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Firenze

di Simona Costa Enciclopedia dannunziana

 

«Nell’estate del 1898 in questo paese di gente sobria nel costume e fiera […] apparve un uomo a cavallo, seguito sempre da un levriero elegante ed agilissimo. Era vestito di bianco e portava il cappello a grande tesa […] cane cavallo e cavaliere avevano qualcosa che li distanziava ed isolava […] dal mondo circostante […] se ne parlava come del personaggio di una favola». Così Palazzeschi, sul «Corriere d’Informazione» del 25 febbraio 1958 (Un uomo a cavallo, poi in Il piacere della memoria), tratteggiava l’arrivo di Gabriele d’Annunzio a Settignano, nella quattrocentesca villa la Capponcina, già di proprietà della storica famiglia Capponi, presa in affitto dal marchese Giacinto Viviani della Robbia per 1200 lire annue. D’Annunzio, che la volle liberata dai vecchi mobili, riarredata e ristrutturata secondo i suoi gusti, vi si stabilì nel marzo 1898, confidando anche in più o meno segreti “nidi” dislocati in città e utili a fini lavorativi o erotici: come più tardi, al tempo della passione per Giusini, i rifugi di Piazza dell’Indipendenza (il «piccolo giardino») e poi di via Pier Capponi (il «chiostro verde»). Questo scenario collinare fu, per alcuni anni, anche lo sfondo dell’amore fra lui ed Eleonora Duse che, nelle pause delle sue tournée, riposava nella contigua dimora affittata dal marchese Poltri-Tanucci e francescanamente ribattezzata la Porziuncola.
Firenze era stata la città di cui il collegiale Gabriele aveva scoperto le bellezze artistiche e i tesori museali andando, in cruschevole lessico, «a gomitello» con Malinconia, ovvero a braccetto per le strade cittadine con Clemenza-Clemàtide-Malinconia, figlia di Francesco Coccolini, suo raccomandatario fiorentino (cfr. D’Annunzio e Prato). Nelle prose di favilla del Compagno dagli occhi senza cigli tornerà, oltre all’incanto delle ville medicee nella campagna fiorentina, da lui frequentata nelle vacanze estive, ospite dei Coccolini «in una chiara villa di Castello che in antico era stata di Lucrezia Rucellai» (d’Annunzio 2005, I, p. 1484), anche il rielaborato ricordo dell’intera famiglia Coccolini. Se Filippo/Pippo, fratello di Clemenza, lasciava montare a Gabriele i suoi cavalli nel maneggio della Fortezza da Basso, fu lei, secondo un brano (La Chimera e l’altra bocca) del Secondo amante di Lucrezia Buti, che lo avviò alla scoperta della sensualità nella visita, al Museo Etrusco, della Chimera d’Arezzo.
Ora, per il signore della Capponcina, già esaltato nel 1895 in Francia quale campione della “Renaissance latine”, Firenze è il luogo eletto di un nuovo Rinascimento, sulle orme di Leonardo e Michelangelo e dell’età ellenistica: come da lui auspicato nella celebre intervista del gennaio 1895 resa a Ugo Ojetti.
Nel racconto lirico di Maia della crociera in Grecia dell’agosto 1895 sullo yacht Fantasia di Edoardo Scarfoglio non è citata Atene, dove pure d’Annunzio aveva sostato, come testimoniano i suoi taccuini e i giornali di bordo dei suoi compagni di viaggio, e dove tornerà nel 1899 con Eleonora Duse, pronunciando nel febbraio quell’Orazione agli Ateniesi in cui, celebrando il ritrovamento dell’Auriga di Delfo, assimilato a Prometeo, intrecciava il lauro fiorentino all’olivo di Corcira (Corfù) e al mirto di Zacinto. Al posto di Atene troviamo invece una digressione sui luoghi ora cari e presenti al poeta: le colline di Fiesole con la loro primavera, Bellosguardo, la collina dell’Incontro, Poggio Gherardo, Vincigliata, la «remota» Vallombrosa, Rovezzano, Rimaggio, Candeli, Monteloro.
È apparsa, questa, una strategia non casuale di sostituzione, in quanto Grecia e Toscana, come sottolineava Andreoli fin dalle sue note a Maia (d’Annunzio 1984, pp. 895-900), erano correlate già dallo scrittore francese Charles Maurras nel testo di Anthinèa (1901), presente al Vittoriale con segni di lettura sui passi relativi a tale “rassemblance”, riconducibile anche a un’affinità etimologica avanzata da Curtius: Atene-Anthinèa, in greco fiorita, è raccordata a Firenze-Florentia. E se in Alcyone il Fanciullo d’esordio si muove dai fiorentini Orti Oricellari fino all’Acropoli di Atene, sarà anche il litorale toscano a vivere in un’aura di rinata grecità. «L’Ellade sta tra Luni e Populonia», recitano infatti i versi dell’Oleandro; così il recupero del mito e la tensione metamorfica sarà possibile solo in un paesaggio marino ancora intatto in cui rinnovare il volto antico di quella Grecia inseguita nella crociera del 1895, sempre, s’intende, con libri e baedeker alla mano (Andreoli 1999).
La Firenze, novella Atene, in cui d’Annunzio si trasferisce è città di grande fermento culturale che ha risentito della presenza di personaggi come Enrico Nencioni, tramite nostrano alla cultura anglosassone, figura-guida di passioni letterarie già per l’adolescente d’Annunzio che lo contatta sin dal collegio e lo eleva a suo «eloquentissimo pedagogo», come dirà nel commosso necrologio del 1° settembre 1896 sulla «Tribuna», poi rifluito nell’Allegoria dell’Autunno. Legata a Nencioni è anche la formazione culturale del cosmopolita Carlo Placci, grande frequentatore di salotti, poliedrico critico giornalista, amico di anglo-fiorentini come Vernon Lee e Bernard Berenson.
Fu probabilmente Placci, sul finire dell’Ottocento, a presentare al ristorante Doney in via Tornabuoni d’Annunzio a Berenson: quando quest’ultimo si trasferì con la moglie nel 1900 a villa I Tatti si trovò anche ad essergli vicino di casa, a lui collegato da quelle strade poi, e lo dice lo stesso Berenson, così «mirabilmente descritte» nel dannunziano Proemio alla Vita di Cola di Rienzo. Coinvolto dalla cultura filologica e letteraria di d’Annunzio, Berenson tuttavia non amava affatto il suo mondano narcisismo, esplosivo specie davanti a un pubblico femminile; quanto ai suoi gusti artistici e di arredamento il giudizio dello storico dell’arte fu del tutto stroncatorio, salvando solo le sue sincere reazioni alle bellezze paesaggistiche.
Fondativa per gli intellettuali del «Marzocco», la rivista fiorentina nata nel 1896, legata ai fratelli Angiolo e Adolfo Orvieto e debitrice del suo nome a d’Annunzio, risultò l’estetica di Angelo Conti, esplicitata nello stesso 1900 nelle pagine della sua Beata Riva e in quelle dannunziane del Fuoco, per bocca di Daniele Glàuro, sodale del protagonista. Si chiude a Firenze anche l’esperienza politica dannunziana, dopo l’elezione a deputato nel 1897 per il collegio abruzzese di Ortona e, nel marzo 1900, il suo clamoroso passaggio dai banchi dell’estrema destra verso quelli dell’estrema sinistra, nel clima parlamentare di opposizione alle leggi Pelloux.
Ripresentatosi a Firenze nel collegio di San Giovanni, quale candidato indipendente appoggiato dai socialisti, ebbe ad avversario (che lo sconfisse) il conservatore fiorentino Tommaso Cambray-Digny e, come racconta Palmerio, si trovò osteggiato dalle autorità locali. Non riuscendo neppure a reperire una sala o un teatro per il suo discorso agli elettori, si rivolse al sindaco di Firenze, il senatore Pietro Torrigiani che tuttavia, pur avendolo accompagnato e festeggiato all’inaugurazione delle letture dantesche in Orsanmichele, non rispose alla sua lettera.
Non solo dunque si dovette accontentare di un modesto locale della lavanderia Sbolgi, in Via delle Porte Nuove a Porta al Prato, ma, oltre a perdere l’appoggio del «Corriere della Sera» che lo aveva prima sostenuto nelle elezioni abruzzesi, fu duramente attaccato dal direttore della «Nazione», Ettore Bernabei, per la scarsa moralità della sua vita privata. Ne nacque un duello, svoltosi in una sala di Palazzo Buondelmonti, in Piazza Santa Trinita, dove Bernabei fu ferito alla tempia sinistra, con grave rischio per l’occhio: esito da cui d’Annunzio non si sentì comunque risarcito, rifiutando di riconciliarsi.
A Settignano si avvicenderanno più figure femminili: dopo Eleonora Duse, è la volta, nel 1904, della marchesa Alessandra Starabba di Rudinì, da Gabriele detta Nike, vedova e figlia del marchese Antonio, già ministro e presidente del Consiglio. Un ulteriore scandalo, seguito da una grave malattia di lei, abbandonata dall’irata famiglia e sorretta dall’amore di lui. Nell’estate del 1905, Alessandra si trovò infatti in pericolo di vita, affrontando tre gravose operazioni e salvandosi miracolosamente. Mesi tempestosi, tra la casa di cura in via Bolognese, Villa Natalia, e la Capponcina, registrati nelle molte confidenziali missive ad Emilio Treves, nel Solus ad solam e nella favilla datata a Firenze tra il maggio e l’agosto 1905, Dell’amore e della morte e del miracolo, apparsa sul «Corriere della Sera» del 30 luglio 1911 e rifluita nel Compagno.
La relazione con Alessandra comportò anche un esponenziale aumento delle spese per servitori, cani e cavalli e si chiuse su un addio consumato tra fine 1906 e inizi 1907 con la sistemazione a Roma di Alessandra, che nel 1911 si ritirò in un convento francese di carmelitane.
Incalzato dai creditori, d’Annunzio, dopo l’estate del 1906 alla Versiliana (cfr. D’Annunzio tra Pisa e la Versilia), si rifugiò dalla Capponcina a Firenze, tra l’altro a lungo ospite in via Masaccio 101 dello scultore Clemente Origo, che si divideva tra Firenze e la sua ospitale casa del Secco Motrone in Versilia e a cui Gabriele era fortemente legato tanto da eleggerlo nel 1907 a suo esecutore testamentario (ma Origo morì nel 1921). Il gruppo scultoreo in bronzo della Morte del cervo nacque su ispirazione e omaggio all’omonima lirica alcionica e la sua fusione in una notte di aprile del 1907 sotto la collina di Bellosguardo nella fonderia del pistoiese Gusmano Vignali, presente d’Annunzio, ci è restituita da un inedito diario del marchese Origo e da d’Annunzio in un taccuino (XLVIII) e in una prosa, La resurrezione del centauro, apparsa sul «Corriere della Sera» il 21 aprile 1907 e poi accolta nel Compagno.
Pur tra l’assillo dei debiti, nascono altri amori e, in particolare, quello per Giuseppina Giorgi Mancini, conosciuta a Roma nel marzo 1906, incontrata nel giugno a Milano e protagonista sullo scenario fiorentino del «grande dono» da lui sempre ricordato sotto la data 11 febbraio 1907. È lei la Giusini e Amaranta del postumo Solus ad solam, che, perseguitata da remore morali e religiose, nel settembre 1908 sarà portata fuori scena da una crisi di follia e sostituita da una contessa russa, Nathalie de Goloubeff (alias Donatella Cross).
Ma insieme agli amori, la lunga stagione fiorentina, intercalata dai soggiorni marini, vede un’esplosione creativa, tra prosa (Il fuoco e il Forse che sì forse che no), lirica (le Laudi) e teatro, segnato dal “patto artistico” con Eleonora Duse. I versi di Alcyone privilegiano non la Firenze urbana ma quella collinare, ripresa anche nella lunga digressione di Maia e di cui tornerà la nostalgica rimembranza nelle pagine autobiografiche del Proemio alla Vita di Cola di Rienzo:

Sere d’ottobre tra l’Affrico e la Mensola, tra il pian di San Salvi e il poggio di Maiano, tra Rocca Tedalda e le Gualchiere di Girone, tra Montereggi e la fonte de’ Tre Visi […] Sere d’autunno tra il Monte Ceceri e il Poggio a’ Pini, tra Mugnone e Zambra, quando sopra Borgunto a un tratto s’allargava una nuvola turchina […] (d’Annunzio 2005, II, pp. 1996-1999),dramatis personae.

dove l’evocatoria puntualità toponomastica apre alla lirica rievocazione di un paesaggio introiettato e spiritualizzato, in cui si è lasciato qualcosa di sé stessi: «io so come quella fosse la via misteriosa che mi conduceva non a Coverciano né a Poggio Gherardo ma nell’intimo di me stesso, nella mia più remota solitudine» (ivi, p. 1997).
Giovanni Papini, classe 1881, figura esemplare dell’estraneità e insofferenza verso d’Annunzio maturata dalla generazione di intellettuali fiorentini nati tra il 1879 e il 1884 (Nozzoli 1999), ricorda un d’Annunzio che scendeva a cavallo da Settignano, la mattina presto, per andare a trovare l’amico pittore preraffaellita Adolfo De Carolis nella sua casa di via Mannelli. Nasceva infatti con la Francesca da Rimini (1901) la lunga collaborazione tra d’Annunzio e De Carolis, non solo per l’illustrazione delle sue opere ma anche per le scenografie teatrali e perfino con i bozzetti da lui stesi per i quattro francobolli a celebrazione nel 1920 dell’impresa di Fiume. Fu De Carolis a parlare al poeta di una rivista che appariva con una sua incisione nella testata, «Leonardo» di Papini e Prezzolini: d’Annunzio, vistone il primo numero del 4 gennaio 1903, inviò un abbonamento sostenitore di cento lire, e una lirica inedita, Anniversario orfico, apparsa nel secondo numero della rivista e poi compresa in Alcyone.
L’incontro diretto fra Papini, troppo orgoglioso per una visita dal sapore di omaggio alla Capponcina, e l’ultraquarantenne d’Annunzio avvenne invece nello studio dello scultore Domenico Trentacoste, in quel Palazzo dei pittori di viale Milton, lungo il Mugnone, che rimanda anche al terzo atto della dannunziana tragedia La Gioconda. Siamo davanti al primo Cristo morto di Trentacoste, che d’Annunzio descrisse, insieme al secondo Cristo di Trentacoste, nel Gesù deposto apparso, attingendo ai taccuini (XLVI e LI), sul «Corriere della Sera» del 10 settembre 1911 e inserito poi nel Venturiero senza ventura. Netta è nel racconto di Papini, pur non ancora tocco dalla conversione, la presa di distanza dall’approccio estetizzante di «un omino con un pizzettino a punta» che davanti a un pubblico estasiato commenta l’opera in modo quanto mai forbito e fiorito.
Gli incontri fra i due tuttavia continuarono: alla Società Leonardo, alla libreria Bocca di Via Cerretani, in casa di amici comuni, fino all’ultima volta, in una notte dell’inverno 1906, a un tavolino del caffè Gambrinus, dopo la rappresentazione alla Pergola del Più che l’amore. Nonostante le migliori accoglienze del pubblico fiorentino registrate dai giornali dell’epoca rispetto ai clamorosi fiaschi di Roma e Napoli, Papini ci descrive un d’Annunzio solitario e sconfitto, per cui trovò parole di conforto, persuaso com’era che il dramma fosse comunque un ardito tentativo, al di fuori dell’avvilente teatro borghese, di proporre «un problema più nuovo del solito triangolo adultero» (Papini 1948, pp. 144-150).
A chiudere questa lunga stagione fiorentina sopravvennero i troppi debiti che causarono, insieme al cosiddetto esilio francese, anche la messa all’asta degli arredi della Capponcina, consumata nel giugno 1911: «riprovevole spettacolo» della violazione e profanazione di una dimora leggendaria, contrassegnata dal motto «noli me tangere», come ebbe poi a dire Palazzeschi. Ma già nei versi di Al fuoruscito Aedo del futurista Paolo Buzzi si deprecava una Patria ingrata che non gli aveva lasciato «i suoi fiori / e le sue stanze donde si vede la città di Dante / e i suoi gingilli […] i suoi ippocampi / ch’egli sapeva spronar dalle pinete nel mare!».

 

Bibliografia essenziale

Bibliografia primaria

Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, II, ed. diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I e II, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, con la collab. di Katia Berardi e Barbara Di Serio, Milano, Garzanti, 1999.
Interviste a d’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, con la collab. di Maria Paolucci, Lanciano, Carabba, 2002.
Gabriele d’Annunzio, Carteggio con Benigno Palmerio, Torino, Aragno, 2003.

 

Bibliografia secondaria

Paolo Buzzi, Versi liberi, Milano, Treves, 1913.
Benigno Palmerio, Con d’Annunzio alla Capponcina (1898-1910), Firenze, Vallecchi, 1938, poi, a cura di Marco Marchi, ivi, 1995 e Firenze, Le Lettere, 2009.
Giovanni Papini, Passato remoto (1885-1914), Firenze, L’Arco, 1948.
Guglielmo Gatti, Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1956.
Bernard Berenson, Pagine di diario. Letteratura – Storia – Politica. 1942-1956, Milano, Electa, 1959.
Aldo Palazzeschi, Il piacere della memoria, Milano, Mondadori, 1964.
Paolo Alatri, Gabriele d’Annunzio, Torino, UTET, 1983.
D’Annunzio e la scoperta della Versilia, Catalogo della mostra Marina di Pietrasanta 27 maggio-5 settembre 1999, a cura di Annamaria Andreoli, Firenze, Maschietto e Musolino, 1999 (con interventi di Cesare Garboli, Annamaria Andreoli, Carlo Cresti, Rossana Bossaglia, Umberto Sereni).
Terre, città e paesi nella vita e nell’arte di Gabriele d’Annunzio, II-III, La Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria e la Francia, a cura di Silvia Capecchi, XXIV Convegno internazionale Firenze-Pisa, 7-10 maggio 1997, Pescara, Ediars, 1999 (con, in particolare, gli interventi su Firenze di Giorgio Luti, Marco Marchi, Giuseppe Nicoletti, Anna Nozzoli, Silvia Capecchi).

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