questa è una vigilia. Non so perché, sento che debbo ancor salire nel dolore… Il domani ha un volto di carnefice spietato» (Idem, p. 145).
La conclusione dell’opera è criptica e neppure la lettera indirizzata il 7 ottobre al medico di Giusini, nella quale dichiarò che il giorno prima aveva ricevuto alcune «percosse brutali» (Idem, p. 211), contribuisce a chiarire il finale del Solus.
Rimane, tuttavia, una certezza: d’Annunzio non poteva prevedere che, a distanza di tempo e proprio dalle lettere di Giuseppina, sarebbe emersa anche un’altra ‘verità’, assai discordante da quella narrata nel suo diario. La vera Amaranta, che a molti convenne credere ‘pazza’, corrispondeva solo in parte alla donna descritta nel Solus, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro, come testimoniano i tre motti che aveva studiato per lei («Nova excorior  ̶  nuova m’inalzo, sorgo innovata», «Victorem vinco, vinco il vincitore», «Nec recisus languet  ̶  né langue reciso», Martinelli 2017, p, 401) e fra i quali, stranamente, non riuscì mai a sceglierne uno.

Stile e interpretazioni

Il Solus ad solam appare, ad una prima lettura, come la continuazione diretta di un carteggio d’amore costretto ad interrompersi, non tanto per la volontà dei protagonisti, quanto per una serie di avversità contingenti, contro le quali nulla si poteva fare. Sembra che con esso d’Annunzio abbia voluto riannodare il ‘filo’ della sua comunicazione epistolare con Giusini, spezzatosi con il drammatico telegramma del 6 settembre 1908. Il titolo stesso sottolinea l’intenzione di porre su un medesimo piano le condizioni dei due amanti: alla solitudine di lei, corrisponde quella di lui, e l’impossibilità oggettiva di comunicare con la donna è superata con la stesura del diario, la cui funzione principale avrebbe dovuto essere quella di fornirle la «testimonianza» del suo amore «vigilante e fedele», «sino all’ultimo». In effetti, la narrazione del Solus è così abilmente condotta, da sembrare convincente, al punto che il lettore è portato a chiedersi come l’amore per una donna sia riuscito a provocare tanta sofferenza in Gabriele d’Annunzio. La sua straordinaria capacità narrativa riesce persino a rovesciare la prospettiva iniziale dei ruoli: il presunto ‘carnefice’ diviene la vittima, la potenziale vittima la ‘carnefice’. Lo scopo del Solus è tuttavia un altro, ben lontano da quello dichiarato dall’autore. Il suo impianto narrativo fu costruito, infatti, come una vera captatio benevolentiae, finalizzata a conquistare sia gli animi dei lettori, sia quelli di coloro che, all’epoca, si ritrovarono ad essere i testimoni del dramma vissuto dalla contessa Mancini. Seppur partendo da fatti oggettivi, il Solus presenta una realtà ‘velata’, dove quelli che appaiono come i frammenti di un diario intimo sono, in realtà, ‘teatralizzazioni’ degli eventi. D’Annunzio era ben consapevole di aver contribuito al tracollo nervoso di Giusini, e cercò un modo per riabilitarsi, per ridimensionare quelle responsabilità che sapeva di aver avuto. Il Solus è pertanto la sua autodifesa, condotta con grande abilità retorica. Il ritrovamento della maggior parte della corrispondenza d’Annunzio  ̶  Mancini, prelevata nel 1963 dagli Archivi del Vittoriale dall’allora presidente Umberto Zanatta, e recuperata nel 2010 dall’attuale presidente Giordano Bruno Guerri, ha suffragato quest’ipotesi. Sono state proprio le lettere di Giusini, fino a quel momento del tutto sconosciute, a ricondurre il diario dannunziano dentro i canoni di una qualsiasi opera letteraria, soggetta alle regole della letteratura. D’Annunzio non scelse casualmente la formula del diario: esso era il genere che gli avrebbe consentito di «giocare» come voleva, «da padrone assoluto» (Roncoroni 2012, p. 285), soprattutto perché la destinataria non aveva la possibilità di rispondere, almeno quando esso fu redatto. La storia di quell’amore si era già ‘nutrita’ di reminiscenze letterarie, ne era già stata tutta permeata. Tra l’agosto ed il settembre del 1907 d’Annunzio aveva infatti riletto per Amaranta alcuni passi del Roman de Tristan et Yseult, nella versione di Joseph Bédier, e il Cantico dei cantici. I versi di Bédier erano stati affiancati a quelli della lirica Lai du chèvrefeuille, attribuita alla poetessa Marie de France, e quelle riletture avevano suggerito l’ispirazione per una ‘metamorfosi’: Gabri si era trasformato in Tristano, Giusini in Isotta, entrambi «legati fino alla morte» (Martinelli 2017, pp. 368-371).

Amica mia, amica mia, da ore e ore cerco una maniera qualsiasi d’interrompere quest’angoscia intollerabile; e non riesco. Non ho se non un pensiero, non ho se non un desiderio, non ho se non un rimpianto; e non ho se non una tentazione: quella di cedere alla mia follia e di venire a riprenderti. […] «Bele amie, si est de nus:/Ne vus sans mei, ne jo san vus». […] Non abbiamo bevuto anche noi un filtro d’amore e di morte, come Isotta e Tristano? Ho passato gran parte della notte a rileggere il romanzo di Tristano, per trovare nel libro – come dice il narratore – «consolazione contro l’incostanza, contro l’ingiustizia, contro il dispetto, contro la pena, contro tutti i mali d’amore».

Il Cantico aveva invece offerto la consacrazione letteraria del «malvagio demone» (Idem, p. 321), la gelosia da cui era sempre afflitta Amaranta, che fu la causa principale dei loro litigi («Ti ricordi del Cantico? “Mettimi come un suggello in sul tuo cuore, come un suggello in sul tuo braccio; perciocché l’amore è forte come la morte, la gelosia è dura come l’inferno; le sue brace son brace di fuoco, fiamma grandissima”», Idem, p. 444). La struttura diaristica si confaceva perfettamente sia al ‘gioco’ delle parti, sia ad ulteriori rielaborazioni letterarie: se Giusini era stata resa ‘nuova’ dall’amore («Nova excorior»), anche d’Annunzio lo era stato, proprio come accade a Dante e Beatrice nella Vita nuova (Roncoroni 2012, p. 284).

Certi atteggiamenti e certe situazioni […] fanno pensare addirittura a Dante e Beatrice, e d’Annunzio sembra il protagonista di una riscritta Vita nuova, giacché ha anche lui i suoi amici fedeli, il dottor Nesti e l’avvocato Francesco Coselschi, la sua Beatrice che gli ha tolto il saluto, la sua donna dello schermo su cui sfogare i suoi bassi istinti e la sua «donna gentile», la ineffabile «sorella Maria» Votrubová.

Quell’esperienza rinnovò davvero la personalità della contessa, a cui l’immagine della donna debole di carattere ed incapace di lottare contro le vicissitudini della vita che emerge dal Solus sta davvero ‘stretta’. Giuseppina era una donna completamente estranea ad alcuni cliché femminili: non era né superficiale, né mondana, né vanitosa, né venale, né desiderosa di essere annoverata tra le Muse dell’‘Olimpo’ dannunziano. Era, al contrario, una donna semplice, schietta, onesta di cuore, una delle poche donne capaci di dire ‘no’ al Poeta, di non assecondarne sempre le richieste, di fargli notare che, molto spesso, coloro che gli si dimostravano amici erano in realtà i suoi peggiori nemici («Già, ho sempre creduto che i tuoi amici sono assai peggiori dei nemici, e sono quelli che ti fanno il maggior male», Martinelli 2017, p. 450). Amaranta sapeva di non essere «un’amante comoda» ed aveva perfettamente compreso la dicotomia che conviveva nella personalità di d’Annunzio, quella tra il «giovanetto», del quale si era innamorata, e quella del ‘personaggio’ pubblico, «l’uomo Grande, che tutto si crede permesso» (Idem, pp. 315-316).

 Che volevo di più, io, mai da te? Quale sogno irrealizzabile io avevo mai fatto! Avevo dimenticato, solo per un istante, la tua Gloria, la tua possanza, e mi è rimasto davanti agli occhi solo l’uomo, quale l’ho conosciuto nei nostri colloqui, il Giovanetto, quello che corrispondeva tanto al mio Ideale, da sentire tutto il mio sangue, tutte le mie fibre, tutta me, anelare verso di lui con tutto lo slancio della passione. Ad un tratto, mi risorge l’uomo Grande, che tutto si crede permesso. Mi viene davanti il d’Annunzio, con la sua Gloria soffocante, schiacciante. Mi si presenta l’uomo depravato che non approvo, l’uomo di cattiverie, che mi hanno fatto soffrire; se dico eresie, perdonami.

Questo aspetto non emerge minimamente nel Solus, perché il vero baricentro dell’opera non è il dramma che lei stava vivendo, né il suo dolore, ma il dramma ed il dolore di chi scrive. Il diario «vigilante e fedele» è onesto nelle intenzioni, che si perdono, però, nello sviluppo della trama. Lo ‘sbilanciamento’ tra i propositi e la realtà della narrazione sono recuperate, soltanto in parte, con l’inserimento del personaggio di Maria Votruba. È a lei che è affidato il compito di riportare l’attenzione del lettore sulla vicenda di Giusini, sulle conseguenze psicologiche della sua difficile situazione, è lei che ci fornisce un punto di vista alternativo a quello di d’Annunzio, che lo invita a considerare in modo oggettivo la realtà («Una donna Sua […], abbattuta dalla lunga lotta, stanca delle menzogne umilianti, […], paurosa del giudizio mondano, che doveva, che poteva mai fare?», Roncoroni 2012, p. 118).
Tra i molti episodi, che testimoniano come la narrazione del Solus sia stata riadattata da d’Annunzio pro domo sua, c’è quello di una «leggerezza incosciente» (Martinelli 2017, pp. 645-646) di cui si sarebbe resa colpevole Giusini alla fine dell’aprile 1908, quando il Poeta si trovava a Venezia, per assistere alla prima rappresentazione della Nave. Un primo cenno a quel fatto è registrato nel diario del 20 settembre (Roncoroni 2012, p. 89), dove si accenna ad alcune «lettere compromettenti» e «pericolose», che la contessa temeva potessero essere usate «per nuocerle ancor più». La conferma che quel riferimento fosse rivolto proprio alle missive scritte da Giuseppina nella primavera del 1908 è fornita da una delle carte redatte dalla De Blasi (la VI), nella quale fu annotata una variante diversa dal testo poi pubblicato (« “lettere pericolose? Forse quelle che si riferiscono all’episodio della fine d’aprile?” […]», AGV, LXXIII, 4). Un’altra allusione è poi presente nel diario datato 25 settembre, nel quale d’Annunzio definì quei giorni di fine aprile come «giorni strazianti» (Roncoroni 2012, p. 107), e in quello del 27 settembre dove, nel ribattere alle accuse mossegli dalla Votruba, accenna ad un «episodio dolorosissimo», durante il quale si era comportato non tanto da «amante», quanto da «fratello» (Idem, p. 124). Dalla missiva di Giuseppina del 9 maggio (Martinelli 2017, pp. 650-651) apprendiamo che quella «leggerezza incosciente» si riferiva ad un suo banale colloquio con un misterioso uomo sposato, molto probabilmente durante un’occasione pubblica, con il quale non era poi accaduto «assolutamente niente». Quella «leggerezza» alimentò, tuttavia, i pettegolezzi fiorentini e fece molto infuriare d’Annunzio, tanto che per alcuni giorni si rifiutò non solo di scriverle, ma persino di parlarle per telefono. In realtà, anche in questo caso, l’episodio fu utilizzato ad ‘arte’: la vicenda gli offrì, infatti, il pretesto necessario a prendere le distanze da un rapporto che aveva cominciato a stancarlo, fornendogli la libertà necessaria ad iniziare la relazione con la De Goloubeff, che aveva conosciuto a Roma proprio nel marzo del 1908.
Ma la vera ‘sconfessione’ del Solus è data dalle lettere che Giusini scrisse dopo l’autunno di quell’anno, quando si credeva che fossero stati recisi per sempre i legami di quella storia d’amore. Dopo tre anni, dal telegramma del 6 settembre 1908, complice il farraginoso iter burocratico della causa legale intentata da Lorenzo Mancini, che nel frattempo era diventato cittadino ungherese per ottenere il divorzio e convolare a nozze con Adele Scholtzel, su consiglio del suo avvocato di Budapest, Giuseppina riaprì un dialogo che durerà fino alla morte del Poeta. La narrazione del Solus è non solo messa in discussione, ma contraddetta, in particolare riguardo le ragioni che provocarono il suo crollo nervoso. La contessa fu vittima di una ‘cospirazione’, assai utile a tutti i protagonisti della vicenda, e che lei, lucidamente, aveva ben compreso (Idem, pp. 729-730).

La mia vita fu spezzata, sospesa: per più di tre anni, sono stata come morta; quindi, l’io di oggi può ascoltare qualunque verità sull’io che fu. Ed io ho bisogno di saperla, questa verità, altrimenti la mia mente si affatica continuamente per afferrarla. Io non posso rientrare sul passato; solo, Le ricorderò un momento terribile, nel quale io vidi crollare tutto intorno a me, capii che tutto il mondo mi era nemico, sentii che ero vittima di una fatalità. […] Fu in quel momento, che io mi rivoltai contro la persona che io credei autore di tutto questo, e mi irritai con quella. Si disse che ero pazza, ed ebbi per sola compagna un’infermiera. Sono sicura che non sono stata pazza, ma che tutto quello che vedevo, che intuivo, era vero.

Nella lettera datata «Settembre del 1912», oltre a manifestare la speranza di poter riavere la corrispondenza che le era stata sottratta (Idem, pp. 737-738), Giuseppina rivelò a d’Annunzio un altro fatto inquietante, riferitole proprio nell’autunno del 1908: il presunto abbraccio che lui e Lorenzo Mancini si sarebbero scambiati in pubblico. Persino il ruolo di ‘aiutante’, svolto nel Solus dal dottor Nesti, risulta del tutto ridimensionato. Giuseppina smentì di aver bruciato parte delle lettere ricevute, come in più occasioni sostiene il medico nel diario, e precisò di non aver mai saputo che, nei giorni precedenti al suo ricovero all’ospedale San Salvi, il Poeta aveva continuato a mandarle dei fiori (Idem, pp. 737-738).

Non ho un buon ricordo del Dottore, con me non ebbe né tatto, né gentilezza; quando racconterò, sentirai come, invece di calmarmi, eccitasse il mio spasimo. Non fu giusto, molte cose le disse a modo suo. […] Non seppi mai, né vidi i ciclamini. Anche delle lettere, non è esatto: non fui io a bruciarle, vi assistei inebetita, mi vedo ancora rannicchiata in quel cantuccio… Dio che pena, che orrenda visione.

Le esperienze che la vita l’aveva costretta ad affrontare avevano reso il suo temperamento ancora più forte, avevano fatto emergere la «donna dagli occhi di sparviera» descritta nel terzo sonetto del Secondo amante di Lucrezia Buti, nelle Faville del maglio. Così, alla bellissima dichiarazione ricevuta nella lettera del 18 marzo 1913 («Tu sei stata veramente l’ultima mia febbre», Idem, pp. 755-756), fece seguito una risposta che la ‘vecchia’ Giusini non sarebbe mai stata capace di dare.

Tu dici: «Tu sei stata l’ultima mia febbre». Ma, purtroppo, io penso che non sono stata la prima, e non certamente sarò l’ultima; ed io che avrei voluto essere l’unica, che ti avesse così addentro attossicato, da non lasciare posto per nessuno. Ma chissà con quante, divido questo stesso desiderio.

Nonostante le numerose vicissitudini, quell’amore non era stato dimenticato. La contessa conservava «gelosamente» tutti i doni ricevuti, indossava ancora i gioielli che lui le aveva regalato (Idem, pp. 757-758), gli inviava l’«olivo benedetto colto sui colli Fiorentini» (Idem, p. 755) e progettava di recarsi a Parigi per rivederlo. L’incontro avvenne invece a Roma, la città nella quale si erano conosciuti, dopo sette anni dall’ultima volta che si erano visti, e fu in quell’occasione che Giusini ricevette in dono il manoscritto del Solus ad solam. D’Annunzio pensava di averle consegnato la sua ‘verità’, sulla quale, però, le lettere ricevute dalla contessa avevano gettato un’ombra. La ‘verità’ reclamata dalla donna fu, molto probabilmente, rivelata in un altro modo, ma di certo non tramite il Solus. All’incontro del 1915, ne seguirono altri, durante i quali d’Annunzio ebbe la possibilità di dimostrarle che quell’«Io per te. Tu per me. Ora e sempre» (Idem, pp. 603-604), più volte ripetuto, era ancora una realtà. Fu la controversia legale tra la contessa e Adele Scholtzel, erede testamentaria di Lorenzo Mancini, a fornire l’occasione. La sua richiesta di divorzio si era risolta con un nulla di fatto, perché l’iter della pratica era stato interrotto dalla guerra e, dal momento che il conte era morto con la cittadinanza ungherese, il Regio Demanio ne aveva sequestrato il patrimonio. Giuseppina riuscì a rientrare in possesso della parte dell’eredità del marito che più le interessava, la villa di Giovi e palazzo Mancini a Firenze, grazie all’aiuto di Gabriele d’Annunzio. L’invito di recarsi al Vittoriale, ospite nelle «magnifiche» e «bellissime» «stanze della Leda», per veder realizzata la promessa «Sono sempre per te» (Idem, p. 821), fu accolto il 26 novembre 1924.

Sono sempre per te. […] Non ho toccato il disegno di Amaranta con infinita delicatezza? E non sei stata sopraffatta anche tu dalla malinconia? Conta su me. […] Perché non vieni per un giorno, per due giorni? (Possibilmente, senza esser portata per mano come una bambina timida). Io posso ospitarti nelle stanze della «Leda», magnifiche e liberissime. Non ti offrirei l’ospitalità se non fosse – come è – quasi regale. Ho rinnovato miracolosamente il Vittoriale. Vedrai.

Quella fu la prima volta che Giusini si recò in visita a Gardone, a cui seguì quella del primo ottobre 1925. I soggiorni della contessa al Vittoriale assumono una grande importanza, poiché in quel periodo d’Annunzio evitava di incontrare soprattutto le persone che lo avevano conosciuto nei suoi anni migliori, vivendo nella più rigida ‘clausura’. A lei concesse un privilegio riservato a pochi, che neppure la Duse aveva ricevuto. Su suggerimento della contessa, il Poeta intercedette per lei con l’allora Ministro delle Finanze, Francesco d’Alessio, e con Roberto Farinacci, segretario generale del Partito Fascista, e fu grazie al suo intervento che Giuseppina vinse la battaglia legale con l’amante del marito.
Su quali fossero ancora i loro rapporti, la lettera attribuibile al [2 ottobre 1925], redatta dalla contessa dopo la sua seconda visita a Gardone (Idem, p. 831), non lascia alcun dubbio, e del resto era stata proprio lei a fornirne le ragioni («È così: o che ti ami alla follia, o che ti odii ferocemente, o che ti adori in ginocchio, o che ti calpesti sotto i miei piedi con rabbia, tu sei quello che mi anima, che mi fai viva!», Idem, p. 781). Non fu quindi il Solus a rivelarle la ‘verità’ che tanto desiderava conoscere, quella di avere la certezza di essere stata davvero amata, di sapere che il fiore di amaranto, al quale d’Annunzio l’aveva paragonata, non era mai appassito nel suo cuore, ma lo furono i fatti concreti, ricevuti nel momento di maggior bisogno.
I «quattro piccoli volumi» di quel diario redatto nell’autunno del 1908 ci consegnano, tuttavia, un’altra ‘verità’ importante: la nuova direzione della sua poetica, ormai orientata verso la prosa, ma una prosa diversa, memoriale, intimista, la «prosa di ricerca». Il Solus si impone come «antesignano […] di una scrittura esplicitamente autobiografica, tra letteratura e vita» (Andreoli, Zanetti 2005, p. 3824), e risulta essere il precursore di uno stile nuovo che, passando dalle Faville del maglio, troverà il suo approdo finale nel Libro segreto. Esso si propone, pertanto, come la più evidente dimostrazione del modus operandi che caratterizza l’ultima parte della produzione dannunziana, nella quale la stesura definitiva di un testo diviene il ‘canovaccio’ di un altro testo, evidenziando una caratteristica insita nella sua scrittura, quella di riscrivere se stessa.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni commentate:

Gabriele d’Annunzio, Solus ad solam, a cura di Jolanda de Blasi, Firenze, Sansoni, 1939.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1965.
Gabriele d’Annunzio, Solus ad solam, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1979.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005.
Gabriele d’Annunzio, Solus ad solam, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Es, 2012.

Bibliografia secondaria:

Carlo Antona Traversi, Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Vallecchi, 1943.
Tom Antongini, Vita segreta di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1938.
Tom Antongini, Vita segreta di Gabriele d’Annunzio, I, Città di Castello, Perugia, Lantana Editore, 2013.
Giorgio Barberi Squarotti, L’epistolografia come genere letterario, D’Annunzio epistolografo, Atti del 31° Convegno di studi dannunziani, Chieti – Pescara, 27 – 29 maggio 2004, Pescara, Ediars, 2004, pp. 7-16.
Salvato Cappelli, L’amante matta, Firenze, Nuove Ed. Vallecchi, Firenze 1979.
Maria Milva Cappellini, Ombre a traverso la lontananza, Lettere a Barbara, a Giusini e ad altri amori, D’Annunzio epistolografo, Atti del 31° Convegno di studi dannunziani, Chieti – Pescara, 27 – 29 maggio 2004, Pescara, Ediars, 2004, pp. 41-94.
Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1978.
Ivanos Ciani, Censure e rimaneggiamenti non d’autore nel ‘Solus ad solam’ di Gabriele d’Annunzio, in Esercizi dannunziani, Pescara, Ediars, 2001, pp. 475-500.
Carlo Corsi Miraglia, Ville del territorio aretino, Milano, Electa, 1998.
Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Milano, Mondadori, 1943.
Giuseppe de Robertis, Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958.
Alfredo Gargiulo, Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1941.
Guglielmo Gatti, Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1988.
Giordano Bruno Guerri, L’amante guerriero, Milano, Mondadori, 2008.
Marziano Guglielminetti, A chiarezza di me, D’Annunzio e le scritture dell’io, Milano, Franco Angeli, 1993.
Attilio Mazza, L’harem di d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1995.
Benigno Palmerio, Con d’Annunzio alla Capponcina, a cura di Marco Marchi, Firenze, Le Lettere, 2009.
Pierre Pascal, Le livre secret de Gabriele d’Annunzio et de Donatella Cross, Padova, Il Pellicano, 1947.
Josephine Kempter Rognetta – Francesca Rognetta, Reminiscenze di Saltino e Vallombrosa, Firenze, Ed. Polistampa, 2008.
Federico Roncoroni, Sai come si scrive un romanzo? “Forse che sì, forse che no”, Quaderni dannunziani, 31, 1982, pp. 5-54.
Giorgio Traina, Attraverso l’epistolario, tra vita scritta e scrittura vivente, D’Annunzio epistolografo, Atti del 31° Convegno di studi dannunziani, Chieti – Pescara, 27- 29 maggio 2004, Pescara, Ediars, 2004, pp. 17-32.

 

 

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