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Poema paradisiaco-Odi navali

di Emanuele Delfiore, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione e vicenda editoriale

Il Poema paradisiaco fu pubblicato per i tipi di Treves nella tarda primavera del 1893 in un volume comprendente anche le coeve Odi navali, assai diverse per temi e stile rispetto ai testi in esso contenuti. Tale scelta fu dettata dalla necessità di ispessire un libro le cui dimensioni sarebbero altrimenti risultate per l’editore troppo esigue, come era già accaduto per la pubblicazione dell’Isotteo e della Chimera nel 1890.
Nonostante le riserve più volte espresse in proposito nelle lettere, la soluzione adottata dall’editore sarà dallo stesso d’Annunzio confermata pure per i ben più tardi allestimenti della sua Opera omnia (1930) e dell’Edizione per L’Oleandro (1934), dove lo scrittore includerà le due raccolte di versi, insieme alla prosa L’armata d’Italia (1888), in un tomo unico denominato L’orto e la prora.
Se il secondo termine della titolazione definitiva richiama gli scritti del volume dall’impronta più marcatamente civile, il primo, configurandosi come un latinismo con il significato di ‘giardino’, evoca in maniera puntuale gli horti in cui è suddiviso il Poema, il cui aggettivo di riferimento, in greco, possiede tra l’altro il medesimo valore semantico. La parola ‘paradisiaco’ può però essere leggibile anche in chiave metaforica, in virtù del motivo di redenzione che sottende l’intera raccolta, nonché come omaggio alla poetica simbolista, abbracciata nel Poema ed enunciata da André Gide nel Traité de Narcisse, risalente al 1891 (Andreoli 1995).
Nel trattato si spiega come il compito del poeta, provvisto di un’intensa sensibilità e di una maggiore forza interpretativa, sia quello di osservare «fleurs de rives, troncs d’arbres, fragments de ciel bleu reflétés, toute une fuite de rapides images» che rivelano le tracce di una «forme première perdue, paradisiaque et cristalline» delle cose; tale essenza, divinamente perfetta, può essere ricomposta solo mediante la creazione artistica, poiché «l’oeuvre d’art est un cristal-Paradis partiel où l’Idée refleurit en sa pureté supérieure» (d’Annunzio 1982, p. 1144).
Sebbene siano molteplici le possibilità interpretative, il titolo Poema paradisiaco costituì invero un’opzione di ripiego rispetto all’originario Margaritae ante porcos, respinto da Treves per il suo carattere polemico, sebbene esso fosse stato già annunciato sui giornali e nonostante l’autore affermasse, in una lettera all’editore datata 12 marzo 1893, di aver «detto in prosa e in italiano ai lettori cose più dure».
Perfettamente in linea con la fattura provocatoria dei contributi saggistici apparsi nello stesso periodo in difesa della propria produzione letteLraria, ed in particolare dell’Innocente, il titolo proposto da d’Annunzio intendeva rispondere con virulenza pure agli scandali suscitati a Napoli dalla relazione amorosa intessuta con Maria Gravina. La nuova musa dell’Imaginifico era subentrata a Barbara Leoni nel cuore del poeta, che però sovrappone, mesce e confonde i caratteri principali delle due figure femminili all’interno della silloge paradisiaca.
Dal momento che si conservano soltanto i manoscritti autografi di alcune liriche ed un paio di elenchi di testi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e l’Archivio Personale del Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera, in assenza di carte preparatorie attestanti la genesi ed il graduale sviluppo della struttura dell’opera, proprio l’epistolario con Barbara costituisce un riferimento decisivo per conoscere le circostanze scrittorie di taluni componimenti.
In essi le vicende private che ne sostanziano l’impianto tematico sono sempre sfumate in versi indeterminati, nell’ottica della stesura di una poesia dalla difficile interpretazione, programmaticamente «oscura ed ermetica», come confessato da d’Annunzio al traduttore ed amico George Hérelle in una lettera del 10 giugno 1894.
Sulla scia del successo dell’Innocente, pubblicato a puntate sul «Temps» di Parigi a partire dal settembre del 1892, il poeta stesso decise di approntare la versione francese di alcuni testi paradisiaci in vista di un’antologia delle proprie poesie più recenti – desunte dall’Isotteo, dalla Chimera e dal Poema paradisiaco – pensata specificatamente per il pubblico d’Oltralpe (un elenco di essi è conservato nell’autografo A.R.C. 21.3/28 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma).
Le liriche del Poema furono scritte per intero fra il 1890 ed il 1893, entro una fervida stagione creativa che vide d’Annunzio impegnato con la stesura delle Elegie romane, ma soprattutto del racconto Giovanni Episcopo e del romanzo L’Innocente, apparentabili al Paradisiaco, il secondo in special modo, per immagini, temi e ricerca letteraria.
La ricezione ed il successivo superamento della bontà “alla slava”, già compiuto nel romanzo del 1892 e spiegato in interventi saggistici coevi come Il Romanzo futuro apparso su «La Domenica del Don Marzio» del 31 gennaio del medesimo anno, si accompagna però ad eventi personali che potenziano la matrice simbolista di recente acquisizione con intense tonalità realistiche ad essa consonanti.
Le consuete difficoltà economiche, la fine della storia d’amore con Barbara, le beghe del servizio militare e la morte del padre sono alla base dell’originale ispirazione dei testi paradisiaci, come spiegato in una lettera ancora ad Hérelle del 1892, ove d’Annunzio confessa che sia stato «Le Douleur» ad aver fatto di lui «un homme nouveau» e ad aver direzionato la sua recente svolta stilistica. La perfetta commistione fra esperienza biografica e letteratura, più salda ed intima, dunque, rispetto alle raccolte del passato, si riflette nel maggior grado di colloquialità raggiunto dai versi dannunziani ed in un loro più pronunciato smarcamento dalle proprie fonti.
Tale simbiosi influenza sia l’iter genetico che quello evolutivo delle singole tessere come del Poema nella sua interezza: la sua elaborazione, infatti, non è di certo paragonabile ai vari mutamenti occorsi per giungere alla complessa architettura delle Laudi; ma neppure è confrontabile con il massiccio rimodellamento di sillogi del decennio precedente come Intermezzo di rime (1884, in seguito ribattezzato Intermezzo) o Canto novo (1882).
Queste revisioni, rispettivamente del 1894 e del 1896, furono compiute proprio sulla scia dell’equilibrio strutturale conseguito con il Paradisiaco, nel cui passaggio dalla princeps (1893) alla ne varietur (1934) i ritocchi furono infatti sostanzialmente solo di natura grafica, mentre non sono da registrare aggiunte, omissioni o spostamenti di testi, neppure di piccola entità (ed il discorso vale anche per le Odi navali).
Quasi tutte le liriche del Poema paradisiaco furono edite su varie riviste e giornali («Corriere di Napoli», «Mattino», «Nuova Antologia», «Nuova Rassegna», «Tavola Rotonda», «Tribuna Illustrata», «Vita Nuova») prima di riconfluire nel volume trevesiano, mentre solo alcune (Hortulus Animae, La buona voce, L’incurabile, I poeti), ideate in funzione di essa, comparvero direttamente nella raccolta, come si può rilevare da occorrenze del titolo definitivo (concepito soltanto a ridosso della stampa) e da riprese senza variazioni alcune di blocchi di versi che collegano anche testi fra loro molto lontani.
Al 1893 (seppur con la data del 1892, riferibile all’apparizione di alcune di esse sulle medesime riviste che avevano ospitato i componimenti paradisiaci), risale, invece, la prima stampa in volume presso l’editore Bideri delle Odi navali, riedite nel medesimo anno da Treves insieme al Poema paradisiaco.
L’interesse di d’Annunzio per le ambientazioni marinaresche, fulcro della silloge e ricorrente in larga parte della propria produzione in versi successiva (in particolare Maia, Elettra e Merope), originano dal suo non preventivato approdo su una nave da guerra, l’Agostino Barbarigo, in occasione di una crociera nell’Adriatico compiuta in compagnia di Adolfo De Bosis sul suo cutter Lady Clara.
Questi testi d’impronta civile, nutriti del Vocabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti (1889) dal punto di vista del lessico, documentano con la loro energia vitalistica la prima ricezione del superomismo di Nietszche (la cui lezione maturerà due anni più tardi nelle Vergini delle rocce), come pure l’apertura di un versante poetico a cui saranno ascrivibili i Canti della guerra d’oltremare (pubblicati in tomo unico nel 1915 con il titolo di Merope) ed i Canti della guerra latina (riuniti nel volume Asterope del 1933).

Contenuto e struttura

Il Poema paradisiaco consta di 54 liriche distribuite, eccezion fatta per la prima, Alla nutrice, in cinque sezioni: un Prologo ed un Epilogo, entrambi costituiti da cinque testi, sigillano i termini della raccolta, il cui nucleo è costituito dalle tre unità intermedie, connotate da una titolazione latina (Hortus Conclusus, Hortus Larvarum ed Hortulus Animae).
Tale elemento caratterizza anche alcuni componimenti (oltre ai tre loro eponimi testi incipitari, si segnalano In votis, Vas mysterii, O rus! e Suspiria de profundis), la cui collocazione non risponde, però, ad una precisa funzionalità strutturale come accadrà per i testi alcioni (Furit aestus, Terra, vale!, Stabat nuda aestas e Altius egit iter) che precedono sempre i quattro Ditirambi nella silloge del 1903.
Il componimento d’apertura, Alla nutrice, è investito di una valenza proemiale per l’anticipazione di temi ed immagini che risuonano all’interno dell’intera raccolta, sebbene non sempre con le medesime armoniche: entro uno scenario di apparente quiete notturna si sviluppa l’antinomia tra un hic et nunc segnato dal dolore in cui è immerso il poeta, ed un altrove spaziotemporale dalle sfumature edeniche, identificato nell’Abruzzo dell’infanzia (Bàrberi Squarotti, Poema paradisiaco 1993, pp. 12-16).
A tale dimensione idillica, che svelerà con chiarezza il suo carattere illusorio soltanto a partire da Consolazione, l’io lirico tende con la memoria, nella speranza di poter riscattare le tristezze del presente attraverso una sorta di seconda nascita (emblematica la data «Natale del 1892» posta in calce alla poesia) fatta di bontà e purezza, simboleggiate dalla pervasività del colore bianco (dominante nel tessuto cromatico del Paradisiaco) e dal latte della nutrice, cui risponderà quello che il poeta finalmente berrà in O rus!, rievocando la figura del testo iniziale.
L’anelito ottimistico che aveva pervaso la zona centrale del componimento si dissolve nel finale, giacché la funzione protettiva assolta in passato dalla nutrice risulta ormai interamente consunta dal tempo, latore d’un’arida vecchiezza i cui segnali, in precedenza deducibili dalla «bocca appassita» e da una «fronte rugosa […]/ incoronata di capelli bianchi», si esplicano nell’immagine mortuaria di una donna che tesse meccanicamente i fili dell’oscuro destino dell’io lirico come una novella Parca.
Il Prologo reca in esergo tre citazioni da autori trecenteschi (desunte dalla raccolta Rime di M. Cino da Pistoia e d’altri curata da Carducci per l’editore Barbera nel 1862) che anticipano lo scacco esistenziale vissuto dall’autore (quelle da Benuccio Salimbeni e da Petrarca) e la scansione ternaria (quella da Frate Stoppa) del percorso di redenzione che egli condurrà attraverso i tre horti del Poema fino all’approdo dell’Epilogo.
Nei cinque testi della sezione vengono fornite alcune coordinate decisive per definire l’itinerario ascensionale dell’io lirico: nei versi de In vano l’affermazione dell’inutilità di amore, arte e gloria si accompagna al riconoscimento di un presente oscuro e fallimentare, anche alla luce di un passato letterario privo di una consistente valenza fattuale che non troverà compensazione neppure dopo la morte.
Dato che il poeta non potrà essere consolato dal risarcimento postumo della gloria, la cui «face» assente sarà recuperata ed accesa soltanto nei versi de La parola, sarà proprio la venuta della fine, la cui attesa è vagheggiata pure ne L’ora, a rappresentare in Esortazione perlomeno l’annullamento di un’esistenza intrisa di tedio che non presenta alcuna possibilità di riscatto.
Il motivo della redenzione, sviluppato nella poesia d’apertura della silloge, è riproposto nelle promesse di ritorno a casa formulate alla sorella ne Il buon messaggio, testo che, introdotto da una citazione da I fratelli Karamazov di Dostoevskij, presenta degli inserti colloquiali all’interno di un dialogo in absentia dai tratti monologanti.
Il proposito principale di esso sarà ribadito in Nuovo messaggio, ove il desiderio di una futura passeggiata con la madre e di una ristorazione del proprio animo a contatto con la flora dei luoghi natii s’invererà nei versi di Consolazione, pur rivelandosi inferiore alle proprie aspettative.
I due testi dell’auspicato recupero della propria vita familiare sono separati dalla fluida musicalità prealcionia di In votis, in cui la bellezza della propria donna (Maria Gravina) viene omaggiata attraverso il suo perfetto connubio con la sinfonia celeste di un delicato scenario naturale dove «il suo nome / pio seguirà l’Ave / nel coro soave», entro un quadro dalla portata risarcitoria che le liriche di Hortus conclusus provvederanno a disinnescare del tutto.
Introdotta da citazioni da Cino da Pistoia, Sennuccio del Bene e Petrarca, la sezione, formata da 9 poesie, offre il diagramma di una storia d’amore dal suo sorgere al suo crepuscolo, ed è aperta da un componimento omonimo in cui sono illustrati gli elementi salienti (fontane, statue e rosai immersi in un’atmosfera favolosa densa di mistero) di un «giardino chiuso» cui viene paragonata nel finale la donna amata dall’autore, affascinato dalla sua bellezza angelica, ma inaccessibile (tale metafora sarà degna di rilievo pure per l’impianto concettuale delle Vergini delle rocce, del 1895).
Il testo successivo, La passeggiata, prende spunto da un verso di Love without wings tratto dalla raccolta An Italian Garden della poetessa inglese Mary Robinson e si nutre di motivi d’ascendenza stilnovista (in special modo l’incedere prodigioso per luoghi terreni d’una figura femminile investita d’un potere salvifico), fusi all’interno d’uno scenario sfumato fatto di ricordi fugaci e sentori d’una passione totalizzante: a ciò allude la «ciocca rossa come / una fiamma» tra i capelli corvini di Maria, amante inafferrabile («una spada senza l’elsa») che con il suo fulgore impone una sorta di moderno servitium amoris a d’Annunzio, «artefice superbo», nella seguente Il giogo.
In tre porzioni è sviluppataLa sera, campione esemplare del sincretismo poetico di d’Annunzio per la sua efficace commistione di motivi provenienti da Le soir del simbolista Catulle Mendès e da Les Syrtes del parnassiano Jean Moréas. L’invito a tenere lontani gli effetti nocivi della luce, che torneranno ne L’ora e nella zona conclusiva di Psiche giacente, viene sviluppato con tonalità colloquiali nella prima porzione del componimento, la quale ospita nella seconda la laudatio di una mescidanza fra l’armonia del cielo notturno e la propria amata, che nel terzo tempo del testo svela la sua reale identità di «fantasma immarcescibile» creato dall’immaginazione dell’io lirico con intenti consolatori che non riescono, però, a dissipare la tristezza depositata nelle pieghe più profonde del suo animo.
Il componimento è seguito da un trittico di testi d’ispirazione musicale. Alle composizioni di Edward Grieg sono riconducibili le atmosfere sepolcrali di Sopra un «Erotik», sonetto che presenta in apertura di ogni strofa la parola «Voglio», esplicita espressione d’un martellante desiderio di voluttà mistica intessuta di venature mortuarie. In Ancora sopra l’«Erotik» è nuovamente Grieg a suggerire il ricordo della persecuzione della Vendetta da parte di Oreste, con alluso il tema autobiografico del tradimento della propria donna da parte del poeta, che dopo di esso colloca Sopra un «Adagio», ispirato da Johannes Brahms, ove il regno del proprio cuore attende invano una novella regina che vi risieda, poiché quel paradiso appare ormai perduto.
Chiude tale area della silloge una coppia di poesie dedicate all’esaurimento dell’amore entro una dimensione stagionale altamente cara a d’Annunzio: in Autunnoi sentimenti dell’io lirico sono proiettati su un paesaggio che denota gli stessi patemi sofferti dalla donna (in questo caso Barbara), al cui pianto risponde quello simpatetico delle acque e delle stelle nei versi di Nell’estate dei morti.
La seconda sezione, intitolataHortus Larvarume costituita da 17 testi, delinea l’affrancamento di d’Annunzio dall’amore sensuale attraverso la rimembranza di vicende (Hortus Larvarum, Climene, Aprile, L’ora, Sopra un’aria antica, Invito alla fedeltà, Vas mysterii) ormai consumate dallo scorrere inesorabile del tempo, la cui funzione di distruttore di illusioni «che non sono più» si esempla nel recupero di materiali mitologici dalle sfumature preraffaellite (Psiche giacente, La Napea, La Najade, La donna del sarcofago) di cui perviene solo una pallida eco.
Nel testo eponimo d’apertura ogni cosa cara al poeta («il bel giardino»; «danze» ed «arie»; «profumi»; «figure» mitologiche; la propria donna) sembra sprofondare in un’inesorabile lontananza temporale, da cui perviene d’incanto, nel testo successivo, la spaesata Climene invocando il nome di Alceste, il suo amato perduto, secondo un motivo analogo a quello da cui origina l’angoscia della protagonista di Aprile, ove uno spazio corposo è dedicato allo sfiorire della gioventù della donna.
L’ora
una figura femminile anch’essa priva per sempre del suo uomo è avvolta da uno stato di intensa disperazione che le fa addirittura desiderare la propria morte, invidiando nella sua attesa logorante la sorte di ragazze i cui ritratti, appesi alle pareti, mostrano dei volti che ormai non soffrono più per amore.
La suggestione musicale che aveva ispirato Sopra un «Erotik», Ancora sopra l’«Erotik» e Sopra un «Adagio» ritorna nelle venature malinconiche di Sopra un’aria antica, contenente stilemi che risuoneranno nei versi di Intra du’ Arni (il modulo interrogativo «non odi?») e de La pioggia del pineto (l’iterazione «ascolta, ascolta» e la figura etimologica «parlavi / parole», con verbo usato transitivamente), mentre uno scorcio di campagna dal sapore fiammingo, investito di una valenza quasi epifanica, trova posto nella sua porzione conclusiva.
Una certa voluptas dolendi mista ad una languida stanchezza passionale d’ascendenza verlainiana echeggia nel successivo Invito alla fedeltà, i cui toni decadenti preparano il trionfo del «Silenzio» che sarà cantato in Vas mysterii.
All’esaurimento dell’amore il poeta tenta di rispondere proiettando la dolente realtà autobiografica nel mondo del mito, la cui portata risarcitoria è però negata già in Psiche giacente, ispirata ad un disegno di Burne-Jones ideato per illustrare il poemetto Storia di Cupido e Psiche di William Morris; qui la «LAMPADA FATALE» citata nell’explicit rende infatti chiara la minaccia che incombe sul loro idillio sentimentale, così come sul carattere compensativo dell’immersione del poeta e del lettore in tale scenario.
Un binomio perfettamente coeso formano i due sonetti La Napea e La Najade (dedicati rispettivamente alla ninfa delle grotte ed a quella delle acque), due tersi affreschi paesaggistici cui succede La donna del sarcofago, rappresentazione artistica a cerchi concentrici (il poeta descrive una tela sulla quale è raffigurata una donna intenta, a sua volta, ad osservare un bassorilievo su cui è scolpita una scena funeraria) di un macabro delitto in cui sembra adombrata la figura di Giocasta entro un’atmosfera assolutamente enigmatica.
Dei tempi antichi permane dunque un’immagine rarefatta depotenziata di qualsiasi possibile valenza comunicativa, come dimostra nei tre testi intitolati La statua il misterioso silenzio delle erme, vestigia d’un periodo remoto le cui memorie nostalgiche, innescate da una musica soffusa, affiorano nella Romanza della donna velata.
Segue un dittico in cui le ultime fiammate d’una carnalità ormai superata dal poeta si declinano nella singolare tassonomia de Le mani (motivo, questo, fondamentale anche nella prosa dannunziana, dall’Innocente alle Vergini delle rocce) e nel tripudio peccaminoso, idealmente orgiastico, di Pamphila, chiusura della sezione e degli estremi residui di un’esperienza da cui il poeta s’è affrancato in maniera netta.
Figurano poi nel libro le liriche (17) dell’Hortulus Animae, il cui diminutivo, in luogo della forma base presente negli altri titoli, pare leggibile in rapporto al concetto di humilitas che permea il cuore della sezione (La buona voce, L’erba, O rus!) e che è la vera conquista che funge da preludio al riscatto esistenziale e letterario che si compirà nell’Epilogo. Le epigrafi (tratte da scritti di Domenico Cavalca, Matteo Frescobaldi e Bonaccorso da Montemagno) mettono però in guardia il lettore sul fatto che il percorso intrapreso dal poeta sia ancora lontano dal suo compimento.
L’incipit del testo eponimo che apre la sezione, ripreso da Alla nutrice, conferma infatti la persistenza dello stato dolente iniziale, ma suggerisce comunque una futura via d’uscita in un contatto pascoliano con «gli umili sentieri / ove nel lungo oblio l’erba germoglia», con una natura dalla quale egli potrà ricavare «una pace […] / nuova» che sottentrerà all’«antica spoglia» pervasa da una condizione perfettamente assimilabile allo spleen baudelairiano.
Nel percorso di recupero della purezza dell’infanzia una tappa importante è individuabile nel ritorno a casa de Ai lauri, ma le memorie della gioventù, rinverdite nel colloquio con gli alberi, non trovano un corrispettivo nella situazione presente, ben diversa in rapporto alle aspettative ottimistiche del poeta.
Il ritorno a casa segnerà, infatti, il compimento delle promesse formulate alla sorella ne Il buon messaggio e Nuovo messaggio, ma la realtà familiare finalmente recuperata si mostra in Consolazione, testo prediletto dai poeti crepuscolari, come priva di quel valore salvifico di cui essa pareva foriera all’inizio del complesso itinerario redentivo intrapreso dall’autore, ed emblematica di ciò è la rivelazione contenuta nel dialogo con la madre sviluppato ne L’inganno.
Di tonalità tragiche si tingono Un ricordo, I e II, seguiti dalla perdita della propria identità, paragonata ad «un’ombra / vaga, incerta, indistinta, senza nome», in Un sogno, I, nonché dal dolente ricordo dell’immagine onirica di Barbara morta in una poesia omonima, mentre un soggetto sdoppiato e perduto in un luogo indistinto è protagonista di Un ricordo, III. Sulla caduta esistenziale dell’io lirico in una condizione di solitudine scorre benefica l’acqua dell’oblio, che permette di dimenticare il presente e di porre le basi per un risorgimento dell’anima attraverso la riscoperta d’una realtà agreste, come preannunciato da La buona voce, il cui verso finale si connette con il primo de L’erba.
Come il poeta, questa «sempre viva attend[e] la futura / primavera nei gelidi orridi», ed assaggi di quest’ultima sono offerti nei versi di O rus!, riconosciuto da Angelo Conti ne La beata riva come componimento anticipatore, pur con il suo registro colloquiale, della gloria della natura che sarà cantata con tonalità sublimi nelle Laudi. Fra le immagini prosastiche che ne intessono il dettato spicca in special modo quella del latte, fonte della purezza infantile vagheggiata in Alla nutrice e simbolico nutrimento per una nuova stagione poetica, cui occhieggia anche la successiva Le foreste, preludio al panismo delle liriche alcionie.
La chiusura di Hortulus animae è però affidata a dei testi di diverso tenore che sanciscono la liberazione definitiva dai patemi dell’esistenza presentandoli in immagini sepolcrali che risentono degli influssi del Maeterlinck di Serres chaudes ne Le tristezze ignote e L’incurabile.
L’esaurimento del potere della memoria è invece al centro di Un verso (che contiene il ricordo della Canzone II del poeta trecentesco Francesco di Vannozzo) e delle allucinate istantanee mortuarie di Suspiria de profundis.
L’Epilogo, composto come il Prologo da cinque testi, segna la tappa finale del viaggio paradisiaco, il cui approdo è costituito dalla conquista del «novello spirito» menzionato nella citazione in epigrafe del sonetto Tu che sei voce che lo cor conforte di Cino da Pistoia (le altre due sono tratte dal Trionfo della morte di Petrarca e dalla canzone S’è d’Eva e d’Adam tutto di Bindo Bonichi).
O Giovinezza! segna l’addio definitivo ad un periodo della vita intriso di passioni e si pone in continuità con esso la valenza palingenetica de La visione, sublime exemplum dell’utilizzo d’un linguaggio sacrale in chiave pagana (Russo, 2008-2009) doviziosamente compiuto da d’Annunzio all’interno della raccolta.
A questa operazione si lega ne L’esempio il ricordo del personaggio di Giovanni Scordio nell’Innocente per la sua bontà operosa, la quale contraddistingue il proposito scrittorio enunciato ne La parola, sonetto che forma un dittico con il componimento conclusivo della raccolta, I poeti: testo, quest’ultimo, di chiara matrice simbolista, che si conclude con la parola greca telos ad indicare la fine d’una stagione letteraria. Nonostante ciò, nell’esaurimento di tale esperienza poetica è contenuto un anelito ottimistico verso l’«Alba sublime» del genere umano che l’artifex canterà nell’epopea delle Laudi.
Ben differente è il tenore delle Odi navali, che constano invece di 8 componimenti, alla testa dei quali figura La nave, trasfigurazione simbolica delle glorie patrie del passato che registra le prime tracce di una lettura nietzschiana entro un messaggio di fratellanza rivolto al popolo italico.
Ad essa si apparenta il motivo irredentistico sviluppato in A una torpediniera nell’Adriatico, il cui scenario è analogo a quello di Pel battesimo di due paranze, posizionata fra esse e ricollegabile ad un’altra celebrazione, quella di Per la festa navale nelle acque di Genova.
Completano la raccolta quattro odi dedicate ad una figura di spicco dell’Italia fin de siècle. I tre tempi di Per la morte dell’ammiraglio di Saint-Bon, preceduti da un curriculum vitae in prosa di assoluto valore, scandiscono le tappe della fine terrena dell’allora Ministro della Marina: la preghiera per una sua guarigione, con un’accorata apostrofe alla morte, cui è chiesto di permettere all’uomo di concludere i suoi giorni in mare (23 novembre 1892), è posta fortemente in dubbio da una convalescenza che va sempre più peggiorando (24 novembre 1892). Le ultime speranze di ripresa di Saint-Bon sono fugate del tutto dal suo trapasso ormai imminente (25 novembre 1892), annunciato in XXVI novembre MDCCCXCII, rifacimento in versi di un elogio funebre pronunciato dal parlamentare Rocco de Zerbi.
Il peso ingente della perdita del ministro è espresso pure nelle note accorate della successiva Trieste al suo ammiraglio, mentre concludono il ciclo e la silloge, anticipati da un’epigrafe desunta da Memories of President Lincoln di Walt Whitman, i versi celebrativi dalle tonalità elegiaco-paradisiache di In memoriam, che riprende il titolo di una raccolta poetica del 1880 dello stesso d’Annunzio, nonché quello di un poema dell’amato Alfred Tennyson.

Stile e interpretazioni

Alla compattezza strutturale del Paradisiaco, conseguita attraverso una calibrata collocazione delle liriche, si accompagna una sua ingente omogeneità tematica, frutto di riprese intratestuali di immagini e sintagmi che collegano anche poesie fra loro distanti, tutte ricondotte ad un’unitarietà di stile addirittura superiore a quella che caratterizza raccolte come Maia o Alcyone.
Il linguaggio paradisiaco presenta un elevato tasso di termini dal significato fortemente evasivo (‘infinito’, ‘vago’, ‘lontano’, ‘antico’, ‘rosa’) che risente di chiare ascendenze verlainiane. In un tessuto così uniforme non mancano, però, incursioni verso elementi della quotidianità (le ‘cipolle’ e la ‘gallina’ di O rus!) e lampi aulici (il latinismo ‘zona’, con il significato di ‘cintura’, in Psiche giacente, o l’aggettivo ‘ferigni’ in La statua, I) che ne impreziosiscono il dettato, definendo, insieme ai versi pascoliani, una koinè linguistica i cui influssi saranno decisivi per gli sviluppi della poesia italiana del ventesimo secolo (Contini 1974; Mengaldo, 1975).
L’assorbimento della lezione simbolista attraverso il Petit glossaire pour servir à l’intelligence des auteurs décadents et symbolistes di Paul Adam (1888) si esplica pure nella scelta di topoi caratteristici di tale poetica, come quelli del mistero e del sogno.
La loro importanza era già stata del resto messa in luce da d’Annunzio nel contributo saggistico L’arte letteraria nel 1892 (la poesia) pubblicato su «Il Mattino» fra il 30 ed il 31 dicembre 1892, ove la mancanza di essi era stata imputata ai versi di Pascoli, assimilati alla ormai consunta esperienza parnassiana per un culto della parola precisa che non lascia spazio al potere evocativo dell’immaginazione.
Invero l’atteggiamento di d’Annunzio è soprattutto quello di un osservatore interessato, mediante l’Enquete sur l’evolution littéraire (1891) di Jules Huret, della polemica corrente Oltralpe fra i parnassiani ed i simbolisti, senza che ciò comportasse una sua presa di posizione netta ed oltranzistica, come mostra l’originale mescidanza di versi di Mendès e Moréas compiuta ne La sera.
Nella stessa direzione va l’attenuarsi del peso specifico della poesia dei primi come fonte dei testi paradisiaci, che però non esclude il recupero della sestina petrarchesca attraverso la mediazione di Gautier in Suspiria de profundis (Martinelli 1995, p. 415), o suggestioni derivanti dalla pittura preraffaellita, fonte ispirativa di diverse liriche della sezione Hortus larvarum (Tamassia Mazzarotto, 1949).
Il manierismo «alla seconda potenza» (Anceschi 1982, p. LXXVI) che intesse il Poema si traduce nel cospicuo ed al contempo calibrato apporto della letteratura francese di secondo Ottocento (Baudelaire, Verlaine, i simbolisti e i parnassiani, ma anche Rimbaud, Hugo, il racconto Novembre di Flaubert ed il Diario intimo di Amiel) e della poesia belga coeva (Maeterlinck, Verhaeren, Jammes), come pure della narrativa russa di Tolstoj e Dostoevskij e della tradizione italiana (Dante, Petrarca ed il Trecento, ma anche Carducci e Leopardi).
A tali elementi d’Annunzio affianca la ripresa selezionata di temi e forme della propria precedente scrittura in versi, rifunzionalizzandoli entro la compagine paradisiaca come elementi che, insieme all’utilizzo di moduli iterativi e clausole dai particolari effetti fonici, alimenteranno la poesia delle Laudi (Testaferrata 1973, pp. 4-6) ed un ampio raggio delle sue successive opere in prosa.
Pure sotto il profilo metrico il Poema si rivela un campione della versatilità della penna di d’Annunzio, dato il virtuosismo sillabico (senari, settenari, ottonari, novenari, endecasillabi) caratterizzante la raccolta, in cui compaiono la terzina dantesca come il sonetto, la sestina ed il madrigale come quartine e strofe esastiche d’ascendenza metastasiana.
Le forme tradizionali sono però piegate verso soluzioni ritmiche nuove attraverso il ricorso a cesure ed accenti collocati in luoghi inusuali: opzioni del genere possono dilatare il verso come frantumarne il dettato sintattico mediante il copioso utilizzo di incisi, sospensioni discorsive e ripetizioni (Macrì 1980).
Tali procedimenti conferiscono ai versi un tono colloquiale, ma d’una comunicatività minata dal carattere difettivo della vita amorosa e del contesto familiare, inseriti entro un’atmosfera soffusa riposatamente dolente alla cui creazione cooperano le opzioni rimiche e la fluidità musicale delle poesie paradisiache (Russo 2008-2009).
Gli esiti stilistici della silloge costituiscono dunque un’acquisizione fondamentale per la successiva scrittura dannunziana, data la fruttifera presenza di formule allocutive, iterazioni, moduli imperativi ed effetti fonosimbolici nelle liriche di Maia, Alcyone ed Elettra, ma tale tappa si rivela fondamentale pure per le sorti della poesia italiana di primo Novecento, date le venature prosastiche delle composizioni crepuscolari, e nella medesima orbita rientrano autori che attraversano d’Annunzio fra parodie (Lucini), omaggi (il Govoni di Le fiale ed Armonia in grigio et in nero ed il Palazzeschi de I cavalli bianchi) e rielaborazioni ambivalenti (Corazzini, Gozzano, Martini) dell’esperienza paradisiaca dell’autore abruzzese.
Una sottile varietà di registri è possibile ravvisare nelle Odi navali, piuttosto omogenee per quel che concerne l’aspetto argomentativo. Un primo assorbimento della filosofia superomistica di Nietzsche (Costa 2012, p. 92) si nota nei versi de La nave, ove le iterazioni (l’anafora «Va, va» in apertura delle strofe 1, 2, 3, 11 e 15) sono modalità tipicamente paradisiaca, così come le voci imperative di Pel Battesimo di due paranze. Un lessico più roboante trova spazio nella seguente A una torpediniera nell’Adriatico, mentre ad una certa cantabilità sono improntate le strofe di Per la festa navale nelle acque di Genova.
In Per la morte di Saint-Bon la porzione testuale datata 23 novembre è connotata da un pathos intenso che si sfuma nei lineamenti paradisiaci (quartine intessute di ripetizioni ed effetti fonici) dei versi del giorno successivo, cui segue una chiusa dalla brevitas funerea che si configura come preludio di un futuro epitaffio, sviluppato nella poesia XXVI novembre MDCCCXCII rielaborando un’orazione funebre.
Se un discorso sintatticamente franto in direzione paradisiaca è rilevabile in Trieste al suo ammiraglio, ancor più limpide in tal senso sono le copiose interrogative che preludono alla serena fiducia nella potenza eternatrice della letteratura professata nel finale de In memoriam.

 

Bibliografia essenziale:

Edizioni apparse in vita:

Gabriele d’Annunzio, Poema paradisiaco-Odi navali, Treves, 1893 (editio princeps).
Gabriele d’Annunzio, L’orto e la prora (Poema paradisiaco-Odi navali-L’armata d’Italia), Verona, Mondadori, 1930 (Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio).
Gabriele d’Annunzio, L’orto e la prora (Poema paradisiaco-Odi navali-L’armata d’Italia), Roma, Per l’Oleandro, 1934.

Edizioni commentate:

Gabriele d’Annunzio, Commento alle poesie liriche di Gabriele d’Annunzio, a cura di Ferruccio Bernini, Bologna, Zanichelli, 1928 (selezione antologica).
Gabriele d’Annunzio, Il fiore della lirica, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, s.d. [1934] (selezione antologica).
Gabriele d’Annunzio, Crestomazia della lirica, a cura di Enzo Palmieri, Bologna, Zanichelli, 1935 (selezione antologica).
Gabriele d’Annunzio, Elegie romane, Poema paradisiaco, Odi navali, a cura di Enzo Palmieri, Bologna, Zanichelli, 1959.
Gabriele d’Annunzio, Poesie, Teatro, Prose, a cura di Mario Praz e Ferdinando Gerra, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966.
Gabriele d’Annunzio, Poesie, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Garzanti, «I Grandi libri», 1978 (selezione antologica).
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, introduzione di Luciano Anceschi, a cura di Niva Lorenzini, I, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1982.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore, a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995.
Gabriele d’Annunzio, Poema paradisiaco, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1995.
Gabriele d’Annunzio, Tutti i romanzi, novelle, poesie, teatro, introduzione generale di Giordano Bruno Guerri, a cura di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva, Roma, Newton Compton, 2011.

Bibliografia secondaria:

Luciano Anceschi, Ipotesi di lavoro sul rapporto tra D’Annunzio e la lirica del Novecento, in Barocco e Novecento, Milano, Rusconi, 1960.
Luciano Anceschi, Introduzione, in Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, introduzione di Luciano Anceschi, a cura di Niva Lorenzini, vol. I, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1982.
Annamaria Andreoli, Introduzione, in Gabriele d’Annunzio, Poema paradisiaco, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1995, pp. I-XXVII.
Walter Binni, La poetica del decadentismo, Firenze, Sansoni, 1936.
Alfonso Castrati, Il “Poema paradisiaco” di Gabriele D’Annunzio, Palermo, Casa Editrice L’attualità, 1922.
Giorgio Cavallini, Tecnica e arte della ripetizione, variamente modulata, nel “Poema paradisiaco”, «Sinestesie», a cura di Laura Cannavacciuolo, VI-VII, 2008-2009, pp. 43-61

Sergio Cigada, Flaubert, Verlaine e la formazione poetica di D’Annunzio, «Rivista di letterature moderne comparate», marzo 1959.
Gianfranco Contini, La letteratura italiana: Otto-Novecento, Firenze, Sansoni Accademia, 1974.
Simona Costa, D’Annunzio, Roma, Salerno Editrice, 2012.
D’Annunzio e il simbolismo europeo. Atti del convegno di studio. Gardone Riviera, 14-15-16 settembre 1973, a cura di Emilio Mariano, Milano, Il Saggiatore, 1976
Giulio De Medici, Bibliografia di Gabriele D’Annunzio, Roma, Centauro, 1929.
Eurialo De Michelis, Guida a D’Annunzio, Torino, Meynier, 1988.
Marco Della Sciucca, Indagando la musicalità della poesia: il poema paradisiaco di Gabriele D’Annunzio, «Nuova rivista musicale italiana: bimestrale di cultura e informazione», a. 4, n. 1 (2000), pp. 43-64.
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Edoardo Gennarini, Dal ‘Poema paradisiaco’ alla poesia di Guido Gozzano, Napoli, Nostro tempo, 1958.
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Niva Lorenzini, D’Annunzio, Palermo, Palumbo, 1993.
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Claudio Magris, Il «Poema paradisiaco» del D’Annunzio e i «traurige tänze» di Stefan George, Lettere Italiane, luglio-settembre 1960, 12, n. 3, pp. 284-295.
Donatella Martinelli, Prefazione al Poema paradisiaco, in Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore, a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995, pp. 405-416.
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Poema paradisiaco. XVI Convegno Nazionale. Chieti-Pescara, 7-8 maggio 1993, Pescara, EDIARS Oggi e domani, 1993.
Giuseppe Russo, Elementi di antropologia del sacro nel “Poema paradisiaco”, «Sinestesie», a cura di Laura Cannavacciuolo, VI-VII, 2008-2009, pp. 70-81.
Giuseppe Savoca, Concordanza del “Poema paradisiaco” di Gabriele D’Annunzio: testo, concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze, Olschki, 1988.
Bianca Tamassia Mazzarotto, Le arti figurative nell’arte di Gabriele d’Annunzio, Milano, Bocca, 1949.
Luigi Testaferrata, D’Annunzio “paradisiaco”, Firenze, La Nuova Italia, 1972.
Guy Tosi, D’Annunzio parnassien, “byzantin” et symboliste: aux source d’une poétique composite (1886-1894), «Revue des études italiennes», 1980, 2-4.

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