di Raffaella Bertazzoli, Enciclopedia dannunziana
1. Genesi, contesto e vicenda editoriale dell’opera
Storia incerta caratterizza il libro intitolato originariamente ad Asterope, quinto e ultimo del ciclo delle Laudi, dedicato alle Pleiadi: Maia, Elettra, Alcyone, Merope. Nel progetto di tutte le opere del 1927, la silloge si colloca al n. XII dell’indice con il titolo provvisorio di “Laudi: Asterope: Gli inni sacri della guerra giusta (1914-1918)”. La stampa, avviata già con il titolo mutato in “Sterope”, venne subito sospesa per volere dell’autore che aveva deciso di espungere i testi dalla raccolta delle Laudi. I testi, nella loro forma definitiva, avrebbero visto la luce solo nel 1933, nel tomo X dell’Opera Omnia con il titolo di Canti della guerra latina e ristampati nell’edizione dell’Oleandro nel 1939. Prima della pubblicazione, quasi tutti i componimenti vennero ospitati sul «Corriere della Sera».
Allo scoppio della prima guerra mondiale, d’Annunzio si preparava a proseguire in praesentia quella sua animata e martellante campagna interventista, che era iniziata sulla stampa italiana e straniera nel segno politico di un acceso nazionalismo. Sull’eco di tante infiammate parole, il 2 maggio 1915 d’Annunzio lasciava la Francia, dove si era rifugiato nel 1910 per sfuggire ad ormai impazienti creditori e si preparava ad affrontare quel lungo e defatigante periodo di attività oratoria e bellica che si sarebbe concluso molti anni più tardi.
La possibile guerra contro l’Austria e la Germania, a fianco della Francia, sorella latina, dava corpo e anima a una sua antica aspirazione politica e faceva riaffiorare quell’idea della Renaissance latine che d’Annunzio aveva fatta propria già nei lontani anni Novanta. Essa richiedeva una più stretta solidarietà tra Francia e Italia sulla base di antiche tradizioni comuni per combattere la guerra “santa” contro i “Barbari”. In un certo senso, si trattava di ripristinare – proprio attraverso l’idea di un nuovo Rinascimento – quel dominio della cultura latina, ritenuto dal poeta «nécessaire à la noblesse du monde» (d’Annunzio 2003, p. 842). Idea che era ricorsa frequentemente in quegli anni di fine secolo e per la quale Melchior de Vogüé aveva assegnato a d’Annunzio una sorta di carismatica investitura, chiamando il poeta italiano «beau félin italian du XVI siècle» (Vogüé 1895).
Il primo evento, strategicamente deciso a tavolino da d’Annunzio, con il quale si doveva aprire la lunga serie di apparizioni pubbliche del poeta in sostegno dell’intervento, si sarebbe consumato il 4 maggio 1915 col discorso pronunciato a Genova. Il vate inneggiava a una nuova Italia e al risoluto spirito di una nazione che si preparava a riscattare col sangue la propria indipendenza. D’Annunzio infiammava gli animi: «Voi volete un’Italia più grande, non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di sangue e di gloria. Fiat! Fiat! Si faccia! Si compia!» (d’Annunzio 1958, p. 10).
Con il discorso di Quarto intitolato La Sagra dei Mille, del 5 maggio 1915, d’Annunzio eccita la folla e inaugura le «radiose giornate di maggio», mese nel quale si alternano manifestazioni contrapposte tra “neutralisti” e “interventisti” con la conseguente dichiarazione di guerra all’Austro-Ungheria.
In quello storico luogo, in cui si era alzato il sipario sull’ultimo e decisivo atto dell’avventura risorgimentale, d’Annunzio si rivolgeva alla «Maestà del Re assente ma presente» (questi, infatti, pur non distogliendo «il pensiero dallo scoglio di Quarto», rimase a Roma in posizione prudente e attendista) (Martini 1966), animando i cuori alla lotta sull’esempio dei Mille e del loro Duce, novello Teseo, ora auspice della «nuova dipartita» nella sua effige di bronzo (d’Annunzio 1958, p. 12).
Nell’explicit del discorso inaugurale, d’Annunzio riscriveva, col segno opposto e sulla falsariga del messaggio cristiano delle Beatitudini, un reiterato invito all’azione. Rivolgendosi agli «affamati e assetati di gloria», a coloro che hanno «nel petto un odio radicato», a «quelli che più hanno», chiamandoli tutti «Beati», l’oratore condensava in quelle anaforiche Beatitudini capovolte alcuni dei temi che sarebbero divenuti topoi ricorrenti dei suoi numerosi incitamenti alla lotta: «O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere […] Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché essi saranno saziati! / Beati i misericordiosi perché avranno da tergere un sangue splendente e da bendare un raggiante dolore / Beati i puri di cuore, beati i ritornanti coloro che hanno il cuore puro: beati coloro che tornano con la vittoria». (D’Annunzio 1958, p. 21)
Accorati, ma più spesso enfatici, gli appelli di d’Annunzio erano rivolti ai politici affinché si decidessero nel far cadere le incertezze, lasciando al popolo la decisione sul proprio destino. Nel discorso del 13 maggio arringava il popolo di Roma:
Compagni, non è più il tempo di parlare ma di fare; non è più il tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come un crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. (D’Annunzio 1958, p. 43)
Il bersaglio politico, verso cui si rivolgeva, era Giovanni Giolitti, capo della schiera dei neutralisti:
Voi volete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a predare l’Italia […] Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel boia labbrone le cui calcagna da fuggiasco sanno la via di Berlino […] Noi siamo sul punto di essere venduti come una greggia infetta […] Questo vuol fare di noi il mestatore di Dronero, intruglio osceno. (D’Annunzio 1958, pp. 43-44)
Nella tragica circostanza del primo conflitto mondiale (come era stato per la guerra libica), un ruolo importante sarà assunto dal «Corriere della Sera», che prenderà una posizione interventista, anche se di colorazione moderata. Senza eccessivo impeto, il giornale si sarebbe schierato per una diretta azione dell’Italia in nome di alti valori morali e civili. In gioco non erano le sorti dell’Italia imperialista, ma il ruolo dell’Italia stessa nel concerto internazionale delle potenze. Un appuntamento con la storia – si disse – cui l’Italia non sarebbe potuta mancare.
Avrebbe riconosciuto l’importanza storica e il grande impegno del «Corriere» lo stesso d’Annunzio, che nell’ottobre del 1914, esternando a Luigi Albertini le proprie perplessità sulla classe politica italiana, incerta e indecisa sulle sue posizioni, anticipava, in una prosa crudamente sarcastica, convinzioni che gli saranno proprie nei mesi futuri:
L’Italia cova la paralisi progressiva, all’ombra del berrettone gallonato di quel povero capo-stazione che sopra lei regna e governa […] La guerra è bella per chi combatte, o almeno per chi ode la voce del cannone […] Mi felicito col “Corriere” per la schietta attitudine per la rude franchezza, tanto più meritorie nella Milano appestata dal tedesco. (Albertini 1968, p. 288)
Il Governo, per parte sua, aveva già fatto passi decisivi per l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa. Il 3 di maggio l’Italia con il Patto di Londra aveva dichiarato «decaduto e nullo» l’accordo stipulato dalla Triplice. Superate le forti pressioni di Giolitti e dei non interventisti, il Governo formalizzava la propria dichiarazione di guerra all’Austria con il voto del 20 maggio in Parlamento.
Sottostavano a questa decisione sia ragioni legate alle mai dimenticate idealità risorgimentali – come sostenevano i democratici alla Bissolati; sia convinzioni, non così peregrine e circoscritte, che riconoscevano alla guerra l’essere fatto ineluttabile nella dialettica del potere, un dato quasi fisiologico, secondo le convinzioni dei nazionalisti alla Rocco; ovvero un momento su cui si sarebbe dovuta innestare una non ben motivata rivoluzione sociale, come pretendevano i sindacalisti rivoluzionari. Infine, si portavano ragioni volte ad assecondare una non meglio definita volontà eroica, legata alla memoria della più antica e gloriosa storia patria.
Nella drammatica circostanza che aveva visto l’Italia pronunciarsi per una scelta armata, venivano dunque a innestarsi, su questioni centrali di chiaro indirizzo politico (ma anche economico, come nel caso della guerra libica), elementi non marginali di natura ideologico-culturale. Si tentava di giustificare le mire espansionistiche italiane prima, e la volontà (che risulterà al fondo prevalente) di recupero dei territori irredenti poi, secondo un’ideologia schiettamente nazionalistica, di un nazionalismo volto ad esaltare l’idea della nazione grande e fondato su «un’ondata di entusiasmo patriottico» piuttosto che su meri «motivi materialistici». Un nazionalismo che si nobilitava con citazioni austere, attinte al passato illustre della storia della nazione, all’impero romano al quale – si diceva – i destini patri si legavano senza alcuna soluzione di continuità.
D’Annunzio, che aveva grandemente contribuito con i suoi numerosi discorsi a incitare il popolo alla lotta, avrebbe salutato il fausto giorno dichiarando finalmente trascorso il momento dell’indecisione. Nell’uscire dal Parlamento (così suona il titolo dato a quel breve commento), egli diceva concluso il tempo in cui si era patteggiata la sorte dell’Italia e si era cercato il compromesso. L’ora era giunta. Trascorsa, nelle parole del poeta, l’interminabile «settimana di Passione», cui sarebbe seguita la Resurrezione della patria, gli italiani avrebbero pagato la decisione interventista con un sacrificio di sangue dalle proporzioni inimmaginabili. (D’Annunzio 1958, p. 61)
Era quello il momento dell’azione e dell’azione eroica interpretata da d’Annunzio come rifiuto categorico per l’usato mestiere: «ho l’orrore del lavoro immobile, della penna, dell’inchiostro, della carta, di tutte queste cose divenute oggi vane. Il pericolo è il solo dio lampeggiante a cui mi piace di consacrare la mia poesia inespressa» (Sodini 1931, p. 433). Così, da raffinato cesellatore della parola scritta, d’Annunzio si faceva professionista della parola detta, nella quale la retorica ridondanza aveva la capacità di produrre un’operazione di transfert su un uditorio ammaliato e rapito.
Forse per quel richiamo all’«ineffabile […] destinato a unire magicamente l’oratore e gli ascoltatori» (Valeri 1956, p. 39); forse per quella sua qualità oratoria, vista come «sintesi rituale, apoteosi umanistica nel mondo magico della parola» (Raimondi 1980, p. 72), d’Annunzio riuscirà a innalzare il suo discorso ad atto di «pura bellezza». Da componimenti occasionali, spesso accusati di retorica vuota e altisonante, d’Annunzio seppe costruire un fatto estetico sul quale innestare il proprio messaggio politico.
Sarà dunque proprio questo, un nazionalismo eroico un po’ sui generis e di impronta umanistica, il terreno sul quale d’Annunzio si muoverà nei suoi componimenti lirici per le imprese belliche nazionali. Un atteggiamento, peraltro, sempre coerente con la propria precedente esperienza biografico-letteraria: dalle Odi navali che inneggiavano al futuro di un’Italia «grande potenza navale» a Elettra che celebrava i fasti del passato nazionale nelle figure dei suoi eroi e si consumava in una incessante deprecatio del tempo presente; dal romanzo delle Vergini delle rocce che proponeva il riscatto attraverso la figura dell’Übermensch alla tragedia di un eroe negativo come Corrado Brando, invasato Ulisside che interpretava, nello slancio esplorativo, la volontà d’evasione “esotica” della cultura occidentale. Come in tutte le prose di guerra, l’idea dannunziana era quella della rinascita in senso morale e politico della Patria. Italia celebrata come madre di una Stirpe superiore dal «nobile sangue latino», per la quale si richiedeva un nuovo modo di essere, ricalcato sugli esempi di un passato più o meno remoto, sganciata da un presente sentenziato come basso e vile.
2. Il nucleo tematico e la struttura
Per il titolo primitivo di Asterope, d’Annunzio poteva attingere dalla tradizione classica. Figlia di Atlante e dell’oceanina Pleione, Asterope sposò Marte e per questo coerentemente sovrasta nel titolo i testi di argomento bellico. L’approdo al titolo rematico di Canti, inserito nel ciclo delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, a sua volta definitorio del genere, crea un cortocircuito con altre parti dei libri precedenti, dove il segno connotativo è quello dell’eroismo.
Pur considerati nella loro forma raccogliticcia di testi composti a distanza di anni, i Canti della guerra latina assolvono nella raccolta a un disegno organico, a una struttura idealmente preordinata tra autobiografia e storia, tra realtà e mito, ora sostanzialmente mito dell’azione. E non solo o non tanto per la loro tematica comune (l’impresa bellica per la patria in armi), ma per la loro storia interna che fa di questo libro la trascrizione finale del percorso meta-poetico, iniziato da d’Annunzio con il primo libro di Maia.
La scelta fondante e universale che ispira tutti questi componimenti nasce dalla necessità di una più immediata e diretta comunicazione tra le varie anime del poeta tribuno e soldato e il suo pubblico. Si rafforza l’idea dannunziana di una nuova ecumene, diffusa nell’emergenza della guerra vissuta, e propagata tra i combattenti della trincea con le parole di un’esperienza religiosa collettiva.
I Canti, nello specifico, sono testi inneggianti all’interventismo e alla «guerra santa e giusta» che l’Italia, dopo qualche perplessità, si stava accingendo a combattere. In tal senso, l’ultimo componimento della raccolta Il cantico per l’ottava della vittoria, composto tra il 3 e l’11 novembre 1918, cioè a guerra appena conclusa, assolve a una funzione di suggello politico-ideologico riassumendo e proiettando nel futuro rinnovato dell’impresa bellico-mistica i grandi temi dei due ultimi libri dedicati alla guerra. Partendo dal Canto augurale per la nazione eletta, testo conclusivo di Elettra, passando attraverso L’ultima canzone di Merope si arriva al Cantico per l’ottava della vittoria che avrebbe dovuto titolarsi (secondo gli autografi) “Preghiera per me stesso”. In questo ideale percorso di poetica Ringerzählung, d’Annunzio assume il ruolo di vate dei destini patri.
Come era stato per i versi di Merope pubblicati «a tambur battente» tra l’8 ottobre e il 14 gennaio 1912, anche il nucleo sostanziale dei Canti sarebbe apparso sui fogli del «Corriere della Sera», ma diluito nel tempo, tra il 2 novembre 1915 e il 12 novembre 1918. Anche per questi componimenti, i primi perlomeno, Ode pour la rèsurrection latine e Sur une image de la France croisée, pubblicati in Francia e in francese nell’agosto del 1914 e nel marzo del 1915, il tema forte riguarda l’incitamento a prendere le armi. Saldo era il timore del poeta che l’Italia fosse tenuta in disparte, esclusa dall’impresa bellica e dall’ora storica che l’avrebbe riportata agli antichi splendori.
Il messaggio indirizzato al lettore, con cui si apre il libro dei Canti, è inequivocabilmente legato a un’impostazione di poesia retoricamente alta. L’esergo rinvia, infatti, alle parole pronunciate da Giunone a proposito dei Troiani, tratte dal primo libro dell’Eneide: «Una cum gente tot annos bella gero» («Faccio guerra da molti anni con un solo popolo»). Nonostante la raccolta si apra sotto il sigillo del mito classico, la poesia dei Canti si riconosce nel passaggio dal pagano al cristiano, con citazioni di altri “miti”, quelli desunti dal Vecchio e Nuovo Testamento.
Per la prima volta d’Annunzio si confrontava con una realtà sentita come momento epifanico: non più artifex del fittizio, non più affabulatore d’imprese immaginate, come quelle paranoicamente sognate da Corrado Brando, esploratore della «razza dei Caboto». Non più inventio letteraria di grandi imprese, esemplate sulle figure dei grandi civilizzatori, alla stregua dei Bottego, dei Sacchi, dei Chiarini, degli Stanley. Non più fughe nel passato o nel futuro con fondazioni di grandi e nuove società di aristocratico lignaggio in polemica con l’antieroico mondo della società umbertina: il poeta si sarebbe misurato con il presente, con l’ora finalmente “eroica” della patria. I Canti sono il commento lirico a imprese reali e segnano l’avvio di una scrittura celebrativa alla quale, salvo sospensioni notturne, il poeta si sarebbe dedicato fino al ritiro gardonese.
Nel mutare delle condizioni storiche e del proprio ruolo, da poeta “mero” a soldato d’imprese memorabili, d’Annunzio viene mutando anche la sua impostazione poematica. Un’evoluzione che affiora nei testi e nel loro farsi percepito attraverso le scelte tematiche, metriche, attraverso il diverso modo di accostarsi alle fonti. Un percorso che è possibile seguire lungo l’esperienza compositiva e il successivo assemblamento editoriale dei Canti.
Nel quinto libro la tematica del conflitto mondiale con tutti i suoi simboli si esplicita nella grande presenza di forme topiche delle Scritture che parlano della guerra secondo schemi antinomici. L’aspetto suasivo-celebrativo di Merope si salda al tono lirico-mistico dei Canti che celebra la morte santa del soldato. Si rievocano le battaglie del Carso e del Carnaro, si onorano il re e la regina, il generale Luigi Cadorna. Ai molti caduti senza nome, combattenti di una vittoria mutilata, sono dedicati i testi d’impianto religioso. La guerra significa pegno di sangue, rito sacrificale in vista della rinascita. Se possiamo legare a un unico filo conduttore la frammentarietà compositiva dei Canti, dobbiamo guardare al tema forte della guerra vissuta e combattuta. E questo a d’Annunzio doveva bastare.
Il libro si apre con due testi in francese, Ode pour la rèsurrection latine e Sur une image de la France croisée. D’Annunzio manifesta con questi componimenti l’intenzione di onorare la Francia. Nell’Ode pubblicata sul «Figaro» con data 13 agosto 1914, si tocca uno dei nodi ossessivi del pensiero politico dannunziano, l’intervento dell’Italia, accomunando la patria ai destini della Francia già in guerra: «Je crie et j’invoque: O Italie! O France!», esclama. Significativa la lettera all’Albertini, inviata poco tempo prima del suo rientro definitivo in patria, quando, sbagliando, pronosticava la neutralità dell’Italia: «avrei voluto tornare in Italia il giorno della dichiarazione di guerra – scrive d’Annunzio – È strano: ho in me il presentimento (rare volte m’inganna) che l’Italia non si batterà». E mentre il poeta leggeva nella storia i segni premonitori: «la morte del Papa! Che grande segno! Il destino compone gli eventi come un sublime poeta tragico», si esaltava nel pensiero dell’azione e del canto: «Quando ricomincerà l’ebrezza delle Canzoni di gesta?» (Albertini 1968, p. 309).
Il poeta s’investe di una forza profetica: «Je ne suis plus en terre d’exil, / je ne suis plus l’étranger à la face blême, / je ne suis plus le banni sans arme ni laurier. Egli scrive che: «Le jour est proche! Voici le jour!». Un giorno in cui il Signore è presente: «Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle, / je suis ivre d’amour iet d’épouvante. / Il vient, il vient le Seigneur invoqué». Il tono retoricamente alto si manifesta nella trasmutazione profetica: «Les pieds graves du Destin / se transmuent en ailes et soudaines». Il mito s’insinua tra la parola sacra: «Et J’entends les chevaus des Dioscures hennir» e la parola diventa realtà: «C’est le signe! c’est le signe!».
Il secondo gruppo di testi s’intitola Sur une image de la France croisée. Comprende quattro sonetti, diffusi a Parigi in fac-simile d’autografo nel marzo 1915 e poi sul «Figaro» il 5 maggio 1915. Testi che d’Annunzio scrive a testimoniare l’«amour pour la France». Nel primo sonetto d’Annunzio descrive in modo ecfrastico un quadro di Romaine Brooks, con Ida Rubinstein come modella, intitolato La France croisée. Vi è rappresentata una crocerossina con alle spalle una pianura in fiamme. Nell’edizione del 5 maggio 1915, «Le Figaro» accompagnava l’immagine con una serie di testi di d’Annunzio, intitolati «Sur une image de la France Croisée, peinte par Romaine Brooks». Il quadro è oggi al National Museum of American Art di Washington. In un telegramma inviato ad Arcachon il 9 aprile del 1915, Romaine scriveva a d’Annunzio dell’importanza di una sinergia tra parola e segno pittorico: «Bernheim tient beaucoup au poème. Alors tableau ne sera exposé que quand Marty donnera publication» (Castagnola 2017, pp. 162-163). Il poeta inneggia alla Francia: «France, France, sans toi le monde serait seul!».Nei Tre salmi per i nostri morti, pubblicati il 2 novembre 1915 sul «Corriere della Sera», si onora la ricorrenza dei defunti con il De profundis (Salmo 130). Nella forma biblica del salmo, il poeta chiede a Dio fino a quando i soldati dovranno sopportare gli oltraggi del nemico. La risposta viene dalla montagna: finché non ci sarà la vittoria che santificherà i morti.
Il topos della guerra santa è presente sia nella salmografia sia nella letteratura profetica, soprattutto di impronta escatologica (Ger 50; Mi 4, 13; Zac 14). Sono salmi carichi di invettive, dove si legge l’arcaico grido di guerra degli ebrei conservato nel libro dell’Esodo: «Jhwh è il nostro vessillo di guerra!» (Es 17, 15). I soldati diventano i sacerdoti di un rituale sanguinario: prima della guerra devono essere “santificati”, cioè purificati e consacrati (Is 34, 5). Lo spazio combattuto è l’universo dal quale Dio chiama tutti i suoi morti sparsi nei campi di battaglia. La morte è chiara come una vittoria nell’esaltazione del sangue e della morte santa. L’io, invaso dall’ardore eroico, è maschia speranza alata.
L’Ode alla nazione serba appare sul «Corriere della Sera» il 24 novembre 1915. Sono XXI lasse in cui si esalta l’eroismo serbo, attraverso la sua storia. Il linguaggio è crudo e irrisorio contro i nemici della Serbia che viene invasa dagli austriaci.
Sotto il titolo Preghiere dell’avvento, scritte nel dicembre 1915, ci sono i testi Per i morti in mare, «Glauchi eroi al resurressi», apparsi sul «Corriere della Sera» dell’11 dicembre 1915. Il giornale di Albertini ospita anche in prima battuta Per la gloria (12 dicembre 1915); Per il re (19 dicembre 1915); Per la regina (19 dicembre 1915); Pel generalissimo (Luigi Cadorna) (19 dicembre 1915; Il rinato (1° gennaio 1916); Per i combattenti (20 gennaio 1916); Per i cittadini (12 settembre 1915). La preghiera di Doberdò appare sul “Numero unico pro mutilati” del novembre 1916. A Luigi Cadorna, il 9 settembre 1917 sull’«Illustrazione Italiana».
La canzone del Quarnaro dell’11 marzo 1918, pubblicata con la Beffa di Buccari, si configura come una sorta di diario in versi dell’ardita spedizione. Nel componimento d’Annunzio alterna la più accesa invettiva anti-austriaca, toni sarcastici e retorica bellica. La canzone consegna alla retorica successiva (anche quella fascista) il motivo iniziale: «Eia, carne del Carnaro! Eia Eia Alalà!», che viene ripetuto al termine di ogni strofa. D’Annunzio si servì della radice greca del verbo alalàzo che propriamente significa ‘levo un canto di guerra’. Il testo All’America in armi appare sul «Corriere della Sera» del 4 luglio 1918, per l’anniversario della festa dell’indipendenza degli Stati Uniti e lo sbarco degli alleati. La preghiera di Sernaglia è pubblicata il 24 ottobre 1918 e il Cantico per l’ottava della vittoria il 12 novembre 1918, entrambi sul «Corriere della Sera».
3. La fonte sacra e lo stile
Con i Canti della guerra latina (come già in parte con Merope) d’Annunzio rinnova profondamente il lessico, attingendo alle fonti sacre, soprattutto evangeliche. La liturgia della parola trova qui una stretta funzione suasiva e consolatoria. Segno stilistico distintivo di questi canti sono le formule iterate di impronta biblica ed evangelica, che diventeranno il tessuto poetico nei componimenti dedicati ai combattenti e ai caduti. Milva Maria Cappellini scrive:
in una ipotetica scala ascendente di manipolazione linguistica della fonte, i versetti di Diodati occuperebbero senz’altro l’ultimo posto: ritmici, toscaneggianti, arcaizzanti, si offrono a d’Annunzio già perfettamente pronti alla riutilizzazione ogni qualvolta occorra un tono solenne, sapienziale, di maledizione o lamento. (Cappellini 2005, p. XXIV)
Un approccio, che possiamo definire “colto”, utilizza i testi sacri come testi letterari, con precise conoscenze sia degli Officia sia delle Scritture. In un assemblaggio di odi, canzoni e salmi, in un montaggio di citazioni, formule anaforiche, metri diversi (anche dedotti dai Canti tradotti dal Tommaseo), d’Annunzio piega la retorica al contingente momento drammatico tra sacralità e superomismo.
Riconosciute le fonti neo e veterotestamentarie, resta da chiarire come funziona la citazione nei testi e come si svolge il lavoro nell’officina del poeta tra intertestualità e interdiscorsività. Come nasce la parodia nei testi di poesia ‘sacra’?
Per Michail Bachtin, la parodia è segno forte della citazione, incrociando «due stili, due punti di vista linguistici, due pensieri linguistici, in sostanza, due soggetti del discorso». La finalità eversiva della parodia: «sconvolgendo la solidarietà fra gli elementi del pre-testo [parodiato], mette in crisi tutto il complesso di significati ad esso associati» (Bachtin 1979, p. 438). Il testo parodiato diviene riconoscibile in quanto veicolo di un modello culturale diverso da quello del testo parodiante, quest’ultimo portatore di una carica aggressiva extra-testuale con una ripresa straniante e un riutilizzo dissacrante di valori espressi.
D’Annunzio enuncia apertamente la sua tecnica di riscrittura parodica secondo la metafora della rielaborazione agonistica: «Ogni sua parabola [di Cristo], mi vien fatto di prenderla spirante nella mia mano […] Rimpasto l’argilla arditamente […] la rilavoro» (d’Annunzio 1968, p. 78). All’interno dell’assunzione parodica del sacro s’innesta la scrittura profetica che pone l’actor/auctor in una condizione emulativa, in una posizione di parità con Cristo. D’Annunzio gareggia con la Scrittura in una perenne ricerca di conoscenza per calmare la sete: «Ho sete, non so di che» (d’Annunzio 1968, p. 60). La riscrittura sacra assume nei testi dannunziani una carica ideologica trasgressiva, applicata a fatti o dottrine essenziali del cristianesimo. Se per alcune citazioni d’Annunzio usa luoghi notissimi delle Scritture additando volutamente il suo ipotesto, in molti altri casi la materia sacra viene assunta, inglobata e ricomposta in un tessuto nuovo che entra in agone con il suo modello.
Quando la parola ha fondamento ontologico e non solo etimologico, i luoghi poetici preferenziali per un confronto diretto con il Verbo che si è fatto carne sono quelli dei campi di battaglia, dove s’innesta l’esperienza vissuta in prima persona da d’Annunzio come soldato. Parola che non ha coloritura allusiva, ma diventa un contrassegno di verità rivelata, gesto mistico ed estetico insieme.
L’elaborazione testuale, testimoniata dagli autografi (43 cc. dove d’Annunzio stende appunti e veloci annotazioni raccolti sotto il titolo di “Salmi”.; A. P. 420, nri 5181-5219), si presenta secondo il criterio dell’accumulazione per frammenti. D’Annunzio stende una serie di dati compilando liste di nomi, evidenziando toponimi, registrando assunzioni lessicali dai ben noti vocabolari. Gli esempi sono tratti dalla Bibbia Diodati, presente al Vittoriale in due edizioni (1888, I e 1921) con numerosi segni di lettura.
Per molte delle citazioni bibliche l’uso è quello dell’assunzione di una figura della reiterazione, come adozione di un proverbio o di una qualsiasi forma della ripetizione, per cui si rinvia a un patrimonio acquisito e condiviso di conoscenze, anonimo e collettivo (Petrelli 2002). Sono numerosi i casi di evocazione del testo sacro mediante l’uso dell’anafora come nei Tre salmi per i nostri morti: «E allora udita fu dall’alto una voce senza / carne, che diceva: “Beati i morti”. Fu intesa una voce / annunziare: “Beati quelli che per te morranno”».
Ci sono versi che restano fedeli al dettato scritturale, ripreso con simbolismo antifrastico (Tre salmi): «Non gli angeli versavano su la terra e / sul mare le coppe ferree dell’ira di Dio» e che rinviano ad Apocalisse 16, 1: «E io udii una voce potente che dal tempio diceva ai sette angeli: “Andate e vuotate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio”».
Il Cristo, che ora diventa figura solidale con l’esperienza bellica, ripercorre la Passio insieme al soldato sul Carso/Calvario. Il testo dei Canti che ne riscrive esemplarmente l’immagine porta il titolo Il Rinato. Composto in terzine, il testo vuole essere una grande metafora della guerra, riletta e riscritta attraverso una precisa mise en abîme della simbologia cristiana. La nascita e la passione di cui parla il poeta è quella di Cristo, ma destoricizzata e incarnata nella figura del combattente, nella drammatica realtà del conflitto. La natura cristologica nelle sue tappe cogenti, la nascita e la morte, viene riscritta secondo una nuova Passio, in cui il martire-salvatore è il fante della trincea. L’attenzione va ad un lessico che allude, ma nello stesso tempo sposta i termini dell’ipotesto sacro: «S’ebbe natività nella trincea / cava il Figliuol dell’uomo». Per questo nuovo evento di rigenerazione il Cristo-soldato non ha per giaciglio paglia, né per ricovero una stalla, ma fango e fasce, dove la parola «fasce» diviene semanticamente ambigua nell’allusione alle fasce del neonato: «e solo quivi, / messo in fasce da piaghe, si giacea». Non da pastori e da magi il «Figliuol dell’uomo» è attorniato, ma da un insolito corteo di vivi e di morti, soldati vivi e soldati morti; come doni non ha che il ferro delle baionette, il sangue dei morti e il fango della trincea. Pur «fasciato di tristezza» egli però non piange. È intento ad ascoltare: non inni di gloria, o ninne-nanne, sussurrate dalla madre, ma rimbombi, crosci di mine; e non sente i profumi dell’incenso e della mirra, ma il fetore dei corpi in disfacimento:
Laude gli era il rimbombo senza fine
per il silenzio delle nevi ignoto;
cantico gli era il croscio delle mine
occulto; gli era aròmato il fetore
ventato su dalle carneficine.
La rinascita del soldato combattente trova nelle annotazioni evangeliche, reinterpretate nella poesia, la giustificazione del suo sacrificio: morire per rinascere in una moltitudine, «moltiplicati dal combattimento», numerosi come «la rena del […] mare». Il sacrificio di Rachele (archetipo materno), privata dei propri figli, che d’Annunzio richiama come modello del dolore in una voluta attenzione verso la propria madre (cui dedicherà il Notturno, scritto «col sangue»), è oggi la rinnovata sofferenza di tutte le madri, ma trasformata nella certezza di una rinascita collettiva: ««Io farò germogliare / in carne i tuoi germogli, o genitrice». Cristo rinato dunque in altri soldati e poi ancora in altri, dopo aver ripercorso un simbolico sacrificio del Golgota:
E con fasce da piaghe era fasciato;
e sanguinava senza croce, come
per il colpo di lancia nel costato.
La simbologia dei Canti è cruenta: in un altro canto il nuovo Cristo è coronato di filo spinato (Per i cittadini, V):
riverso, incoronato con le spine
di ferro ch’ei tagliò tra legno e legno
confitti come croce al sacrificio
dell’eroe sovrumano.
Ma il Cristo-soldato si rigenera, non più votato alla crocifissione (La preghiera di Sernaglia, IV):
Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su
l’omero scarno, né inchiodate le palme all’infamia, né i
piedi trafitti.
Il soldato cade, ma si rialza:
Cade anch’Egli, come quando portava la croce; cade
e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende
la sua arme e il suo fiato.
Il mistero della resurrezione viene interpretato e rivissuto in prima persona dal poeta che si definisce «il primogenito dei morti». L’identificazione del Cristo con il combattente, ma in ultima analisi con lo stesso d’Annunzio, vero protagonista di questa guerra combattuta, è la formalizzazione estrema del processo poetico-ideologico che il poeta elabora con l’ultima raccolta delle Laudi. A questa figura del Cristo-soldato l’autore sovrappone se stesso soldato come autore di gesta inimitabili, come modello di ardimento e di purezza nell’azione: eroe capace di moderne resurrezioni attraverso le imprese dell’aria. Actor di moderne catabasi, cui la tradizione attribuisce il significato rituale di necessario iter verso la rinascita. D’Annunzio uno e bino, pagano e cristiano: il salvatore e il risorto nel mistero del Resurressi: «Io sono Orfeo bendato, che alle porte dell’Ade attende me stesso raffigurato in Lazaro consapevole di quel mistero verso cui Gesù crocifisso gettò dall’alto del Calvario il suo ultimo grido».
La metamorfosi è totale: Cristo si rigenera nuovamente nell’uomo, e con questo conduce la sua nuova Via crucis. D’Annunzio ricrea nella poesia il mito del soldato che si immola per il più alto dei valori: la salvezza della Patria. Nel 1921, pubblicando a Pescia il messaggio Vogliamo vivere indirizzato al legionario fiumano Alceste De Ambris, d’Annunzio chiedeva all’amico pittore Lorenzo Viani di decorare il testo con alcune xilografie. Una di queste rappresenta un soldato con un elmetto sovrastato da un tralcio di alloro e da una corona di spine: Viani aveva fermato, con il tratto incisivo dell’arte, il senso ultimo di quell’importante fase creativa. L’immagine riuniva simbolicamente i temi della riscrittura profetico-estetica dei Canti, consegnando alla storia d’Annunzio come poeta-soldato nell’atto emblematico del martirio e nella forza eternizzante dell’arte.
Bibliografia essenziale
Edizioni apparse in vita
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Gabriele d’Annunzio, Canti della guerra latina, Roma, Il Vittoriale degli Italiani, 1939.
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Edizioni commentate
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Gabriele d’Annunzio, Asterope, Milano, Mondadori, 1949.
Gabriele d’Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, Milano, Mondadori, 1964.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, II, Milano, Mondadori, 1984.
Gabriele d’Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Canti della guerra latina, a cura di Gianni Oliva, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1995.
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Bibliografia secondaria
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