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Alighieri, Dante

di Pietro Gibellini, Enciclopedia dannunziana

 

Echi della Commedia

Dalle rive dell’Adriatico a quelle del Garda, Gabriele d’Annunzio dialogò sempre con Dante, di cui si sentiva degno discepolo, pensando di essere anzi l’unico capace di superare il maestro. Lo scrisse in un appunto destinato al secondo incompiuto tomo del Libro segreto: «Dov’è la poesia nella letteratura d’Italia? Nei primitivi, in certe notazioni in margine delle carte notarili — ma Ariosto, Tasso, tutto il resto! E Manzoni? E Leopardi? La poesia italiana comincia con 200 versi di Dante e — dopo un lungo intervallo — continua in me». La modestia, si sa, non era tra le virtù di d’Annunzio. A memoria, però, d’Annunzio sapeva ben più dei duecento versi di Dante ai quali riconosce, bontà sua, il dono della poesia. 

Se tra i poeti latini echeggiati da d’Annunzio Ovidio precede con discreto vantaggio Virgilio e Orazio, la distanza tra il più citato dei poeti italiani, l’Alighieri, e gli altri è davvero abissale: per limitarci al suo capolavoro lirico, Alcyone, le espressioni tratte dalla Commedia, riprese tali e quali o di poco variate, si avvicinano alla cifra di quattrocento, come segnalato da Giulia Belletti, Sara Campardo ed Enrica Gambin nel commento all’edizione critica di Alcyone del 2018. Talvolta si tratta perlopiù di menzioni d’omaggio cui mancano solo le virgolette, presenti però in Beatitudine, che inizia proprio citando una canzone della Vita nova: «“Color di perla quasi informa, quale / conviene a donna aver, non fuor misura”. / Non è, Dante, tua donna che in figura / della rorida Sera a noi discende?». La Sera, qui personificata con la maiuscola come nella lirica alcionia di cui è protagonista (La Sera fiesolana), è paragonata a Beatrice, la Beata beatrix cara ai preraffaelliti e dipinta da Dante Gabriel Rossetti, il pittore-poeta celebrato da d’Annunzio in una lirica della Chimera. In un certo senso la struttura di Alcyone ricalca quella della Vita nova, una cui espressione caratteristica, «volontà di dire», traspare sulle labbra silenziose della Sera per renderle «belle / oltre ogni uman desire». Protagonista della raccolta dannunziana, che l’autore chiamava «poema» per sottolinearne la struttura anche narrativa, non è però l’angelica Beatrice né la delicata incarnazione femminile della Sera fiesolana che se ne va con la primavera lasciandoci con le gocce di pioggia il suo «commiato lacrimoso», ma l’«Estate ignuda», la «grande Estate / selvaggia, / libidinosa, / vertiginosa». Il libro di Alcyone, come il prosimetro dantesco, racconta il suo apparire, la sua pienezza, la sua morte preannunciata da malinconici Indizi, promossi a titolo della poesia dedicata a quel tema. E che il libro prenda una direzione diversa da quella della poesia stilnovista inizialmente imboccata, d’Annunzio ce lo ricorda nell’incipit del componimento Furit aestus, che introduce il Ditirambo sull’Estate che «infuria gli estri» e che riprende, per vararlo radicalmente, il sintagma cromatico della Vita nova già ripreso in Beatitudine: «Un falco stride nel color di perla».

Torniamo ai calchi dalla Commedia. Un numero così alto di parole ed espressioni prelevate dal poema e trapiantate in nuovi contesti mostra che se Dante ha succhiato la lingua con il latte materno, d’Annunzio il suo linguaggio poetico l’ha formato bevendo l’inchiostro di Dante, e perfezionandolo al collegio Cicognini di Prato — dove i compagni avevano deriso la sua pronuncia abruzzese — fino a farsi più toscano dei toscani. Il poema sacro, sedimentato nella memoria del ragazzo, d’Annunzio lo sfoglia anche da vecchio, come mostra l’esemplare del poema a cura di Giovanni Andrea Scartazzini, da lui posseduto nella stampa del 1907 e coperto di postille. Il Dante che affiora nei versi dannunziani è spesso un Dante lessicalizzato, per dirla con i linguisti. Spesso sì, ma non sempre: talvolta lo scrittore, maestro del remake, colloca il prestito dantesco nel contesto giusto, in un clima emotivo o cioè analogo a quello della fonte: ne cito due esempi, uno per il Purgatorio e l’altro per l’Inferno. Nella lirica meritatamente celebre, I pastori, il poeta colloca due echi danteschi del Purgatorio («O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della marina! […] Senza mutamento è l’aria») poiché i pastori che lasciano i loro monti nella transumanza, «cuori esuli», sentono la nostalgia che caratterizza le anime purganti: il desiderio di ritornare alla loro patria dell’anima, i monti d’Abruzzo per gli uni, alla casa del Signore gli altri. Centrato è anche il recupero dantesco del folgorante inizio del Notturno, quando il poeta si trova nella condizione di un dannato, immerso nel buio totale, steso e bendato per impedire che l’occhio superstite diventi cieco come l’altro, dopo l’incidente aviatorio del 1916: «La stanza è muta d’ogni luce», scrive imitando la sinestesia dell’Inferno nel canto V: «Io venni in loco d’ogni luce muto». Il vocabolario dantesco colora intensamente il linguaggio dannunziano al pari dello stile: entrambi gli autori hanno una forte spinta sperimentale, segno di una comune fame di vita e sete di realtà; ma mentre in Dante questa spinta si manifesta nei modi che, dopo Gianfranco Contini, si è soliti definire con le formule di espressionismo e plurilingusrno, lo stile dannunziano batte una via monolinguistica, versando un lessico ricercato in una sintassi sciolta, fatta di brevi frasi coordinate. 

 

Dantes adriacus (1921), xilografia di Adolfo de Carolis (1874-1928).





Dantes adriacus (1921), xilografia di Adolfo de Carolis (1874-1928).

 

 

 

 

 

 

 

Dante nella Francesca da Rimini

L’opera in cui d’Annunzio si confronta più strettamente con il poema dantesco è la Francesca da Rimini. La tragedia verte sul personaggio immortalato nel quinto canto dell’Inferno: il verso «Noi che tingemmo il mondo di sanguigno» funge da esergo, e il sonetto Ai fedeli d’amore tratto dalla Vita nova precede il testo della tragedia, preludio sulle note dell’amor cortese che segnerà il destino dei due amanti. Per dare all’opera il giusto colore del tempo, d’Annunzio si documentò molto sulla storia della Romagna medievale, anche se le fonti principali sulla commovente vicenda degli amanti trucidati restano l’Alighieri e il Boccaccio dantista. Il personaggio aveva già conosciuto una certa fortuna scenica, specie con la tragedia di Silvio Pellico, ma d’Annunzio crea una figura originale, conferendole la profonda malinconia di chi si sente sempre in un imprecisato altrove. Anche questa tragedia, come il resto del teatro dannunziano, è da leggere più che da vedere: infatti la sfarzosa scenografia e l’arte della `divina’ Eleonora Duse non riuscirono a riscuotere successo. Ma staccato dalla rappresentazione e sfrondato da certi sfoggi di lingua arcaica, il testo riesce persuasivo e toccante. Il vero personaggio infernale creato da d’Annunzio è il feroce Malatestino, mentre la sognatrice innamorata viene definitivamente liberata dalla taccia di sgualdrina con cui fu lungamente bollata dai moralisti, e viene ora consacrata come vittima di barbaro femminicidio: una delle tante che s’incontrano nelle novelle, da Boccaccio a Bandello, quando il trattamento riservato alle adultere non era lontano da quello praticato oggi dai talebani. 

 

 

Tre xilografie di Adolfo de Carolis dalla princeps di Francesca da Rimini scansionate dall’esemplare della Biblioteca Queriniana di Brescia (coll. 4.C.74)

 

Dante in Elettra

La Francesca fu composta nel 1901; l’anno prima d’Annunzio aveva inaugurato la Lectura Dantis fiorentina con un successo che fece soffrire Pascoli, dantista tanto più originale di lui. In quell’occasione declamò la sua laude A Dante, una lunga poesia retorica poi inclusa in Elettra, il libro che contiene le «Laudi degli Eroi», intesi nel senso che al termine conferiva Thomas Carlyle nel suo saggio, posseduto da d’Annunzio nella traduzione francese (Les Héros, Paris, 1888): campioni del coraggio guerresco, ma anche del pensiero, della scrittura, della musica, e delle arti figurative. Quell’ode, però, non è posta tra le poesie che celebrano gli scrittori e gli artisti ma all’inizio del libro, subito dopo la poesia di dedica Alle montagne, ispirata dallo Zarathustra di Nietzsche, e prima delle laudi dei patrioti. Dante infatti vi è celebrato come una gigantesca rupe ferma dinanzi all’oceano fluttuante dei destini umani, come padre della lingua e profeta della gloria dell’Italia, la «nazione eletta» cui è dedicato il Canto augurale che chiude la raccolta. La poesia, intitolata e indirizzata A Dante, presenta una studiata architettura numerologica che vorrebbe evocare quella del poema: qui undici strofe di undici versi: là tre cantiche di trentatré canti in terzine: ed è evidente che puntando unicamente sull’undici il poeta lascia cadere l’implicazione trinitaria della forma dantesca. Nei suoi 121 versi d’Annunzio celebra Dante, ma nell’esaltarlo lo deforma e mutila. Politicamente, il suo Dante è figlio di un’unica patria, quella del tricolore, non delle tre cui l’Alighieri sentiva di appartenere: Firenze, l’Italia e l’Impero cristiano. Quanto all’ispirazione morale del capolavoro, Gabriele la riduce sostanzialmente all’«alta […J vendetta» dello sdegnato Dante. Manca poi ogni prospettiva teologica: il moto verticale di discesa all’inferno e di ascesa al paradiso, è sostituito dal piano orizzontale dell’oceano, perennemente agitato dai flutti. A scanso di equivoci, rivolgendosi al poeta-profeta, d’Annunzio scrive due volte: «il tuo Dio». In definitiva, il Vate della terza Italia eredita il mito risorgimentale di Dante profeta della «stirpe» e lo coniuga con l’Ubermensch di Nietzsche, il «distruttore» delle idee accette pure celebrato in Elettra. Il superuomo posto «al di là del bene e del male» costituisce addirittura il modello per dipingere in versi la figura di Cristo in un’altra ode di Elettra, il Canto per la morte di un capolavoro, scritta per l’inesorabile degrado della Cena di Leonardo: il suo Gesù non è Dio fatto uomo, ma un grande uomo divinizzato. Altri sono gli idoli adorati da d’Annunzio: la bellezza, la patria, se stesso. 

Oltre che nella laude a lui dedicata, Dante fa capolino in gran parte dei versi di Elettra, specie in quelli in morte di Giuseppe Verdi dove la sua ombra, assieme a quella del Vinci e del Buonarroti, veglia il musicista che «pianse ed amò per tutti», e risulta insomma fiume carsico che collega ideologicamente i vari testi del libro volto a celebrare gli Eroi. Vi scorre l’acqua torbida della retorica, non quella limpida della poesia, con qualche eccezione, come nei suggestivi versi su Ravenna, nelle Città del silenzio.

 

Dante 1911

Il mito risorgimentale è alla base della lussuosa edizione della Commedia che Olschki pubblicò nel 1911 per il cinquantenario dell’unità d’Italia, con il testo curato da Giuseppe Lando Passerini e una prefazione di d’Annunzio, poi rifusa nelle Faville del maglio con il titolo Dante, gli stampatori, il bestiaio. Prefazione da scrittore, non da studioso, ché anzi vi si avverte il fastidio per i chiosatori eruditi e l’ammirazione per il rude mandriano, il «bestiaio», che gli leggeva ad alta voce i versi dell’Inferno di Dante trascritti su quaderni gualciti trasmessi dai suoi avi, coglieva lo spirito del Paradiso, pur senza conoscere la terza cantica, grazie al «puro sentimento», senza bisogno di chiose che chiarissero le «oscurità» del testo, «prendendo gioia dal trillo dell’allodola e dalla terza rima». In questa preferenza per l’Inferno e nella rimozione del Paradiso si avverte l’eco della perdurante posizione desanctisiana, che esaltava la prima cantica e svalutava la terza, assieme alla visione laica ed estetizzante di d’Annunzio: per lui il paradiso è tutto nell’aldiquà, nella bellezza della natura e dell’arte. 

Nel suo fastidio per i commenti eruditi, d’Annunzio riflette le idee del suo petit-maître degli anni romani e amico di quelli veneziani, Angelo Conti, che chiedeva ai critici d’arte di cogliere l’idealità della bellezza e snobbava le ricerche documentarie di Giovan Battista Cavalcaselle. Quella espressa da Conti nel suo trattato La beata riva, pubblicato nel 1900 con prefazione di d’Annunzio, è una posizione antipositivistica e in certo senso pre-crociana, anche se Croce liquiderà l’estetica di Conti come viziata da sensibilità impressionistica e scarsa di razionalità. 

 

Da Fiume al Libro segreto

Intriso di estetismo d’Annunzio sorride, nel Libro Segreto, del dantista-teologo grigionese Giovanni Andrea Scartazzini chiamando «scolastico» il suo commento e deformando monellescamente il suo nome in «Scarto Scartazzini». Eppure piace pensare che dal contatto con il poema dantesco sia nata l’idea della feroce Pasquinata che d’Annunzio scrisse contro Hitler, i cui primi abbozzi figurano proprio annotati sulle pagine del suo esemplare della Commedia sopra ricordato: nella Pasquinata del 1933-1934 il poeta di Gardone dileggia l’invasato Führer, crede ridicole le sue minacce e ricorda il suo passato di imbianchino. Lo prende insomma sottogamba, cosa poco concepibile se quei versi fossero stati stesi, come si credeva, nel 1938. A suo modo dantesca è l’irrisione riservata al tiranno, che grazie al sarcasmo trasforma in riso lo sdegno. Quell’abbozzo dovette scriverlo nei soprassalti notturni nei quali, come ci informa lui stesso, l’eremita del Vittoriale annotava con un lapis durante il dormiveglia i guizzi dell’ispirazione improvvisa sul libro che teneva sul capezzale. 

Alla dimora gardonese il Comandante era giugno nel 1921, reduce dall’impresa fiumana, alla quale aveva associato l’immagine di Dante, incisa da Adolfo de Carolis per onorare il sesto centenario dantesco, chiedendo all’amico xilografo di aggiungere la dicitura «Dantes adriacus» e facendo così dell’Alghieri l’icona della patria irredenta. In quel tempio dell’italianità e libro fatto di pietre e arredi che è il Vittoriale, d’Annunzio collocò, al centro della biblioteca nella sala maggiore, una sorta di altare dantesco al cui centro campeggia, appunto, l’incisione del De Carolis. Ma oltre che profeta dell’Italia, Dante continuava a essere per Gabriele lo squisito poeta d’amore, sicché l’incipit della canzone «Tre donne intorno al cor mi son venute» poteva offrirsi come decoro per una stanza della sua dimora. 

Agli anni Trenta risale la maggior parte degli appunti riuniti nell’ultima opera davvero interessante pubblicata da d’Annunzio, il già ricordato Libro segreto (1935). Lì il vecchio poeta menziona Dante varie volte, ad esempio quando, recuperando due quartine stese nel cuore della notte sul primo volume a portata di mano, esalta la propria capacità di chiudervi «quello ‘incognito indistinto’ che è il fiato segreto della poesia: un incognito indistinto che la sublime inconsapevolezza di Dante diede alla ‘soavità di mille odori’ mentre significa in due termini, quasi in sigla religiosa di intuizione eterna, la più nascosta essenza della poesia». Quel sintagma, tratto da Purgatorio, torna anche altrove nel Segreto a designare l’inesprimibile. 

La pagina più interessante è però quella dove presenta il sommo poeta come un suo sosia, simile a lui nelle vicissitudini, nelle passioni e nei vizi: «Dante della Cavallata, Dante priore, Dante proscritto, Dante bilioso libidinoso rabbioso imperioso vendicativo feroce crudele: Dante accoppiato alla Gentucca e alla Pietra su l’origliere di Beatrice: Dante violento contro natura che osa svergognare Brunetto maestro incomparabile: infine Dante morituro che trasfonde la sua ombra all’ombra della pineta di Ravenna e del suo sale insala il lito di Chiassi, la mia riva adriatica. Certo egli consente se il terzo de’ suoi figli battezzato fu Gabriele degli Alighieri». Dante, insomma, si fa un padre e sosia dell’autore: come Gabriele, anche lui fu poeta-soldato, comandante, esule, dongiovanni… 

Se allora d’Annunzio si sentiva emulo e degno erede di Dante, ora Dante gli appare il precursore e il profeta del grande d’Annunzio.

 

Bibliografia essenziale

Gabriele d’Annunzio, Alcyone,  a cura di Pietro Gibellini, con commento di Giulia Belletti, Sara Campardo, Enrica Gambin, e scheda metrica di Gianfranca Lavezzi, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani, 2018, co-ed. Marsilio-Edizione Nazionale.

Gabriele d’Annunzio, Elettra, edizione critica a cura di Sara Campardo, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani, 2017.

Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, edizione critica a cura di Elena Valentina Maiolini, , Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani, 2021

Gabriele d’Annunzio, Libro segreto, a cura di Pietro Gibellini, Milano, BUR, 2013.

Salvatore Comes, Capitoli dannunziani, Milano, Arnoldo Mondadori, 1967.

Laura Melosi, D’Annunzio e l’edizione 1911 della «Commedia», Firenze, Olschki, 2019.

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