di Raffaella Canovi, Enciclopedia dannunziana
Normalmente non si associa il nome di Gabriele d’Annunzio alla città di Milano, in realtà il capoluogo lombardo ha ricoperto un ruolo importante nella sua vita e lo ha visto protagonista in varie occasioni e in ambiti diversi.
D’Annunzio si recava a Milano innanzitutto per motivi editoriali, ma anche per soddisfare il bisogno del superfluo a lui necessario – la città era già celebre per ciò che oggi definiamo shopping.
Di Milano il poeta gradiva il clima sociale, il ritmo della vita vivace; amava i suoi nobili e il suo popolino. Apprezzava il dialetto, la lingua milanese che corrispondeva al suo senso dell’umorismo, di cui era particolarmente dotato. In pochi conoscevano questo aspetto del carattere dannunziano, essendo prettamente riservato alla conversazione e ai contatti epistolari, e non alle sue celebri opere.
Diversi amici e conoscenti risiedevano a Milano: da Wally Toscanini, ai coniugi Guido e Antonietta Treves, dal compositore Arrigo Boito, a Giuseppe Toeplitz amministratore delegato unico della Banca Commerciale Italiana, fino a Senatore Borletti; quest’ultimo, in particolare, occupò un posto importante nella vita di d’Annunzio, essendo presidente della Società Editrice Mondadori nonché proprietario dei grandi magazzini (in precedenza dei fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi) Alle città d’Italia che si sarebbero trasformati ne La Rinascente su suggerimento (a pagamento) di d’Annunzio stesso.
La prima visita del poeta al capoluogo lombardo avvenne nel 1895: tornando da Venezia – prima di scendere a Francavilla – visitò assieme a Eleonora Duse i laghi lombardi trascorrendo giorni definiti «deliziosi» sul lago Maggiore per poi fermarsi a Milano.
Il mondo editoriale
Milano già alla fine dell’Ottocento costituiva il cuore pulsante del mondo editoriale italiano. Qui aveva sede sia il primo storico editore dannunziano – casa Treves – sia l’ultimo, il ‘definitivo’, Arnoldo Mondadori; fra i due giganti altre realtà minori quali la Libreria Editrice Lombarda (fondata dal segretario-amico Tom Antongini con Arnaldo De Mohr), la Trevisini, la Bestetti Tuminelli, la Bertieri e Vanzetti, la Bottega di poesia e l’Olivetana.
Lunghi e profondi furono i rapporti con la famiglia Treves, dai fondatori Emilio e Giuseppe (detto Pepi) fino a Guido. La prima opera edita da casa Treves fu Il piacere, il romanzo della consacrazione letteraria, l’opera che contribuì a ‘creare’ il personaggio d’Annunzio, uomo raffinato, colto, mondano e dalle frequentazioni altolocate. Era il 1889: Emilio Treves divenne da quell’anno l’editore di d’Annunzio e lo sarebbe rimasto fino alla sua morte avvenuta nel 1916, pubblicando tutte le maggiori opere dannunziane tranne piccole eccezioni.
Successivo riferimento editoriale per d’Annunzio divenne il nipote Guido; tanto e particolarmente forte e sentito il legame che il poeta fu testimone delle nozze con Antonietta Pesenti, avvenute a Milano il 30 giugno 1909. Se l’amicizia continuò, il rapporto editoriale si sarebbe incagliato per poi affondare contro lo scoglio insormontabile dell’Opera Omnia, eterno sogno dannunziano, che si sarebbe realizzato solamente nel 1926 ma con Arnoldo Mondadori.
La collaborazione fra quest’ultimo e il vate non si esaurì con questo seppur importantissimo e impegnativo progetto editoriale. Seguì una seconda edizione delle opere dannunziane questa volta economica, L’Oleandro, e, infine, quel capolavoro rappresentato dal Libro segreto accolto trionfalmente dal pubblico nel 1935.
Il «Corriere della Sera» e Luigi Albertini
L’esordio dannunziano nel prestigioso quotidiano milanese avvenne con un’ode a Carducci pubblicata il 21 febbraio 1907. Il poeta avrebbe siglato il 16 marzo di quell’anno un contratto con il quale riservava al «Corriere della Sera» l’esclusiva della sua produzione giornalistica. I suoi contributi – sia con il quotidiano sia con il suo mensile «La lettura» – sarebbero divenuti in realtà regolari solo a partire dal 1911, quando la sua perenne necessità di finanze lo avrebbe obbligato a ridivenire giornalista, come ai tempi romani.
Fra il vate e il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini (a capo del quotidiano dal 1900 al 1921) col trascorrere del tempo si sviluppò un sodalizio profondo: la semplice conoscenza e il rapporto professionale si sarebbero trasformati in amicizia sincera. Luigi – il più giovane – divenne una sorta di tutore del più maturo ma sregolato Gabriele. Due uomini sostanzialmente diversi, l’uno – l’artista – egocentrico, narcisista e scialacquatore, l’altro – il giovane direttore – severo, riservato e dalle innate capacità manageriali. Nonostante ciò, anche Albertini dovette soccombere al fascino del poeta incantatore. Nel suo Diario racconta infatti come il 13 settembre 1909, ritornando a Milano dopo alcuni giorni trascorsi a Brescia, ripensasse con piacere all’incontro con d’Annunzio:
Ho trovato un D’Annunzio diverso da quello che credevo, cioè un uomo dalla conversazione semplice, disinvolta, cordiale, non troppo sostenuta. Con me D’Annunzio è stato cortesissimo e si è aperto su tutte le sue miserie di debiti, sequestri ecc. Mentre egli sa dirigere con grande energia la sua volontà, nello spendere è pazzo. Lo riconosce egli stesso, ma non sa vincersi. Vorrebbe che io gli trovassi un segretario à poigne. Chissà che non glie lo trovi. (L. Albertini, 1968, pp. 117, 118)
Albertini tentò di aiutare l’irrefrenabile amico, sia cercando di tenerlo sotto controllo, sia rimanendogli vicino e tranquillizzandolo, fino ad assumersi l’impegno di sanarne la tragica situazione finanziaria, seguendo la vendita all’asta dei beni della Capponcina e passando in rassegna tutti i debiti lasciati in Italia. Fu anche grazie ad Albertini che Gabriele poté rientrare dalla Francia nella primavera del 1915.
Da parte sua d’Annunzio contribuì in misura significativa al successo del quotidiano milanese: la firma dannunziana spinse le vendite fino a 500.000 copie, grazie alle Faville del maglio, apparse a partire dal luglio 1911 fino al settembre 1914 e successivamente durante il terribile periodo della Grande Guerra.
Il legame con Albertini non era pertanto solo di tipo editoriale ed economico ma anche amichevole: il poeta gli confidava i suoi sentimenti, le motivazioni che lo avevano spinto – ad esempio – a sostenere prima l’intervento in guerra, poi l’azione a Fiume. Proprio quest’ultima segnerà una frattura profonda e quasi insanabile fra i due.
Infatti, una volta terminato il conflitto, nel difficile periodo che vedeva in primo piano l’ardua questione delle rivendicazioni territoriali italiane, mentre il direttore appoggiava convintamente la politica governativa, il poeta-soldato spingeva per la riconquista di Fiume e di altri territori esclusi dal Patto di Londra.
Seppure su fronti opposti, d’Annunzio avrebbe sentito ancora e sempre la necessità di scrivere al caro amico, seppure la collaborazione con il «Corriere della Sera» si fosse conclusa nel gennaio 1919, seppure a Fiume fosse divenuto il Comandante.
La corrispondenza con Albertini riprese all’inizio del 1922, dopo un silenzio di oltre due anni: da un lato il Comandante, amabile e dolce, dall’altra il direttore, freddo e distaccato.
D’Annunzio sarebbe riapparso sulle pagine del «Corriere della Sera» il 15 giugno e avrebbe rivisto il direttore a Milano il 27 giugno 1922.
Giungerà la marcia su Roma e l’ascesa al potere del fascismo che condurranno Gabriele d’Annunzio all’esilio dorato nel Vittoriale e Luigi Albertini a dover abbandonare il ‘suo’ «Corriere della Sera».
Discorsi e incontri politici
Milano fu teatro di discorsi e incontri politici fra i più importanti per Gabriele d’Annunzio. Il primo risale al 24 marzo 1907: con l’Orazione al popolo di Milano commemorava il defunto Giosuè Carducci, del quale di lì a breve avrebbe occupato il ruolo di vate d’Italia.
Nel febbraio di tre anni dopo, al Teatro Lirico, il Discorso sul dominio dei Cieli: dopo aver vissuto il suo ‘battesimo dell’aria’ il 12 settembre 1909 (in occasione della prima manifestazione aerea italiana, sul campo di Montichiari, Brescia) il poeta era divenuto un fervido appassionato del volo.
L’oratoria dannunziana avrebbe conosciuto il suo culmine durante il periodo dell’interventismo, quando partecipò alla formazione di quel particolare clima del ‘maggio radioso’ a partire dal discorso tenuto a Quarto (5 maggio 1915) e successivamente, durante il conflitto, pronunciando tutta una serie di discorsi e orazioni.
In tal senso il palcoscenico del Teatro alla Scala ospitò un’orazione dannunziana altamente patriottica durante una celebrazione organizzata dall’Associazione Lombarda dei Giornalisti: era il 19 gennaio 1916 quando il poeta-soldato, indossando la divisa grigia di tenente di cavalleria, si era presentato di fronte al pubblico che gremiva il teatro affascinandolo con un breve ma trascinante discorso. Recitò due poesie – Per i combattenti e Per i cittadini – sotto scrosci di applausi che sottolineavano i passaggi più commoventi. I manoscritti delle due Preghiere furono donati all’Associazione che li mise all’asta devolvendo il ricavato agli orfani di guerra. Luigi Albertini avrebbe pubblicato il testo il giorno seguente all’interno del «Corriere».
Terminato il conflitto e anche l’impresa fiumana, a Milano il 25 giugno 1922 d’Annunzio presiedette la grande riunione dell’aviazione italiana. Nel settembre dello stesso anno sarebbe stato invece in città per commemorare con un discorso ai suoi legionari l’anniversario della ‘santa entrata’ a Fiume.
Certamente il più noto discorso dannunziano pronunciato a Milano è quello del 3 agosto 1922.
Il poeta si trovava nel capoluogo lombardo sia per motivi editoriali sia per seguire le turbolenti vicende politiche quando fu indotto dagli squadristi milanesi a parlare dal balcone di Palazzo Marino, avallando così indirettamente le azioni violente dagli stessi appena compiute presso la Camera del Lavoro.
È sufficiente leggere attentamente il discorso dannunziano per comprendere come, al contrario, il Comandante non desiderasse in alcun modo sostenere l’azione fascista. Scriverà infatti come, di fronte alla precisa richiesta dei fascisti di sapere se fosse dalla loro parte, avrebbe replicato dichiarando che sarebbe stato impossibile per costoro comprendere un uomo della sua fatta, un uomo libero.
D’Annunzio durante questo discorso non aveva pronunciato una sola volta il termine fascismo: aveva parlato sempre e soltanto dell’Italia, rivolgendosi a tutti gli italiani e condannando ogni atto di violenza. Nell’orazione non era presente nessuna esaltazione della vittoria fascista, anzi, un invito alla concordia.
Pur rimanendo in questo senso insoddisfatti, i camerati milanesi compresero l’importanza dell’intervento dannunziano – per loro, comunque, positivo – alla manifestazione. Anche se il vate non si era dichiarato apertamente a favore del movimento fascista, i forti toni retorici e nazionalisti impiegati e il continuo richiamo alla Patria quale bene supremo, si prestavano a essere strumentalizzati con estrema facilità, soprattutto al termine di una giornata caratterizzata dalla violenza squadrista.
La colpa ricadeva sul poeta stesso, che, preso dal ruolo di conciliatore nazionale, con il suo stile sempre troppo allusivo, mai del tutto esplicito, non assunse una netta posizione antifascista.
Probabilmente d’Annunzio non si era esposto, preferendo rimanere in attesa impiegando parole che avrebbero potuto essere accettate da tutte le parti politiche. Fu invece più preciso quando, in risposta a un telegramma inviato da Michele Bianchi terminante con il motto «Viva il Fascismo», rispose: «V’è un solo grido da scambiare oggi fra italiani: viva l’Italia! (…) Io non ebbi, non ho, non avrò se non questo.» (Telegramma pubblicato in «Umanità nova» del 8 agosto 1922)
Intenzionato a non divenire il paladino di nessun partito, fu spinto a parlare dai fascisti e dalla sua stessa inclinazione oratoria, dall’irriducibile egocentrismo e dal suo spirito ancora combattivo.
Benito Mussolini
Milano vide uno dei rari incontri avvenuti fra Gabriele d’Annunzio e Benito Mussolini: il pomeriggio del 6 aprile 1928 il Comandante chiese un incontro «a tre occhi». Pur di reperire gli indispensabili fondi, abbandonò la clausura sul Garda e raggiunse il duce per presentargli personalmente – durante un colloquio di circa due ore – una serie di richieste, la più importante riguardante i lavori di impermeabilizzazione e restauro della casa materna a Pescara.
Sarebbe stato uno dei loro ultimi colloqui. Ne sarebbero infatti seguiti solamente altri due brevissimi a Gardone e l’estremo, famoso e controverso episodio della stazione di Verona, in occasione del rientro del duce dalla visita ad Adolf Hitler in Germania. Era il 30 settembre del 1937: un ultimo e definitivo incontro che tanti interrogativi ha sollevato e tuttora solleva.
Legionari
Politicamente e sindacalmente è importante rammentare come a Milano i legionari dannunziani costituissero il 6 settembre 1922, sotto il controllo della Federazione Nazionale Legionari Fiumani, un Comitato Nazionale di Azione Sindacale Dannunziana, allo scopo di raccogliere le adesioni spontanee di tutti quei sindacati o gruppi di operai che – pur restando con i propri organismi sindacali – dichiaravano di accettare i principi della Carta del Carnaro e Gabriele d’Annunzio quale loro capo spirituale. Il Comitato puntava alla convocazione in breve tempo di una costituente sindacale italiana che raccogliesse tutte le forze operaie che desideravano «realizzare l’unità Sindacale sulla piattaforma del riconoscimento esplicito della Nazione e della indipendenza da ogni partito politico.» (D’Annunzio, De Ambris, 1966, p. 345)
L’iniziativa ebbe un discreto successo: diversi nuclei sindacali dannunziani si costituirono un po’ in tutta Italia, interessando varie categorie di lavoratori. Successivamente, purtroppo, questo interessante programma si arenò a causa dei gravi dissensi tra i vari protagonisti del mondo sindacale.
Caffè e salotti
Gabriele d’Annunzio quando soggiornava a Milano frequentava i locali più chic: il Caffè Motta, il Savini in Galleria Vittorio Emanuele (fondato nel 1867, meta fissa per la divina Eleonora Duse e per l’uomo simbolo del futurismo Filippo Tommaso Marinetti che, proprio in questo locale, lanciò nel 1909 il Manifesto futurista) e il Cova. Apprezzava anche luoghi decisamente meno racè, come la Fiaschetteria Toscana di via Ugo Foscolo (ormai scomparsa da tempo), di fianco al Savini.
Spesso d’Annunzio era ospite d’onore del salotto della marchesa Litta Visconti Arese, appartenente al più alto patriziato milanese, donna di grande cultura. Durante gli incontri che si tenevano presso di lei gli invitati erano di altissimo livello, tra le persone più colte ed eleganti della città; il suo salotto e la sua tavola erano tutti naturalmente ambitissimi e il poeta era ben felice di potervi partecipare.
L’alta società milanese non si contendeva solo nei suoi salotti d’Annunzio, ma anche alle partite di caccia a cavallo che si svolgevano in autunno nella brughiera di Gallarate (nella zona di Varese).
Il Teatro
Gabriele d’Annunzio era un animale da palcoscenico, uomo irresistibilmente affascinato dalle scene. Il legame dannunziano con Milano può essere in un certo senso definibile come ‘teatrale’: i palcoscenici del capoluogo lombardo accolsero diverse prime rappresentazioni delle opere del poeta drammaturgo, a partire dal 20 marzo 1901 quando al Teatro Lirico si tenne la prima rappresentazione italiana de La città morta che vide quale protagonista Eleonora Duse dopo che l’eterna rivale Sarah Bernhardt aveva recitato il ruolo della protagonista Anna durante la prima rappresentazione a Parigi (in una traduzione del testo originale in italiano) nel gennaio 1898.
A Milano la prima assoluta de La figlia di Jorio accolta con entusiasmo il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico. Milano fu protagonista di un ulteriore debutto di questa stessa opera: il 29 marzo 1906, al Teatro alla Scala, la tragedia pastorale divenne la prima opera teatrale dannunziana ad essere musicata, grazie ad Alberto Franchetti.
D’Annunzio si recava spesso alla Scala per assistere a rappresentazioni o concerti, come avvenne il 5 marzo 1909 quando si presentò a teatro per l’Elektra di Richard Strauss o il 28 giugno 1922 per godere della Nona sinfonia di Beethoven, diretta dall’amico Arturo Toscanini.
Il cinema
A Milano nel 1909 ebbe luogo il primo incontro fra Gabriele d’Annunzio e il cinema. Nel laboratorio del pionieristico operatore e cinereporter milanese Luca Comerio, il poeta-sperimentatore poté conoscere le potenzialità del cinematografo chiedendo di realizzare un frammento della favola di Dafne: un braccio della ninfa che si tramuta in ramo.
Diversi anni dopo Comerio immortalò il ritorno del poeta in Italia a Quarto nel maggio 1915, durante l’inaugurazione del monumento dedicato alla partenza dei Mille.
Comerio fu inoltre l’unico cineoperatore civile autorizzato a riprendere le battaglie della Grande Guerra, fino al 1917; avrebbe poi seguito d’Annunzio a Fiume documentando l’impresa.
Il cinema aveva colpito da subito il poeta che ne aveva compreso le potenzialità; indicativo l’articolo apparso sul «Corriere della Sera», sotto forma di intervista, il 28 febbraio 1914 e successivamente rielaborato con il titolo Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione. Il cinema era considerato quanto più vicino all’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) di matrice wagneriana.
Il superfluo necessario
Accanto a motivi editoriali, Gabriele d’Annunzio si recava spesso a Milano per i suoi acquisti personali. Le sarte milanesi predilette erano Maria Testa e Marta Palmer, che si contendevano le commesse dannunziane con la nota maison Paul Andrée Léonard e con un’altra sartoria molto amata, l’atelier Prandoni, una delle più rinomante del nord Italia.
Noto è l’amore del Comandante per le divise: anche dopo la Grande Guerra e l’impresa fiumana sarebbe stato solito indossarle ma ‘personalizzandole’: amava mescolare i vari corpi d’armata della cui appartenenza amava fregiarsi. A Gardone, sulla regia Nave Puglia – ad esempio – era facile ammirarlo mentre vestiva una divisa da marinaio abbinata a un farfallino e con il suo pugnale da ardito al fianco; naturale, pertanto, che fra i fornitori d’abiti vi fossero ditte come L. Beretta & C., presente a Milano in via Passarella, e Zainaghi Beniamino di Rho (Milano) – sartorie civili e militari. Altri atelier milanesi frequentati abitualmente erano Martinengo di via Verdi e ‘Alla città di Edimburgo’, la Sartoria Belloni e la ditta Pozzi.
Qualche riga in più merita la creatrice della linea di biancheria intima Domina: le varie badesse che frequentavano il Vittoriale dovevano indossare unicamente questa lingerie esclusiva creata dalla stilista Biki, regina indiscussa della moda femminile del dopoguerra. Biki fondò la sua impresa assieme alla contessa Gina Cicogna e chiese a d’Annunzio quale nome scegliere per la neonata società: nasceva appunto Domina.
Dietro allo pseudonimo Biki si celava Elvira Leonardi Bouyeure, nata a Milano, figlia di Fosca Leonardi Crespi e nipote di Giacomo Puccini. Fu d’Annunzio a ‘internazionalizzare’ nel 1934 il nomignolo di Elvira durante un incontro presso il Grand Hotel et de Milan: se nonno Puccini l’aveva soprannominata Bicchi, diminutivo di Biribicchi, il poeta la rese Biki e con questo nome la giovane donna sarebbe divenuta una stilista di pregio e fama.
Anche le calzature – sia maschili che femminili – erano oggetto di particolare attenzione: d’Annunzio era arrivato a possederne ben trecento. Amava regalarle alle amiche e molto spesso le ordinava a Milano all’ammiratissimo Adolfo Quinté.
Attraverso la moda, attraverso la scelta degli abiti è possibile – in un certo senso – comprendere d’Annunzio, le sue fasi, le ‘divise’ che ha indossato: il giovane dandy alla conquista del bel mondo romano; l’affermato poeta; il soldato d’élite che si compiaceva di appartenere a vari corpi d’armata; il Comandante di Fiume e infine il recluso del Garda che accumulava camicie, giacche, calze e scarpe. Un prezioso e costosissimo guardaroba che ancora oggi è possibile parzialmente ammirare al Vittoriale e presso la casa natale a Pescara.
Mario Buccellati
Il legame tra Gabriele d’Annunzio e Mario Buccellati nacque a Milano il 2 agosto 1922 quando il poeta rimase colpito dalla vetrina del gioielliere in via Santa Margherita, tra la Scala e la Galleria Vittorio Emanuele. Tra il vate e Mastro Paragon Coppella – così l’imaginifico lo avrebbe ribattezzato – sarebbe iniziato un lungo amichevole sodalizio che sarebbe durato fino alla morte di d’Annunzio, un sodalizio scandito da lettere, telegrammi, elenchi di gioielli e fatture (non sempre prontamente saldate) e lastricato dalle pietre preferite dal Comandante: rubini e zaffiri, rosso e blu, i colori del Principato di Montenevoso.
Eleonora Duse
Particolare il legame fra Gabriele d’Annunzio, Eleonora Duse e Milano.
Proprio al fianco della Divina avvenne il primo incontro fra il poeta e la città: era il 18 novembre 1895. La celebre coppia avrebbe praticamente concluso il loro rapporto artistico e sentimentale nel 1904, al momento della prima rappresentazione della Figlia di Jorio, sempre a Milano: si sarebbero riveduti in quella stessa città diciotto anni dopo, all’Hotel Cavour il 28 giugno 1922.
Ulteriori rendez-vous nei due giorni successivi e a fine luglio; si rividero non solo a titolo personale, ma anche per discutere di possibili future messe in scena di opere dannunziane edite e inedite. Perfino il 3 agosto – il ferale giorno del discorso da Palazzo Marino – d’Annunzio trovò il tempo di vedere e parlare con la Duse.
Ancora oggi si discute in merito alla possibilità che l’attrice abbia visitato il Vittoriale mentre si trovava a Milano. A sostegno del sì, si cita l’articolo apparso il 26 gennaio 1958 su «L’eco della stampa» di Roma che riporta la cronaca di una (possibile) visita della grande attrice a Gardone Riviera. Secondo l’anonimo autore, l’avvocato Salvatore Lauro avrebbe accompagnato la Tragica il 14 ottobre 1922, quindi dopo gli incontri milanesi e dopo la misteriosa caduta dell’arcangelo avvenuta in agosto, e poco prima della marcia su Roma.
A sostegno di tale tesi, ad oggi, non sono stati ritrovati ulteriori documenti.
Il dialetto milanese e Carlo Porta
Cultore della Francia, dei suoi poeti ai quali si ispirava, amante del francese (che parlava e scriveva correntemente), Gabriele d’Annunzio aveva un’autentica predilezione per i dialetti, in particolare per il milanese, il cui poeta per eccellenza è – come è noto – Carlo Porta. Secondo Tom Antongini, lo considerava perfino superiore al romano Giuseppe Belli, che pure ammirava molto. Porta era amato per la sua capacità di ritrarre con immediatezza e sensibilità le contraddizioni e le varie sfaccettature dell’esistenza umana.
Il poeta abruzzese apprezzava enormemente nel ‘collega’ milanese l’aspetto grottesco, sfociante talvolta in un’aperta comicità che contribuiva a creare un affresco profondamente umano e filosofico. Scrittura ricca quella di entrambi, capace di catapultare il lettore all’interno della novella narrata quale ulteriore protagonista all’interno del racconto.
Maestro di dialetto milanese fu lo stesso Antongini. In uno dei suoi volumi dedicati al loro legame, l’amico-segretario narra di come d’Annunzio lo obbligasse – essendo lui lombardo – a leggere e rileggere le poesie del Porta, spiegando minuziosamente le raffinatezze della lingua milanese. Più di una volta d’Annunzio gli chiese come fosse la propria pronuncia del vernacolo milanese, più di una volta Tom dovette mentire rassicurandolo sul suo perfetto accento.
Per d’Annunzio il milanese non era un dialetto, ma una vera e propria lingua; forse questa sua predilezione derivava dalla profonda simpatia provata nei confronti di Milano e dei suoi abitanti, tanto amati che era sconsigliabile criticare in sua presenza la città.
Milano nelle parole di Gabriele d’Annunzio
Gabriele d’Annunzio descrisse Milano nel 1917 nelle Faville del maglio (Della decima musa e della sinfonia decima. Della malattia e dell’arte musica) come «città egèmone, con tutte le forze dei voleri e degli ingegni, è intenta alla gara dell’opere come la terra alla generazione delle foglie». Una metropoli dall’
indicibile delirio che ferve nella polvere sterile della Città, come il lievito d’un malvagio pane, quando l’anelito della primavera soffia su i davanzali delle finestre aperte e la crudezza di tutti gli istinti si inacerba nella selva popolosa dalle radici di pietra, che odora di beccheria di taverna d’officina e di lupanare.
Una città industriale in espansione, una città che ispirava la futurista “città che sale” di Umberto Boccioni, una città in continua evoluzione, che il poeta coglie nel turbamento e cambiamento primaverile.
Il Cenacolo vinciano, uno dei sommi ‘gioielli’ di Milano, è uno dei protagonisti del secondo libro della Laudi – Elettra: nel 1901 il poeta pubblicava l’ode Per la morte di un capolavoro, nella quale manifesta tutta la propria afflizione e inquietudine di fronte a quello che appariva come irreparabile: la rovina dell’affresco vinciano.
Milano fu dunque palcoscenico non solo degli interessi editoriali del poeta o dello shopping sfrenato, o ancora dei drammi dannunziani, ma anche di alcuni degli incontri – politici e amorosi – più importanti per il vate: si pensi solamente a quelli con Benito Mussolini ed Eleonora Duse, che vide a Milano per l’ultima volta nella calda estate del 1922, proprio mentre si stava preparando la marcia mussoliniana su Roma, sigillo sull’attività politica di Gabriele d’Annunzio.
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