di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana
Genesi, elaborazione, vicenda editoriale
Terza realizzazione del teatro francese di d’Annunzio, La Pisanelle ou le jeu de la rose et de la mort fu rappresentata allo «Châtelet» di Parigi il 12 giugno 1913 con titolo La Pisanelle ou la mort parfumée. L’opera, definita dall’autore ora «comedia» ora «drama», è in versi, con struttura in tre atti e un ampio prologo; l’azione si svolge nel quadro di contese religiose, politiche e mercantili presso la Cipro dei Lusignani del XIII secolo, e s’incentra sulla vicenda d’una prostituta pisana d’ammaliante bellezza scambiata per santa, di cui il giovane Lusignano s’innamora perdutamente e che morirà soffocata sotto un ammasso di rose.
Alla mise en scène, da d’Annunzio concepita quale «caleidoscopica compartecipazione» di elementi visivi e sonori (Ricco 2010, p. 258), provvide la collaborazione del trio dei Ballets Russes già esperimentata nel Martyre: Ida Rubinštejn, mecenate dell’impresa, nel ruolo di attrice protagonista e mime-danseuse, il coreografo Michail Michajlovič Fokin e lo scenografo costumista Léon Bakst; ora, però, con la regia del prestigioso Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d e la musica di un eccellente Ildebrando Pizzetti.
Centro d’uno sperimentalismo inscrivibile nel dibattito drammaturgico europeo, Pisanelle fu allestita magnis itineribus nella primavera del ’13, e si realizzò in un apparato scenografico suntuoso, «una delle più meravigliose cose», commentò «La Tribuna» (Granatella 1993, II, p. 835), che si fossero sino ad allora «vedute nei teatri parigini»: quattro giganteschi décors, uno per ogni sezione dell’opera, animati da mirabili effetti cromatico-luministici e traenti ispirazione da varie fonti figurative, dal Medioevo al Rinascimento (Santoli 2009).
Se nella sua pur libera interpretazione Bakst si sforzò di rispettare le indicazioni sceniche delle didascalie e il clima psicologico del dramma dannunziano (ivi), altrettanto non può dirsi per la regia del Mejerchol’d. In particolare, la scelta inusuale di far recitare gli attori sul fondo del palcoscenico danneggiò la comprensione del testo: al pubblico, lamentò «Le Matin», spesso era giunta soltanto «”une suite de sons inarticulés, et parfois de hurlements indistincts”» (Böhmig 1984, p. 167), il che senza dubbio fu tra le cause del «non grande» successo dell’opera («Il Giornale d’Italia», in Granatella 1993, II, p. 847). Nel seguito, eccezion fatta per una Suite dalla musica di scena ad opera del Pizzetti (1914, «Augusteo»; 1919, «San Carlo») e una rielaborazione in balletto («Opera» di Roma, 1955), Pisanelle non sarebbe più comparsa a teatro.
Quanto al testo, esso fu pubblicato in un periodo immediatamente successivo alla rappresentazione teatrale: da giugno a luglio sulla «Revue de Paris» mantenendo il titolo originario, mentre da luglio a ottobre apparve sulla «Lettura» la traduzione italiana, La Pisanella o la morte profumata, affidata al critico letterario del «Corriere della Sera» Ettore Janni. La medesima sarebbe uscita, con titolo scorciato in La Pisanella, anche presso Treves l’anno dopo; infine, meglio esplicitando la sostanza tematica, la commedia sarà ribattezzata La Pisanelle ou le jeu de la rose et de la mort dalla ne varietur dell’Edizione Nazionale (1935).
Come per altre opere del drammaturgo, oltremodo rapidi i tempi della scrittura: i soli febbraio-marzo 1913; assai lunghi, invece, quelli dell’inventio, con un accumulo di materiali documentarî più che decennale e un percorso generativo con una prima fase emergente nell’estate del 1906, quando d’Annunzio propone a Puccini di musicare La Rosa di Cipro (Guerrini 2014), sorta di canovaccio-archetipo la cui trama e struttura verranno rese pubblicamente note dall’autore sul «Corriere» subito dopo il debutto della Nave (D’Annunzio 1908).
È comunque il corso del 1912 a maturare il concretarsi della stesura: se già La Canzone dei Dardanelli (novembre 1911) portava traccia della «tragica storia di Arodafnusa», fonte sostanziale dell’atto III, sappiamo che «la prima stesura de La Rosa di Cipro […] reca la data del 10 luglio 1912» (Lavagnini 1942, pp. 155-156), e che alla fine di dicembre appare compiuto il passaggio del titolo La Rosa a Pisanella (Di Tizio 2005).
La via è dunque ormai spianata: il 10 febbraio 1913 risulterà composto il III atto, probabilmente seguito dal Prologo; il 7 marzo risulta compiuto anche il I, mentre il II è ancora in progress (Antongini 1947, pp. 301, 304). Il 9 marzo (domenica), d’Annunzio spera «di terminare il poema lunedì o martedì al più tardi» (ivi, p. 306), come pressappoco avverrà: in data 12. Senza dubbio rilevante è che il III atto, ultimo nella dispositio, fosse stato il primo nell’ordine della stesura: «per un “segreto” d’arte», affermava d’Annunzio a Luigi Albertini (Di Tizio 2005, p. 173). Ovvero, l’atto III doveva essere stato di più agevole composizione per via del suo carattere eminentemente lirico, il più vicino al «”segreto”» della creazione dannunziana.
In effetti, l’eccezionale continuità del sistema intra-intertestuale di d’Annunzio autorizza a supporre che l’inizio del percorso genetico risalisse ad un periodo ben anteriore e muovesse da un germoglio affondante appunto nella lirica: là dove, ispirandosi al fiabesco medievaleggiante di Jean Lorrain, il poeta dell’Isotteo (1886) traeva dalla Forêt bleue la figura di Melusina, la fata-serpente genitrice, con i figli Urian e Guion, dei Lusignani di Cipro e d’Armenia. Il Lorrain, a sua volta, l’aveva resuscitata dalla Mélusine di Jean d’Arras, uno dei miti più fecondi della letteratura francese e di diffuso interesse storico-critico in un secolo dedito a medievismo, scoperta dell’antropologia e filologia quale il XIX.
Gli studi di Gaston Paris, con le sue indagini sulla chanson de geste e i fabliaux o sugli adattamenti in senso teatrale dei miti pagani al Medioevo cristiano; le ricerche sulla cristianizzazione del paganesimo celtico e germanico di Alfred Maury e Pierre Saintyves; le ricognizioni sui contes e fabliaux di Martin Méon, o quelle di Charles Gidel sul simbolismo pagano-cristiano, costituivano un patrimonio erudito a forte sollecitazione immaginativa, cui, fra i molti dati, d’Annunzio attingerà per la storia della bellissima fata associandola a Pisanella entro un cospicuo mosaico di riferimenti; vi attingerà altresì per l’aura pagana, ossia «demoniaca», che governa l’isola d’Afrodite, emblematizzandola nella ripresa del conte medievale «De celui qui espousa l’ymage de pierre» (Méon 1823, II) o ‘fidanzato della statua’ (Saintyves 1907): conte d’origine già ovidiana (Metamorfosi, X) e che, in tempi moderni (1837), aveva ispirato il Mérimée della Vénus d’Ille, altro sicuro oggetto dell’attenzione di d’Annunzio (Iengo 1999).
Simili luoghi entreranno in perfetto amalgama con le letture degli anni giovanili trasparenti dalla commedia: la fin amors trobadorica e stilnovista, ma dal doppiofondo déréglé e causa di rovina: amore fou dunque, come appunto quello del giovane Lusignano per Pisanella, arduo a esorcizzarsi perfino nell’allegorica impresa del Roman de la Rose più volte citato nell’atto III. Alla pari, il tema di Pisanelle sospingeva a guardare al Cantare di Fiorio e Biancifiore, e di qui al Filocolo boccacciano, con l’eroina prigioniera di mercanti nomadi come Pisanella e, termine intermedio la dama Biancofiore della Francesca da Rimini, con la scelta onomastica Blanceflor per la damigella dell’atto III.
Del resto, per un registro in cui il tragico viene temperato dal comico era quasi d’obbligo l’appello anche al Decameron: così per l’evidente rapporto fra le peripezie di Alathiel nel Mediterraneo e quelle di Pisanella catturata dai pirati nell’atto I; per la cornice «boccaccesca» dell’atto II (Andreoli, D’Annunzio 2013, TSM, II, p. 1664) e, qui sempre, per il riferimento ricorrente alla pianta del basilico, che non può prescindere da Lisabetta da Messina; senza dire della parodia di Federigo degli Alberighi, in apertura a quella danza dello «Sparviero» che nell’atto III condurrà la protagonista alla morte.
Infine, dal punto di vista della cronologia interna alla fermentazione creativa, una fase rilevante appare lo scorcio del secolo. Segnale certo è l’abbondanza di riferimenti alla Grecia e all’Oriente in Maia e Alcyone, ma soprattutto il notabile ruolo che Bisanzio, il cuore dell’Oriente latino di cui Cipro fa parte, ricopre nell’intratesto in quel giro di anni, dalla Ravenna di Elettra al Sogno d’un tramonto d’autunno al Fuoco (Ronchey 2017).
Nel 1901, anche sull’onda dei Canti popolari greci del Tommaseo, Cipro farà comparsa nella bizantina Rimini: dalla Francesca, entro il dialogo tra la schiava cipriota Smaragdi e il mercante fiorentino (atto III, iii), già emergono alcuni segmenti della futura commedia, quali Famagosta dai floridi traffici; la figura di Ughetto di Lusignano; travagli politici; malattie e calamità naturali; il ruolo trionfante di «Venere dimonia» (D’Annunzio 2013, TSM, I, pp. 590-591). Rilevante è che giusto allora uscisse il saggio di Charles Diehl Villes mortes d’Orient, in cui la precisione documentaria si coniugava con un sapore narrativo assai gradito al palato dannunziano, specie nel vivacissimo disegno del porto di Famagosta.
La vivida aria mediterranea che spira dalla tragedia riminese troverà puntuale conferma nella Rosa di Cipro e di qui in Pisanelle: nella didascalia quanto nell’azione del Prologue e soprattutto nel contesto ambientale dell’atto I. Tuttavia, oltre al rilevante influsso del Diehl, dovevano lievitare nella latenza i frutti di molte altre letture. Come rammenta Andreoli (TSM, II, p. 1677), nel 1905, in preparazione della Nave, d’Annunzio richiede all’Antongini una cospicua serie di volumi che gli torneranno utili anche per l’affresco storico generale dell’Oriente cristiano e le secolari contese tra Genova, Venezia e Pisa per il monopolio commerciale: dall’opera del Dellaville Le Roulx e dello Heyd, alle cronache genovesi del Caffaro e continuatori, del Canale e del Pagano.
Ma la confidenza con la storia cipriota attestata nella Francesca lascia ipotizzare che all’ingresso del secolo d’Annunzio avesse assimilato anche le cronache cipriote di Florio Bustron e Léonce Machéras (1884, 1882), quest’ultima recante in appendice quella Chanson de Arodaphnouse essenziale allo svolgimento dell’atto III. La lettura del Bustron e del Machéras sarà esibita dal poeta erudito nel 1908 sul «Corriere», ma almeno altre due fonti possono considerarsi in precedenza acquisite: la documentatissima ricognizione storica su Cipro di Louis de Mas Latrie (1855) e soprattutto la miniera di ragguagli storico-geografici e di curiosità sul costume dell’isola ad opera di Stefano di Lusignano (1572). Presenti nella Biblioteca del Vittoriale e recanti fitti segni di lettura (Andreoli, TSM, II, p. 1673), anche tali opere attestano l’alchemica conversione di erudizione in poesia operata dal mago d’Annunzio.
Contenuto e struttura
Prologo
L’assoluta conformità alle fonti storiche su Cipro, dai dati climatici alle dispute politico-religiose interne all’isola fino al diffuso culto delle reliquie, si coniuga in quest’ampia sezione col fascino immaginativo della letteratura medievale. Si avvalora così sin dall’apertura l’affermazione di d’Annunzio a proposito di «questa commedia»: «ogni frase è appoggiata a un testo illustre» (Antongini 1947, p. 310). <
La struttura, movimentata dal ricorso a due mise en abîme, si articola in più nuclei di diegesi, di cui sono perno il sanguigno e dissacrante principe di Tiro, connestabile del reame e zio di Ughetto di Lusignano; il reuccio, smarrito e trasognato; l’attenta regina madre che ha in cura le sorti del regno.
A Cipro, Domenica dell’Ulivo del 1266: 1. Siccità e carestia affliggono l’isola, ma presso la reggia dei Lusignani è stato allestito un più che lauto banchetto alla presenza dei dignitari maggiori. Si deve infatti trovare una degna sposa al giovane sovrano, ma il convito subito diviene il luogo di un’aspra contesa, fomentata dal principe di Tiro, tra i vescovi latini e greci dell’isola, questi ultimi accusati d’asservimento al culto d’immagini sacrileghe e di stregoneria, a dispetto del loro far mostra di santi, martiri e preziose reliquie.
In realtà, incalza il principe di Tiro, l’isola è sotto il potere di Venere, regina d’ogni lussuria, e dei suoi spiriti demoniaci; a conferma egli racconta la storia di Rinieri, un pisano di Limisso, che, posto per celia l’anello al dito d’una statua della dea, si “promette” a un’entità fonte di morte e di rovina. Tutta colpa, si grida, dell’opera di stregoneria del vescovo d’Amatunta! La contesa verrà interrotta da un intermezzo teatrale avente per soggetto un episodio del racconto di Jean d’Arras: la tragica scoperta della natura anguiforme di Mélusine da parte del marito Raimondin.
Invano la regina interpella i suoi baroni: il giovane re si sottrae con astuzia sorniona ad ogni proposta di sposa eleggibile fra le varie nazioni. Mentre infine colloquia con l’Elemosinario di corte, che vorrebbe indurlo a scegliere Dama Povertà, Ughetto ode una bellissima mendica cantare la canzone di Alete (Alétis), la santa Vagabonda che starebbe giungendo d’oltremare a salvare il popolo di Cipro da fame e siccità. E il fantasticante sovrano si persuade debba essere questa la sua sposa.
Atto I
Splendida ricreazione del Diehl delle Villes mortes d’Orient e, fra le cronache genovesi compulsate dal poeta (cfr. Genesi), preciso è il riferimento alla Historia di Michel Giuseppe Canale (Canale 1858).
1. Nella vivacissima cornice del porto di Famagosta si affolla gente d’ogni credo, mestiere e provenienza; vantando diritto di precedenza sulla cattura di alcune fuste saracene, un’aspra zuffa s’accende tra le galee cristiane, di catalani e francesi, genovesi e veneziani.
2. Veneziani e genovesi fan mostra a vicenda delle ferite riportate nella cattura; gravissima quella del genovese Oberto, della famiglia gentilizia degli Embrìaci (Canale 1858, I, pp. 443-444), che più d’ogni altro anela a far sua la «rose du butin», una splendida fanciulla immobile come una statua. Essendo però da tutti agognata, la giovane viene posta all’incanto; si chiamano a raccolta i ricchissimi borghesi di Famagosta ai quali, ormai in punto di morte, l’Embrìaco oppone un’iperbolica offerta.
3. Si fa avanti un giovane cretese (lo Psillude dell’atto III), che, brandendo lo stocco del defunto, intende difendere la rosa. Il tumulto che ne segue è interrotto dall’arrivo del principe di Tiro con un pittoresco corteo di meretrici italiane. Il connestabile crede la giovane una principessa, ma le esperte donne, esaminati vesti e maquillage della prigioniera, sospettano ch’ella appartenga alla celebre «communauté […] / à l’enseigne de paille»… (TSM, II, p. 899).
4. Mentre il principe si duole per la morte dell’Embrìaco, s’ode di lontano la folla acclamare l’arrivo d’un carico di grano che salverà Cipro dalla fame. Giunge in gran pompa, accompagnato dal vescovo di Famagosta, anche il Lusignano, che pervaso da fervore erotico-religioso crede la giovane essere quella Santa Alete, latrice d’ogni bene, annunciata dalla mendicante di Aroda (v. Prologo), e di seguito la conduce al monastero di Santa Chiara in Famagosta.
Atto II
Clima decisamente alla Decameron, col sicuro apporto di un’ampia bibliografia sui costumi delle prostitute nel Rinascimento già fruita nel Sogno d’un tramonto d’autunno e nel Fuoco.
1. Per far onore a Sant’Alete incarnata, quando le sacre note del mattutino lottano con il canto dei galli, le pie clarisse si affaccendano ad ornare con fiori e piante odorose il muro sottostante il davanzale della «Beata». Dall’alto della scala la spiano mentre è intenta a far toilette, scambiandone i gesti per gli atti d’un nuovo protocollo religioso. Il sacro si mescola dunque al profano, come anche segnalano i diffusi richiami a Venere (i galli, i festoni di mirto e d’oleandro cari alla dea) e, travalicando la scherzosa irriverenza d’un Boccaccio, soprattutto ne è indizio la diffusa parodia, a tratti oscena, della Laus creaturarum: specie ove s’inneggia alla bontà di frate pane e di frate Fico, nei quali la «Beata», affamata dal lungo digiuno sulla fusta saracena, affonda con empito i denti.
2. All’improvviso irrompe nel convento il principe di Tiro con la sua pittoresca scorta. Mentre la giovane torna ad opporre ai profanatori la sua immobilità di statua (v. atto I), le meretrici affermano la bellissima ignota altri non essere che Catalina di Pisa, frequentatrice dei bordelli veneziani e lasciva interprete della «Danza dello Sparviero» alla presenza del duca di Milano. Fattosi persuaso che tale è la vera identità della giovane, il principe di Tiro ne esige brutalmente il possesso.
3. Sopraggiunge ora anche il Lusignano deciso a condurre con sé l’amata, ma il principe non vuol lasciare la bella preda: quella donna egli l’ha comprata come schiava e per aggiunta non si tratta che d’una “pisanella”, che ha bazzicato per tutta Italia al suono di migliaia di fiorini. A sua volta il Lusignano non intende ragione – la giovane è una santa e lo zio è posseduto dallo spirito della Nemica –, e finirà per affondare la daga nel ventre del consanguineo. Il principe spira riconoscendo nella bianca immagine di Pisanella quella della demoniaca statua di Rinieri. In lontananza s’ode il popolo reclamare che la Santa Vergine d’oltremare resti a Famagosta.
Atto III
Epicentro dell’azione è l’incontro fra Pisanella e la regina, madre di Ughetto, cui seguirà la morte della donna di Pisa. Benché i dati storici abbondino, l’intonazione dell’atto è segnatamente lirica per la continua tramatura di riferimenti ai capolavori dell’amor fou (le vicende di Tristano e Isotta, di Lancillotto e Ginevra) e dell’amor fin, qui esemplato in una libera riscrittura di Federigo degli Alberighi. Tale dominante legittima un vistoso tradimento storico con dislocazione degli eventi dal XIII al XIV secolo: la figura della regina che darà la morte a Pisanella è modellata su Eleonora d’Aragona, quella sposa di Pietro II di Lusignano (1354-1382) che per gelosia infierì con torture sull’amante del marito, Jeanne l’Aléman (Machéras 1882, pp. 129-131). Incupendosi nell’assassinio, la vicenda sarebbe divenuta oggetto della popolare Canzone di Arodafnousa (in Gidel 1878, pp. 451-468), cui d’Annunzio ora attinge con dovizia di particolari (Lavagnini 1942, pp. 156, 191-204).
1. Sono passati alcuni mesi: Ughetto ha condotto Pisanella nel castello del Deudamor, l’impervia rocca citata in tutte le cronache su Cipro, ove egli di null’altro si cura che della propria amorosa follia. Priva di reggenza, fra lo spadroneggiare di pisani e genovesi l’isola versa in condizioni ancor più penose che dopo l’ultimo flagello delle cavallette.
2. Non resta, medita la regina, che uccidere la sorcière che ha affatturato il sovrano. Attratta a palazzo da un menzognero messaggio di perdono, Pisanella vi giungerà senza Ughetto nel giorno della Pentecoste. Per sconfiggere il potente charme dell’ammaliatrice, la regina ha apprestato tre generi di morte: per tiro di balestra, fauci di leopardo, esalazioni di rose (e qui, con tutti i debiti distinguo, non si può far meno di pensare alla zoliana Faute de l’abbé Mouret).
3. A favorire quest’ultima soluzione è la stessa Pisanella, che, arrivata a palazzo in compagnia dei suoi orchestranti, annuncia alla madre del re di voler danzare in suo onore la Danza bassa dello Sparviero in cui è provetta. Mentre si perde in movenze appassionate, la giovane viene sempre più stretta da sette schiave nubiane recanti grandi cespi di rose dal profumo inebriante; non scorgendo il pericolo, ella si presta ridendo alla pressione di quella compagnia che, come in misura di danza, le andrà impedendo ogni spazio sino a farne prigione. Pisanella muore soffocata invocando il nome del suo re. Troppo tardi egli è giunto a salvarla.
Stile e interpretazioni
Certa palese affinità di Pisanelle con la Francesca da Rimini (ambientazione medievale, amor fou, episodio cipriota di Smaragdi, mimesi d’una lingua antica) senza dubbio giustifica l’estensione del metro della tragedia alla stessa comédie: quel vers blanc, endecasillabo (decasyllabe) non rimato alla maniera di Honoré d’Urfé nella Sylvanire ou la Mort vive (1627), sul quale l’autore della Francesca disserta nell’Avertissement comparso, in tutt’uno con la versione francese della tragedia, sotto il nome del traduttore Georges Hérelle (Cimini 2004, CDH, pp. 641-645). Ma – afferma l’occultato estensore –, piegando al modo di Dante gli emistichi del nostro endecasillabo, il poeta italiano ha ben superato l’iniziale modello ed è giunto a forgiare «un instrument métrique d’une souplesse, d’une robustesse, d’une diversité incomparables» (CDH, p. 643).
Tutte qualità in effetti riconoscibili nel vario tessuto poematico anche di Pisanelle: dalla musicalità più intensa nel libero corrispondersi della rima, come nella riscrittura di Federigo degli Alberighi (atto III), al frangersi e dissonare del tessuto fonico-ritmico nella rissa tra catalani e francesi, veneziani e genovesi per il possesso della «rose du butin» (I), o nell’acceso botta e risposta tra la regina e Pisanella (III). Inoltre, prova della souplesse e robustesse del mezzo metrico dannunziano è il suo riuscire a piegare senza sforzo lessici d’ogni natura, dai tecnicismi marinareschi (I) al nome degli strumenti della musica antica (III), dai riferimenti storici a quelli letterari dei quali il testo è costellato.
Trattandosi di un’opera teatrale, il contenitore formale è naturalmente costituito dal vivo dialogo tra i personaggi. Da tal punto di vista, di simile aderire di erudizione, metro, dialogizzazione, il III atto ritorna ad essere esemplare: «Dieu sauve Sire Huguet / de cet esprit succube / qui le tient prisonnier / dans ce Château bâti par les démons!», esclama il Balivo della regina (TSM, II, p. 969). È un suggestivo imprestito da Stefano di Lusignano che descrive il Diodamore come infestato da «li Diauoli» con cui lottò Sant’Ilarione (Chorograffia, ff. 18-19). La regina chiede a Pisanella quale sia il suo vero nome? E Pisanella risponde: «On m’appelle / Arodaphnouse, / Dame, dans l’île / de Cypre. / […] / Qui veut dire Laurier rose […]» (TSM, II, pp. 1029-1030; corsivo nostro). In realtà, ella sta riprendendo la parafrasi onomastica del XV dei Τà Κυπριακà di Athanase Sakellarios nella versione francese del Gidel: «En haut, en haut dans le voisinage, il y a trois sœurs […], la troisème et la plus belle est Arodaphnousa (Laurier-Rose)» (Gidel 1878, pp. 448, 456; corsivo nostro.). Oppure, si vuol associare il potere fascinatorio di Pisanella a quello di Venere dimonia e di Melusina? Niente di meglio, allora, che i pettegolezzi delle ancelle di corte:
Est-ce-vrai / […] / qu’elle a, pur s’y laver, la sépulture | de la Reine Venus? / […] / Est-ce vrai que le Roy par un pertuis / l’a vue un jour / qu’elle était dans la cuve / jusqu’au nombril en signe / de femme nue et du nombril en bas / en signe de la queue / d’une serpente, / semblable à Mélusine, / […]? (TSM, II, pp. 991-992).
Quanto alla lingua, potrebbe qui valere il motto ‘poesia vs filologia’, perché, se il francese antico di d’Annunzio è «macaronico» e «di fatto “non esiste”» (Contini 1937; Bologna 2023), proprio in tal genere d’inventio consiste il fascino della mimesi dannunziana. Già l’autore del Saint Sébastien aveva dichiarato a Raoul Aubry: «J’ai chassé de mon écriture […] tous les termes qui ne sont pas de race authentique, c’est à dire qui ne datent pas d’au moins quatre siècles» (Aubry 1911).
Indubbiamente, soprattutto nel caso di Pisanelle si trattò d’una ricostruzione condotta a tavolino, estratta dai vocabolari tra i quali il monumentale Dictionnaire de l’ancienne langue française et de tous ses dialects di Frédéric Godefroy, da d’Annunzio rammentato nel medesimo Avertissement (CDH, p. 644). Quella ricostruzione, tuttavia, mirava alla poeticizzazione del dato filologico, non alla sua restituzione fedele. E la poeticizzazione a sua volta obbediva, in una sorta di reazione sinergica, alle spinte di sustrato dell’italiano letterario.
Tale aspetto traspare anche dalla traduzione che Ettore Janni, fine scrittore egli stesso, risolse arditamente d’effettuare in versi anziché in prosa (Moretti 2000, CJD, p. xxviii). A fronte d’una «lingua più grassa, più saporita» che il francese del Martyre; irta di tecnicismi, di nomi «tutti “francisés” secondo l’uso dei vecchi cronisti di Francia», ma ora tutti da ritalianizzarsi; lingua «mista di quel gergo “franco”» delle genti di mare, fitta di «allusioni» agli «usi e costumi singolari» dell’Oriente latino (CJD, p. xxxiii), la versione di Janni sarebbe riuscita opera di brillante ingegno e acuta sensibilità linguistica, tanto da riscuotere le lodi incondizionate del pur esigentissimo “supervisore”. Guidato da profonda conoscenza della nostra tradizione letteraria, Janni in più occasioni giunge a porre in luce l’archetipo italiano soggiacente, come nel caso dell’atto II, ove la traduzione del dialogo tra le clarisse evidenzia echi sottesi di Dante («[…] ‘l venerabile Bernardo / si scalzò prima, […] / […] / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro», Paradiso, XII, vv. 79-83 → «Moi / aussi, je me déchausse. / […] / Si, si, déchaussons-nous / toutes!», d’A., TSM, II, p. 919 ↔ «Anch’io mi scalzo. / […] / Sì, sì, scalziamoci tutte!», J., ivi, p. 1079); di Boccaccio («Poi prese un grande e bel testo, […] e dentro la vi mise fasciata […] su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano», Decameron, IV, v → «pot [o pots] de basilic», d’A., TSM, II, pp. 918, 927 ↔ «testo [o testi] di basilico», J., ivi, pp. 1079, 1081, 1082); di Cavalcanti («Perch’i no spero di tornar giammai, / ballatetta, in Toscana», Rime, 35 → «[…] Ma douce Pise, / à Dieu je vous commande, / car jamais plus ne vous reverrai», d’A., TSM, II, p. 943 ↔ «[…] Mia dolce Pisa, / io t’accomando a Dio, ché non ispero / di rivederti mai», J., ivi, p. 1087; tutti corsivi nostri).
Da ultimo, si osserverà che l’attenzione della critica è stata indubbiamente assai maggiore dal punto di vista della mise en scène del dramma che della sua realizzazione letteraria. Nel primo caso, al momento dell’uscita a teatro e nei mesi successivi, Pisanelle fu oggetto di recensioni così numerose da comporre «un denso tomo» (Andreoli, TSM, II, p. 1671), mentre ai giorni nostri ha conosciuto una ricca fioritura di contributi da parte dei maggiori interpreti e studiosi di teatro, che hanno messo a fuoco il carattere d’avant-garde, anche in senso «cinematografico», dello sperimentalismo dannunziano.
Quanto invece al testo drammatico, esso non è stato oggetto d’altrettanto interesse. E non lo fu, non lo poté essere anzi, sin dalla première teatrale, perché nel rapporto – più che mai problematico nel caso di Pisanelle – «entre l’écriture dramatique et sa traduction scénique», il testo dannunziano risultò «comme étouffé» (Abensour 2007). La poetica scrittura di d’Annunzio fu cioè sacrificata dalla regia del Mejerchol’d, che, nell’«accanita ricerca dell’unità della sua sintassi dinamica» (Santoli 2022, p. 35), trascurò «la comprensibilità della parola degli interpreti, per impostare tutta l’azione come una pantomima» (Isgrò 1993, p. 189). Con alcune eccezioni, fra cui quella del Diehl che in d’Annunzio si riconobbe («Dans le large tableau brossé par M. d’Annunzio, il y a des “dessous” qui peuvent charmer l’érudit le plus averti de les choses du passé»: Diehl 1913), il valore della poesia dannunziana non poté dunque essere colto dal pubblico.
Nel seguito le cose non varieranno di molto, tant’è che nel 1942 Bruno Lavagnini lamentava come la critica non avesse «rivolto sinora alla Pisanella particolare attenzione», riportando a conferma l’«apprezzamento sommario» di Luigi Russo (Lavagnini 1942, p. 96). Senza dubbio, sarebbe gravato anche su Pisanelle il verdetto di Gianfranco Contini, che, riferito alla lingua del Dit du sourd et muet, tuttavia poteva intendersi applicabile a tutto il francese di d’Annunzio, con il risultato d’invitare i critici a una considerazione scarsa o inappropriata di questo dramma.<
Persino uno studioso del calibro di Eurialo De Michelis, cui si devono la prima sottrazione di d’Annunzio alle incrostazioni ideologiche del dopoguerra e una fondamentale rivalutazione del poeta, non avrebbe posto in luce l’originalità dell’opera in rapporto al precedente intratesto, né interpretato debitamente l’immane sforzo creativo cui era stato sottoposto il fondo erudito di Pisanelle: «E dovunque il solito ingombro fastoso […] della paccottiglia medievale erudita, i tipi di nave, di mercanzie, i sistemi medico-magici di curare gli infermi, le formule notarili, ecc.» (De Michelis 1960, p. 433).
Anche un talent scout in territorio dannunziano quale Emilio Mariano non ritenne, nel pur imprescindibile Sentimento del vivere (1962), che l’opera fosse degna di nota, tanto da non menzionarla nemmeno. E, stando sempre ai più illustri campioni della critica novecentesca, Giorgio Bàrberi Squarotti avrebbe definito Pisanelle «un esercizio manieristico di enorme amplificazione che d’Annunzio compie su se stesso» riprendendo, «con una spropositata dilatazione, la vicenda del Sogno di un tramonto d’autunno» (Bàrberi Squarotti 1990, p. 172).
L’elenco potrebbe continuare anche per l’oggi con la segnalazione di giudizi mortificanti sull’ammasso erudito da cui il tessuto dell’opera è afflitto, o con la registrazione d’ingiustificate assenze commentative. Perciò, ha scritto bene Annamaria Andreoli: «Nella maggioranza dei casi si è chiesto a d’Annunzio di essere ciò che egli non è, dopo avergli impartito qualche lezione: di storia, di linguistica, di filologia comparata o, peggio di teatralità. Situazione che resta sostanzialmente immutata nel tempo, identica in Francia e in Italia»: quella d’un «appuntamento mancato con un autentico capolavoro» (TSM, II, p. 1671).
Bibliografia essenziale
Edizione di riferimento:
D’Annunzio, Gabriele, La Pisanelle ou le jeu de la rose et de la mort. Comédie en trois actes et un prologue, in Id., Tragedie, sogni e misteri [TSM], a cura di Annamaria Andreoli con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori («i Meridiani»), 2013, I-II, II [TSM, I, per Francesca da Rimini].
Edizioni apparse in vita:
La Pisanelle ou la mort parfumé, «Revue de Paris», 15 giugno, 1° e 15 luglio 1913.
La Pisanella o la morte profumata, traduzione italiana di Ettore Janni, «La Lettura», 1° luglio, 1° agosto, 1° settembre, 1° ottobre 1913.
La Pisanella. Commedia in tre atti e un prologo. Volta in verso italiano da Ettore Janni, Milano, Treves, 1914.
La Pisanelle ou le jeu de la rose et de la mort. Comédie en trois actes et un prologue, Istituto Nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio (Verona: Off. Bodoni di A. Mondadori), 1935, XXXII.
Il soggetto della «Rosa di Cipro» esposto da d’Annunzio, «Corriere della Sera», 24 gennaio 1908.
Gabriele d’Annunzio, La Rosa di Cipro, in Id., L’allegoria dell’autunno, Istituto Nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio (Verona: Off. Bodoni di A. Mondadori), 1934, XLV, pp. 191-208.
[Dopo la morte:]
Gabriele d’Annunzio, Tutto il teatro di Gabriele d’Annunzio. Tragedie, sogni e misteri, con un Avvertimento di Renato Simoni, Milano, Mondadori, 1949-1950, I-II, II.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni e misteri, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1960, I-II, II.
Edizioni commentate:
Gabriele d’Annunzio, Tutto il teatro, a cura di Giovanni Antonucci, Introduzione generale di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva, Roma, Newton Compton, 1995, I-III, III.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni e misteri, a cura di Annamaria Andreoli con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori («i Meridiani»), 2013, I-II.
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