di Simona Costa Enciclopedia dannunziana
Quando Gabriele, accompagnato dal padre Francesco Paolo, arrivò il 1° novembre 1874 al Regio Convitto Cicognini di Prato, aveva undici anni. Vi resterà fino ai diciotto, trascorrendo spesso a Prato e nelle sue vicinanze anche feste e vacanze: in collina nella Villa della Sacca, dipendenza estiva del collegio, e, ospite di amici fiorentini del padre, tra Corso de’ Tintori e una villa di Castello. Raccomandatario fiorentino del collegiale fu infatti in prima istanza il colonnello in pensione Francesco Coccolini, padre di un ufficiale d’artiglieria, Filippo, e di una bella figlia Clemenza, somigliante a Maria Walewska e destinata a suscitare un’occulta passione nel giovanissimo Gabriele in fase di identificazione con Napoleone, ma anche, lui racconterà, a deluderlo fidanzandosi, in napoleonica suggestione, con un luogotenente di artiglieria.
In casa Coccolini fu anche l’incontro, datato a una vigilia di Natale, con una figura di pedante linguaiolo, addetto alla segreteria di Palazzo Vecchio ma aspirante a un qualche impiego all’Accademia della Crusca: messer Prosone, come lui ironicamente lo ribattezzò (identificato da Fatini nell’erudito Gargano Gargani), ma a cui dirà in una prosa di favilla del Secondo amante di Lucrezia Buti (La penna dell’agnolo Gabriello) di dovere l’inizio della propria maestria linguistica.
All’agosto 1878 è datato il rientro a Pescara per prepararsi al salto della Quinta Ginnasio presso il Ginnasio-Liceo di Chieti. Al suo ritorno col padre nel novembre a Prato, la sosta a Bologna con l’acquisto delle carducciane Odi barbare con prefazione di Giuseppe Chiarini avviò la sua vocazione lirica. Presso la tipografia Giachetti di Prato, per il compleanno di Umberto I (14 marzo 1879) uscì, a spese del padre Francesco, un opuscolo augurale di due amici collegiali: sei ottave dell’elbano Vittorio Garbaglia (Vittorio, l’Elbano di Marciana del Compagno dagli occhi senza cigli, con cui condividere il culto napoleonico) e tredici strofe saffiche di Gabriele d’Annunzio.
Nel gennaio 1880 il Direttore del Cicognini, Flaminio Del Seppia, informava il Consiglio Direttivo del Collegio di aver ricevuto dal convittore Gabriele d’Annunzio un suo volume di versi: è Primo vere, stampato nel dicembre dalla tipografia Ricci di Chieti, sempre a spese paterne. Il Direttore si dichiarava preoccupato per le tematiche, pur di maniera, affrontate dal sedicenne poeta, e in particolare per il registro erotico; trattandosi di giovane molto studioso, ricco d’ingegno e di buona condotta, il Consiglio deliberava tuttavia di limitarsi a invigilare e ammonire. Ma a decretarlo «un nuovo poeta» fu il 2 maggio 1880, sul «Fanfulla della Domenica», l’accreditato critico e poeta Giuseppe Chiarini, amico di Carducci che proprio tramite lui doveva conoscere i giovanili versi dannunziani.
A stampare una nuova raccolta lirica per la morte della nonna paterna, In memoriam, fu, nel maggio 1880, il tipografo Niccolai di Pistoia, dove lavorava come proto Luigi Giusfredi, padre di Pio Giusfredi, Istitutore e poi Prefetto del Cicognini, a cui Gabriele era legato, come dimostra il regalo fattogli nel 1876 di una sua foto in divisa da collegiale e il sonetto dedicatogli per le sue nozze. Le sei lettere di Gabriele a Luigi Giusfredi – edite da Fatini – dimostrano l’attenzione e la cura con cui il giovane poeta seguì la stampa, dalla copertina ai fregi interni, del nuovo volume, stavolta però stroncato il 24 ottobre 1880 sul «Fanfulla della Domenica» da un articolo non firmato di Chiarini e destinato quindi all’accantonamento, al pari dell’Ode a Umberto I.
Conferma alla paternità della stroncatura dovette venire dal fiorentino Guido Biagi, dedicatario anche di un sonetto di Primo vere (Alba d’estate) e ricordato fin nel Libro segreto quale maestro di filologia per lui che, pur non riconosciuto, sgobba e seguita a «sgobbare come nel collegio della Cicogna […] a prendere titolo di filologo (d’Annunzio 2005, I, p. 1775). E molto ci dice delle relazioni del collegiale questa amicizia con Biagi, che si imporrà nella cultura italiana come eclettica figura di filologo, scrittore, giornalista, attivissimo bibliotecario e direttore editoriale presso Sansoni, accanto a Carducci.
Il 14 novembre 1880 uscì dall’editore Rocco Carabba di Lanciano la seconda edizione «corretta con penna e fuoco ed aumentata» di Primo vere; Gabriele, ancora non tornato quell’anno in collegio, era a Pescara, a festeggiare l’uscita del volume. Ma a Prato parrebbe non dover far più ritorno: al Collegio rimbalzava dai giornali la luttuosa notizia della sua morte improvvisa per una caduta da cavallo. Mentre si pensava a rendere omaggio alla sua memoria, arriva una smentita e il ripresentarsi dell’accorto pubblicitario della propria opera. Necrologie e antinecrologie (famose quelle di Uriel, ovvero Ugo Fleres, sul «Capitan Fracassa» del 22 e 27 novembre) hanno infatti contribuito alla campagna promozionale.
Dopo la licenza d’onore Gabriele lasciò il Collegio il 1° luglio 1881; il 27 giugno aveva scritto, anticipandogli la sua uscita «di galera» e la sua partenza per Pescara, a Ferdinando Martini, anche lui ricordato poi nel Libro segreto come depositario della propria intatta immagine di giovanissimo novellatore, alunno del collegio pratese (d’Annunzio 2005, I, p. 1753). Martini aveva infatti aperto al promettente giovinetto le porte del «Fanfulla della Domenica», a cominciare dal suo primo bozzetto abruzzese, Cincinnato (12 dicembre 1880). Mediatore fra i due era stato Guido Biagi, vero scopritore di talenti, se a lui (e alle sue insistenze verso il renitente Carlo Lorenzini) si deve la pubblicazione a puntate fra il 1881 e il 1883 sul «Giornale per i bambini», diretto sempre da Martini, della Storia di un burattino.
A Firenze Gabriele lasciava però un amore con cui intratterrà una copiosa corrispondenza: Giselda/Elda, figlia del suo insegnante di lingue Tito Zucconi e che sotto il nome di Lalla sarà la dedicataria di Canto novo (1882). Lo scrittore ormai famoso si sottrarrà nel tempo agli iterati inviti delle autorità del Collegio e a Prato farà ritorno, ma fuggevolmente, per accompagnare a sua volta al Cicognini nell’ottobre 1895 il figlio Mario, poi seguito nel 1900 dal fratello Gabriellino, entrambi svogliati studenti, fra esami di riparazione e bocciature. Di visite del poeta ai figli riferisce il Rettore del Cicognini, Paolo Giorgi, in una lettera del 1916 a Tomaso Fracassini, che a sua volta si sofferma a descrivere una visita dannunziana del 1902, pur anch’essa fugace, in cui Gabriele si intrattenne al pianoforte con il suo maestro di musica Attilio Ciardi e andò a visitare il suo anziano maestro di pittura Alessandro Ferrarini (Fracassini 1935, pp. 51-52), che aveva contribuito a sviluppare le attitudini del ragazzo, autore di disegni nonché di quadretti a olio.
Musica e pittura sono del resto ricordate fra le sue predilezioni collegiali in una lettera al suo traduttore francese, Georges Hérelle, in data 14 novembre 1892, in cui traccia le linee della propria biografia, non senza ritocchi, come per data e luogo di nascita (1864, sul brigantino Irene nell’Adriatico). Riaffiorano nella lettera i disegni da lui fatti delle «teste argute e irregolari di Fra Filippo Lippi», assistendo Ferrarini nel suo lavoro di copia di un affresco del Lippi nel Duomo di Prato (in cui Lippi eseguì il ciclo di affreschi delle Storie di Santo Stefano e San Giovanni Battista), e l’incantesimo sprigionato nell’intero collegio dal suo continuo suonare, su tutti i pianoforti a disposizione, un’aria «soave e un poco malinconica», un Andantino del seicentesco Michelangelo Rossi.
Prato, se non nella sua vita, tornerà però distesamente e a più riprese nella sua opera. Sempre nella citata lettera a Hérelle la ricorda come «una città industre e un poco triste, illuminata dal cielo meno che da un pulpito marmoreo scolpito in bassorilievo divinamente dal divino Donatello»: meravigliosa immagine rimastagli più di ogni altra impressa di quel periodo della sua vita e che riappare in uno dei quattordici sonetti dedicati alla città e pubblicati sulla «Nuova Antologia» il 1° dicembre 1902, che gli valsero la cittadinanza onoraria e rifluirono nelle Città del silenzio di Elettra, occupando spazio preponderante tra le altre città.
Ma più che una memoria adolescenziale, pur presente già nel primo sonetto ove si cita «la figliuola di Francesco Buti», la ghirlanda di sonetti pratesi vuol essere un omaggio alla «chiusa città», «ingigliata figlia di Fiorenza», di cui il fanciullo ha respirato le glorie e le memorie artistiche e storiche: Michelozzo e Donatello; Agnolo Gaddi e Bruno Mazzei; Filippo Lippi e il figlio Filippino; Giuliano da Sangallo; il maestro di Petrarca, Convenevole da Prato; il mercante Francesco Datini, amico dei fiorentini Guido del Palagio e Lapo Mazzei; Agnolo Firenzuola; la villa di sant’Anna, dilettevole e studioso rifugio della cerchia intorno allo storico e umanista fiorentino Bernardo Segni. Ma la perdita della libertà, segnata dalla morte a Gavinana di Francesco Ferrucci, dalla vana uccisione del duca Alessandro per mano del nuovo Bruto, Lorenzaccio, e dal dileggio popolare verso Filippo Strozzi fatto prigioniero a Montemurlo, sarà solo riscattata dall’apparizione di Garibaldi che, dopo la sconfitta romana del 1849, valicato l’Appenino trovò ospitalità al Molino di Cerbaia presso Vaiano, per esser quindi condotto da Prato fin in Maremma ove prendere il mare.
Se nel Solus ad solam, alla data del 15 settembre 1908, tornerà la citazione, ripresa dal quattordicesimo sonetto, della «città della mia chiusa adolescenza» e l’immagine del pergamo di Michelozzo e Donatello, Prato dominerà nella prosa di favilla del Compagno dagli occhi senza cigli, originariamente la «favilla di Dario», edita in sei puntate sul «Corriere della Sera» tra il dicembre 1912 e il febbraio 1913, incompiuta e conclusa per la pubblicazione nel 1928 nel secondo volume delle Faville. Ancora Prato torna in primo piano, allusa già dal titolo, in altra prosa di favilla, che, su slittamento dei piani geografici e temporali, trascorre dal Casentino alle memorie infantili e adolescenziali di Pescara e Prato e a Ferrara: Il secondo amante di Lucrezia Buti, scritto di getto nel 1924 e raccolto, sempre nel 1924, nel primo tomo delle Faville del maglio: Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile.
Il compagno prende avvio dalla visita allo scrittore impegnato nella stesura del Fuoco di un grande amico dei tempi del Cicognini: Dario, connotato sin dal titolo da una particolarità fisica («senza cigli») che rimanda anche al comune culto napoleonico e su cui rifluiscono probabilmente invenzione e plurime identità, a cominciare dal nome del convittore Dario Biondi. Nasce dall’incontro con l’amico di un tempo, ora degradato fisicamente e moralmente, un lungo spaccato degli anni collegiali, nel riaffiorare dei compagni e dell’invaghimento per Clemenza. In un culte du moi ascrivibile al molto frequentato Barrès, la memoria recupera nell’infanzia le premonizioni di grandezza improntate a una trasgressività di cui è esemplare il lungo racconto della fuga sui tetti del collegio, a spregio persino dell’acquazzone che mette a repentaglio la salute stessa del fanciullo ribelle.
Nel Secondo amante, cui è posta la data del 1907 – «Dopo le calende di ottobre, 1907 (La Mirabella)» –, l’indicazione della Mirabella rimanda al belvedere della villa I Palazzetti a Giovi (Arezzo) nel Casentino, dove in quell’autunno 1907 d’Annunzio era stato ospite del conte Lorenzo Mancini e della di lui moglie, la Giusini del Solus ad solam. In un andamento divagatorio, il Casentino apre alla rievocazione del proprio “intoscanimento” al Cicognini, per cui pareva che non solo avesse bevuto «a gran sorsi tutta l’acqua del Bisenzio ma pur ingollato i ciotoli». Il titolo del volume affonda del resto nei ricordi pratesi, suggerito com’è dalla vicenda di Fra Filippo Lippi e della sua amante, la monaca Lucrezia Buti, da lui più volte ritratta, a cominciare dalla pala d’altare del monastero di Santa Margherita a Prato. Fin dalla lettera del 1892 a Hérelle, d’Annunzio parlava, si è visto, del suo maestro di pittura (Ferrarini, da lui citato col nome di Ferrante) che, sulla scorta delle Vite del Vasari, gli raccontava la vita avventurosa e trasgressiva del frate, tra la cattura nell’Adriatico da parte dei pirati, la prigionia in Barberia e il rapimento della bella Lucrezia. La prorompente sensualità del frate, che non si placava se non ritraendo le donne amate, sarà nella prosa poi di favilla tramite all’immedesimazione del fanciullo nel pittore quattrocentesco, tanto da divenire di Lucrezia il secondo amante.
Ma nella mitopoiesi del Secondo amante, che nell’Edizione Nazionale del 1929 troverà propria singola collocazione, gli anni del Cicognini si arricchiscono di multiple trasgressioni che tratteggiano un collegiale geniale quanto ribelle, soprannominato del resto Burraschino dai compagni (Cappellini 1999). Resta famosa, tra le sette imputazioni a lui mosse dalla «pedagogherìa cicognina», La Bambocciata della Ciriegia di cui Gabriele è il regista, sobillando i compagni ad offrire alle ragazze incontrate per le strade pratesi ciliegie da tramutare in orecchini, collane e bracciali. Gli Archivi del Cicognini non supportano però la realtà della Bambocciata che, come gli altri episodi narrati in queste pagine, si affida, più che a un recupero memoriale a distanza di decenni, a un contesto letterario che ha il suo primo fondamentale perno nel vocabolario del Tommaseo-Bellini, da cui discende il lessico cruschevole del toscanizzato abruzzese.
Come gli episodi delle ribellioni infantili, anche la ricostruzione della storia di Prato e delle sue opere artistiche trova le sue fonti non tanto nella memoria, quanto sui libri: dal volume del 1916 di Sebastiano Nicastro conservato con dedica al Vittoriale (Sulla storia di Prato dalle origini alla metà del secolo XIX), alla voce Prato del Dizionario geografico fisico storico di Emanuele Repetti, a Prato e i suoi dintorni di Enrico Corradini, fino al volume del 1902 presente con dedica al Vittoriale, A Prato. Impressioni d’arte di Odoardo Giglioli (Cappellini 1999).
Il secondo amante si avvale del resto della riacquisita biblioteca dannunziana, salvata dagli amici nell’asta della Capponcina, ma recuperata solo nella casa di Cargnacco, dove la spedirà nel 1922 il fedele Annibale Tenneroni. Quando dalla Francia inviava al «Corriere» tra il 1912 e il 1913 la «favilla di Dario», d’Annunzio aveva dunque con sé i suoi taccuini, ma non la sua biblioteca. Di qui lo scarto tra il Compagno e il Secondo amante, laddove il primo testo non si avvale di tutta quella erudizione e di quella patina cruschevole che, ritrovata anche la sua preziosa collezione «de’ Citati», si infiltrerà pervasiva nel testo del 1924.
Bibliografia essenziale
Bibliografia primaria
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, I e II, ed. diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982-1984.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I e II, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005.
Carteggio D’Annunzio-Hérelle (1891-1931), a cura di Mario Cimini, Lanciano, Carabba, 2004.
Bibliografia secondaria
Tomaso Fracassini, Gabriele d’Annunzio convittore, Firenze, Successori B. Seeber, 1916, poi III ed. totalmente rinnovata, Roma, Casa del Libro, 1935.
Giuseppe Fatini, Il Cigno e la Cicogna. Gabriele d’Annunzio collegiale, Firenze, La Nuova Italia, 1935, poi ed. corretta e accresciuta, Pescara-Roma, Edizioni Aternine, 1959.
Guglielmo Gatti, Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1956.
Paolo Alatri, Gabriele d’Annunzio, Torino, UTET, 1983.
Piero Chiara, Prato nella vita e nell’arte di Gabriele d’Annunzio, Prato, Cassa di Risparmio e Depositi di Prato, 1985.
Milva Maria Cappellini, D’Annunzio e Prato. Documenti e lettere ritrovate, Firenze, Carlo Zella Editore, 1999.