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A C D E F G I K L M P R S T U V Z
Ma Mi
Mai Man

Maia

di Cristina Montagnani, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

La volontà di trasferire in un’opera letteraria l’esperienza della crociera in Grecia dell’estate 1895, un viaggio che finirà, dopo un lungo percorso e non pochi ripensamenti, col diventare l’avventura ulissiade di Maia, venne manifestata da d’Annunzio quasi nell’immediato, come auspicio in una lettera ad Hérelle del 23 settembre dello stesso 1895 (Carteggio D’Annunzio-Hérelle 2004, p. 336) e già in forma di versi scritti nel febbraio 1896 (come, ancora da Francavilla, d’Annunzio scrive ad Hérelle):

Sapete la gran novella? In questi giorni, tra una cura e l’altra – per il bisogno di essere altrove – ho composto alcuni versi su la nostra navigazione, e precisamente su l’ora mattutina in cui apparve per la prima volta ai nostri occhi la terra ellenica: il profilo di Leucade. Ve ne ricordate? Pubblicherò questi esametri in un giornale, e ve li manderò. Se vorrete, potrete metterli nel libro di bordo. Poi, quando verrete a Francavilla, io vi regalerò il piccolo libro in cui io scrissi il giornale della prima settimana marittima. Come mi pento di averlo interrotto! Rileggendo quelle pagine frettolose e fresche, ho provato una viva commozione (Carteggio D’Annunzio-Hérelle 2004, p. 336).

A lungo gli esametri sono rimasti solo un fantasma letterario, ipotetico nucleo originario della Laus Vitae (nelle acque di Leucade avviene infatti L’incontro d’Ulisse); il loro ritrovamento, ad opera di Mariano e De Michelis (Gabriele d’Annunzio, Esametri inediti, 1985), ha reso evidente che in realtà non esistono tangenze testuali stringenti fra questi versi e il celeberrimo episodio della Laus; basti pensare all’assenza della figura di Ulisse, su cui si incentra invece l’apertura del testo pubblicato nel 1903. Se non c’è Ulisse, Maia ancora non esiste.
Dopo qualche segno premonitore, giudicato ancora prematuro dall’autore, è solo nel 1899 che d’Annunzio, come è noto, si abbandona nuovamente al «fiume di poesia»: «Scrissi le prime Laudi: circa un migliaio di versi; ciò è quasi un terzo del primo volume» comunica a Giuseppe Treves il 7 agosto (Lettere ai Treves 1999, p. 548). I titoli di questi sette libri si preciseranno nella lettera successiva all’apparizione su «La Nuova Antologia» (16 novembre 1899) dello specimen delle Laudi di cui si parlerà più avanti: secondo quanto scritto da d’Annunzio a Giuseppe Treves il 20 novembre del ’99  «Le Laudi si comporranno di sette libri: Alcione, Merope, Sterope, Celeno, Elettra, Taigete e Maia. I sette libri saranno divisi in tre volumi. Il primo – di prossima pubblicazione – si comporrà dei primi tre libri. Non è interamente compiuto, ma è composto in gran parte» (Lettere ai Treves 1999, p. 554).
L’identità del destinatario e l’esplicita richiesta all’amico editore di un aiuto economico inducono necessariamente una certa prudenza nella valutazione “quantitativa” delle affermazioni del poeta, ma una preziosa testimonianza ci conferma che, all’altezza dell’autunno del 1899, d’Annunzio aveva già scritto i primi versi di Maia. In occasione del matrimonio di Angiolo Orvieto con Laura Cantoni (18 ottobre 1899), i sodali del «Marzocco» offrirono agli sposi un «Quaderno di nozze», ricco di preziose testimonianze artistiche (Garoglio 1899, pp. 2-3); di mano del poeta, preceduti e seguiti da una serie di puntini sospensivi, si leggono i celebri versi sulle «città soavi». Si tratta dei vv. 337-357, in una lezione perfettamente coincidente con l’ultima attestata dall’autografo (c. 17; per la descrizione dei testimoni si rimanda all’edizione critica a cura di Cristina Montagnani)); la testimonianza è di estrema importanza perché sino ad ora la data più alta attestata per la parte iniziale di Maia era l’11 marzo del 1900, cui risale la pubblicazione su «Il Giorno» dei vv. 379-504.
La retrodatazione dei primi versi del poema ci consente di collocarli fra le più antiche testimonianze delle Laudi, insieme a L’Annunzio (11 giugno 1899), La sera fiesolana (17 giugno), La tenzone (5 luglio), Bocca d’Arno (6 luglio), e i testi di data più alta fra quelli poi accolti in ElettraCanto augurale per la nazione eletta e Le città del silenzio: Ferrara-Pisa-Ravenna (anteriori al 16 novembre 1899), Alle Montagne (anteriore al febbraio 1896), Per la morte di Giovanni Segantini (fra 28 settembre e 8 ottobre 1899) e A Dante (28 dicembre 1899) (Cfr. Gibellini 1975 e Gavazzeni 1980).
Nessun brano di Maia è invece accolto nello specimen delle Laudi apparso su «La Nuova Antologia» (vol. LXXXIV, fasc. 670, pp. 195-212) il 16 novembre 1899: sette pezzi anepigrafi, preceduti dal titolo «laudi del cielo del mare della terra e degli eroi»; una possibile spiegazione può forse essere ricercata nelle caratteristiche intrinseche di Maia, che nasce come poema, ed è quindi estranea all’idea strutturante di canzoniere sottesa a tutti i pezzi accolti dalla rivista. La successiva comparsa, a stampa questa volta, di un brano del poema è quella, cui s’è già fatto cenno, de La notte d’estate (vv. 379-504), pubblicata su «Il Giorno» di Roma l’11 marzo 1900.
I brani di Maia di cui si è discusso sinora sono affidati a un gruppo di carte (1-25) che attestano i vv. 1-525 del poema; si tratta di carte che per filigrana e formato (recano una strofe per pagina) differiscono dal resto dell’autografo e costituiscono un insieme omogeneo. La data del 18 ottobre 1899 (terminus ante quem del «Quaderno di nozze») va quindi assunta, a mio avviso, per tutta la sezione 1-525 del poema.
Dopo l’esordio, l’elaborazione del poema non pare procedere di molto: nel 1900 d’Annunzio lavora ad Elettra e compone alcuni testi di Alcyone (L’OleandroDitirambo IIILe Ore marineIl novilunio). Solo qualche indizio cronologico per lo sviluppo del testo dopo i 525 versi iniziali: intanto l’autocitazione dei vv. 1487-1491:

t’elessi, Oleandro, ti colsi
per redimir le mie tempie
di rose e d’alloro in un ramo.
Non mai parso m’eri sì bello!
E un altro da me canto avrai.

Se la profezia dannunziana, come è logico pensare, è post factum, l’avrai del v. 1491 fa riferimento all’Oleandro di Alcyone, datato sull’autografo 2 agosto 1900 e questi versi, con le strofe contigue, si troverebbero ad avere l’agosto del 1900 come termine post quem (nulla possiamo dire sulla data ante quem); certo quelli fra 1900 e 1902 sono anni in cui è difficile pensare a un significativo impegno di d’Annunzio sul nostro terreno (basti ricordare la preparazione definitiva delle novelle fra la fine del 1900 e l’inizio del 1901, il lavoro sulla Notte di Caprera, con l’attività teatrale ad essa connessa, e infine la stesura della Francesca, conclusa il 4 settembre del 1901).
È un’importante fonte, segnalata da Guy Tosi (Tosi 1947, p. 129, n. 1), ad offrirci invece un termine cronologico relativo alla sezione centrale di Maia: i vv. 4113-4121 della Laus
[…] Pensammo

dei promontorii gli avanzi
della rete i sugheri e i piombi,
o le nasse e l’amo ricurvo
legato al suo crin di cavallo
con la lunga canna, o una triglia
pavonazza, la squamma
d’un gambero, un fin laberinto

sono indubbiamente implicati con un passo de Le Voyage de Grèce di Jean Moréas, pubblicato a Parigi nel giugno 1902, pp. 81-82 (che vale quindi come terminus post quem di questa parte di Maia):

Sur un rocher battu des flots s’élève une petite chapelle dédiée à Saint George […] Toi, vieux marinier de la côte de Phalère, consacre au Saint ton patron: un hameçon bien recombé; des longues perches; des roseaux attachés bout à bout; une rame, fouet du navire; un vaste épervier avec ses plombs; des paniers bien tressés; une ancre; un liège; un trident […]

Negli ultimi giorni del 1902, o nei primissimi del 1903 su «L’Illustrazione italiana» (rivista della casa Treves) viene pubblicizzata l’imminente uscita del primo volume delle Laudi; un solo volume, appunto, destinato ad accogliere le prime tre Laudi (di cui l’Avviso Treves offre anche un sommario). Evidentemente le dimensioni di Maia non sono ancora quelle che conosciamo: l’indice dell’Avviso coincide infatti con quello della editio princeps del poema da La Sirena del mondo a La valle sacra ed è ragionevole supporre che tutta questa porzione di Maia preesista rispetto al comunicato editoriale. Anche per Alcyone si dà coincidenza fra l’indice previsto e quello definitivo sino a L’onda e i componimenti che precedono L’onda sono, per la maggior parte, compiuti entro il 1902. Difficile quantificare la reale estensione del poema a questa altezza cronologica: senza entrare nello specifico (per indicazioni più precise si fa riferimento alla Introduzione alla edizione critica), dovremmo arrivare, al massimo, a 1800 versi, lontanissimi, quindi, dalle dimensioni finali.
Sono dunque i primi mesi del 1903 quelli in cui d’Annunzio compie il poema: è a questo periodo che possiamo riferire quanto l’autore, con il compiacimento del caso, rievoca nel Libro segreto:

[…] fu composta tutta in piedi come la Laus Vitae [con una lena non interrotta pur dalla campana di mezzodì, che ancor si tace] su quella industriosissima scrivania monacale che celava non un calamaio ma una polla d’inchiostro in una irsuta selvetta di penne, mentre su l’attigua tavola era disteso il ròtolo con la figurazione della Sistina intera (d’Annunzio, Prose di ricerca e di lotta 1950, II, p. 726).

Difficile a questo punto penetrare nell’officina del poeta; per la seconda parte dell’opera sono spesso individuabili tre distinti momenti redazionali (si fa ancora riferimento ai materiali presentati nell’edizione critica del poema): abbozzi del testo in fase nascente, tràditi da minuscoli foglietti, quasi relitti sospesi in un mare di riscritture occultate, carte che recano prime stesure già raffrontabili al testo finale, e infine carte che registrano al tempo stesso prime stesure di alcuni versi e abbozzi dei versi immediatamente successivi. Documenti preziosi che ci rimandano l’immagine di un lavoro condotto senza soste, «ardentemente» appunto. A titolo di esempio possiamo citare la carta V 4675; XXIV,2 conservata al Vittoriale, che attesta un breve sommario dell’ultima parte del poema (fra parentesi quadre il numero dei versi di Maia corrispondenti alle diverse indicazioni tematiche):

L’ombra del deserto [7620] sonnolenze (cassato) – Nuove opere [8004] – Quadriga [7730] – solstizio – [8296 ss.] inno – strofe [7898-900, 7918 ss.] – Le parole mitiche [7970 ss.]

Oramai d’Annunzio ha scritto più di settemila versi: evidente (anche se ne sopravvive solo quest’unica testimonianza) la volontà di articolare progettualmente la parte del poema ancora da elaborare: qualcosa di simile, pure nella dimensione continua del poema, all’orchestrazione dei sommari alcyonii. E che si tratti di una programmazione ad ampio respiro è confermato anche dai frequenti calcoli aritmetici affidati alle carte che contengono abbozzi e prime stesure: non è sempre agevole comprenderne la chiave, ma è indubbio che testimonino una tensione alla perfezione numerologica, che porterà il poeta alla stesura di 21 canti, per un totale di 8400 versi, ripartiti in 400 strofe di 21 versi ciascuna.
La storia esterna dell’opera, dal canto suo, è prossima alla conclusione: nel febbraio e nel marzo del 1903 (nn. 8 e 12 del «L’Illustrazione italiana») la casa editrice Treves pubblicizza di nuovo l’imminente volume delle Laudi: «volume primo: Alle Pleiadi / e ai Fati. – L’Annunzio. / Libro Primo…. maia / Libro Secondo…. elettra / Libro Terzo…. alcione»; siamo oramai alla fine di marzo, eppure ancora un solo volume dovrebbe accogliere le tre Laudi. Finalmente, e siamo al 28 di marzo, d’Annunzio comunica ad Emilio Treves (Lettere ai Treves 1999, p. 242) che Maia, «da sola può dunque riempire un volume di mole conveniente (circa 250 pagine, se non erro)». E il 18 aprile è la data di un famoso telegramma allo stesso Treves: «Ho finito! Ci rivedremo? Abbraccio te e la signora Suzette» (Lettere ai Treves 1999, p. 243). Maia sarà messa in vendita l’11 maggio 1903 e già sul numero 20 de «L’Illustrazione» sarà recensita da Raffaello Barbiera: il viaggio ulissiade – è sarà un viaggio trionfale – è finalmente iniziato.
Dopo la prima stampa Treves, d’Annunzio non si disinteressa, ovviamente, delle sorti del suo libro; si succedono le ristampe, con minime emendazioni soprattutto del sistema – alquanto precario – degli accenti: 1905, 1910. Nel 1928 l’Edizione Nazionale (l’unica concessa ad un autore ancora in vita), pubblicata da Mondadori, e nel 1934 (con ristampa nel 1935) l’ultima edizione apparsa durante la vita di d’Annunzio, pubblicata dal Sodalizio dell’Oleandro, con l’intento di proporre al pubblico, a un costo più contenuto, le opere già apparse nell’Edizione Nazionale.
Il progetto di una nuova Edizione Nazionale dannunziana, fondata su basi scientifiche e non più meramente apologetiche, si riapre negli anni ’80 del Novecento, inaugurata dall’Alcyone curato da Pietro Gibellini; in questa nuova serie, nel 2006, esce Maia, curata da Cristina Montagnani (Il Vittoriale degli Italiani, Gardone).

Contenuto e struttura

Se Alcyone è un canzoniere, Maia è un poema: dovrebbe essere più semplice, almeno in teoria, seguirne lo sviluppo. In realtà, come gli studi di Gibellini e di Gavazzeni hanno ampiamente dimostrato, d’Annunzio si applica strenuamente alla “forma” di Alcyone, e ottiene i risultati che tutti conosciamo; più complesso, invece, gli riesce il lavoro su Maia, e l’esito, in alcuni tratti, appare tutt’altro che brillante. Prima della vera Laus VitaeMaia inanella una serie di testi proemiali, che valgono più per il progetto laudistico nel suo complesso che per il singolo testo e esplicitano le auctoritates, tracciano il solco della tradizione lungo la quale l’opera viene a collocarsi. In questo senso possiamo leggere l’apertura dantesca, in terzine, di Alle Pleiadi e ai Fati, corrispondente metrico della Tregua del canzoniere, anche se la sua marcata connotazione ulissiade lo lega più a Maia che alle altre Pleiadi. Più chiara la situazione dell’altro testo proemiale, quell’Annunzio pubblicato sulla «Nuova Antologia» del 16 novembre 1899, già in posizione di apertura, e che, fra Carducci e Nietzsche, gioca il suo ruolo di “soglia” ideologica in perfetta simmetria – quando i due libri avranno assunto la loro forma definitiva – col Fanciullo alcyonio, che non a caso è, nel canzoniere, forse uno dei testi più strettamente implicati con l’ideologia del poema.
Anche i primi due canti della Laus Vitae rivestono una forte valenza teorica e dichiarano infatti, dopo Dante, Carducci e Nietzsche, un altro dei “padri nobili” del nostro poema, il Gide delle Nourritures terrestres cui possiamo ricondurre (sulla scorta di Noferi 1945, pp. 191-192) tanto l’elogio della diversità, della pluralità dell’esperienza: «Formes diverses de la vie; toutes me parûtes belles», quanto la prima parte del secondo canto, sotto il segno dei «giacigli»: «[…] que te dirai-je des couches? J’ai dormi sur les meules; j’ai dormi dans l’herbe, au soleil; dans le grenier à foine; couché sur le pont des navires. Il eut des couches où m’attendait des courtisannes […]», e sul finire dello stesso canto, il passo, tanto amato da d’Annunzio, sulle «città soavi»: «Nathanaël, je te parlerai des villes: j’ai vu Smyrne […] Il y a des villes et des villes […] Villes d’Orient […] Villes du Nord».
La prima apertura della Laus in senso narrativo è più avanti, all’altezza del canto III, con la Notte d’estate pubblicata, come s’è detto, l’11 marzo 1900. E se Il fanciullo è forse il testo alcyonio più in sintonia col clima di Maia, la Notte, simmetricamente, presenta parecchie tangenze col canzoniere.
È solo il canto IV che segna il concreto avvio dell’avventura, un viaggio che prende l’avvio dalle sponde adriatiche: da Brindisi, là dove una coppia di colonne segna il termine della via Appia, e non dalla più domestica Gallipoli, da cui in realtà ebbe inizio la crociera del 1895. A partire da questo punto, e per un lungo tratto, la realtà poetica si sovrappone, in tutto o in parte, a quella evenemenziale rievocata dai Taccuini dannunziani, soprattutto il III. L’Adriatico, tuttavia, non attrae più di quel tanto il poeta: a differenza di quanto registrato nei Taccuini, che riservano ampio spazio alle prime fasi del viaggio, la scrittura del poeta è vertiginosamente attratta da Leucade, da quelle acque di Leucade nelle quali d’Annunzio colloca l’apparizione di Ulisse. Invano, ovvio, cercheremmo nei Taccuini l’eco dell’incontro incantato, ma poche righe sotto Leucade, a proposito di Itaca, d’Annunzio annota: «[…] l’Itaca diletta al politropo Odisseo. Siamo finalmente nel mare classico. Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte» (Taccuini, p. 39).
E la lettura dei Taccuini ci consente appunto di seguire passo dopo passo lo scarto introdotto da d’Annunzio rispetto alle sue note: se già il taccuino è una trascrizione tutt’altro che neutra della realtà, un filtro letterario potente di suo, la fissazione nel poema dismette progressivamente le originarie caratteristiche memoriali per aderire a un diverso progetto, a un diverso paradigma mentale di viaggio; uno sfaldamento graduale, ma più marcato, come vedremo, a partire dal canto XI, cioè poco più avanti del punto in cui Avviso Treves e indice della princeps cessano di corrispondere.
Seguendo velocemente lo sviluppo del poema, troviamo al canto V l’approdo a Patrasso (come nella realtà storica del viaggio), e la sconclusionata avventura con la meretrice di Pirgo; il canto VI ci porta da Patrasso a Olimpia, a proposito della quale il taccuino ci offre una pacata evocazione dei giochi, trasfigurata nel poema nel trionfo dei Greci e dei loro eroi; ancora Olimpia al canto VII, a metà del quale cessa la corrispondenza fra l’Avviso Treves e l’indice effettivo del poema.
Il poeta non dismette però il rapporto, seppure alquanto precario, fra la realtà del viaggio e la sua trasfigurazione letteraria: il bagno nell’Alfeo al canto VIII, il museo di Olimpia al IX, con la lunga Preghiera a Erme (vv. 2332-982), dio della trasformazione e, in certo qual modo, del divenire, del cambiamento. Ci avviciniamo gradualmente a una svolta cruciale del poema, quando al canto XI d’Annunzio celebrerà l’elogio della decima musa, la modernità. Lo snodo fra le due parti del poema si intravede già a metà del canto X, laddove d’Annunzio abbandona la falsariga dei suoi appunti di viaggio per introdurre una porzione di testo assente nell’Avviso Treves, I miti supersiti (siamo ai vv. 3109 e seguenti): anticipa qui un elemento di assoluto rilievo per lo sviluppo a venire del poema: la necessità di un altro viaggio, diverso da questo ellenico: «[…] Ahi, l’ora è breve e il vento / volubile, ed è necessario / compiere altri perìpli / finché la carena sia salda; / e a consumabile tizzo / la nostra sorte anco è avvinta. / Ma ad ogni approdo intera / tu sarai nel nostro fervore / qual sei nel tuo triplice mare!”» (vv. 3142-50). Il passaggio, però, è graduale, giacché il canto XI ci porta ancora nelle placide acque elleniche, dove tra «sartiette», «palischermo» e «vela latina» (tutti termini reperiti nel Vocabolario del Guglielmotti), gli Ulissidi navigano serenamente, quando alla visione del mare greco si sovrappone il ricordo di quello Tirreno, dai fondali ricchi di prede; e di lì si apre una rievocazione dei «Poggi di Fiesole» e dell’incanto primaverile di Bellosguardo. Questa parentesi di Ver blandum, inattestata nell’Avviso Treves, è tutt’altro che un “a parte” lirico esornativo cui d’Annunzio pone fine con la rievocazione delle imprese, ben poco eroiche, degli Ulissidi piromani: si tratta invece del primissimo indizio del movimento che congiungerà la Grecia all’Italia (qui la Toscana, più avanti Roma), permettendo all’autore di chiudere il cerchio di Maia con la Preghiera alla Natura.
Di nuovo in terra ellenica con la tappa di Delfi; tappa reale, di cui si conserva eco nel Taccuino 1 (in Altri taccuini): la sfinge di Nasso, le tre cariatidi danzanti, un gruppo di donne greche intraviste dal poeta. Esattamente la materia della strofa che si stende fra i vv. 3612-3633; a seguire, come si diceva, un altro grande “pezzo” teorico sul primato del presente sul passato, l’elogio della modernità, di quella Decima musa cui d’Annunzio già pensava all’altezza dell’Avviso Treves: musa dei «Distruttori», quindi figlia di un Parnaso riletto alla luce di Nietzsche.
Il viaggio riprende ancora, ma mostra di qui in avanti un progressivo e inquietante sfaldarsi del dato oggettivo: le tappe evocate solo in minima parte corrispondono a quelle reali, e comunque il «periplo ellenico» che il poeta tratteggia è solo mentale, non corrisponde ad alcun percorso, né reale né possibile. Ricapitoliamo, per quanto possibile, i fatti: la crociera della Fantasia, il 4 agosto, si riavvia verso l’approdo di Corinto; il Taccuino III si chiude con lo scalo a Itea, e la celebre strage di falchi che d’Annunzio affiderà all’atto II della Città Morta.
Con la conclusione del Taccuino III (non saprei dire se ci sia un nesso di causa effetto, ma non mi sento di escluderlo), anche il rapporto di d’Annunzio con il dato di memoria cambia: quasi che la fissazione, già notevolmente strutturata in forma letteraria, del più celebre dei taccuini greci ne agevolasse l’inserimento diretto nel testo poetico. La parte successiva del resoconto di viaggio risulta tramandata dai Taccuini IV e V; o meglio solo dal V, giacché il IV si limita a registrare il contenuto – «Crociera nello Ionio e nell’Egeo / Delfo Corinto Micene» – e la data del 5 agosto, giorno dell’escursione a Delfi. Il V, d’altro canto, è ben lontano dall’aver conosciuto quel processo di nobilitazione nella scrittura che riscontriamo nel Taccuino III: è rimasto allo stato nascente dell’appunto, e presenta materiali rarefatti e saltuari. Privo di un aggancio oggettivo (o quantomeno avvertito come tale), il poeta si è dunque forse sentito più libero di ricostruire una storia che, con i dati del viaggio, quali ce li hanno conservati i resoconti dei suoi compagni di crociera (Cimini 2010), ha sempre meno a che vedere.
I fatti, dicevo, quelli reali: Itea, Kalamaki, Corinto, Micene, Argo, Nauplia, Tirinto, Megara, Eleusi ed Atene furono le tappe dei novelli Argonauti (anche se solo Micene e Tirinto vengono visitate, le altre vengono appena sfiorate); carta alla mano, un percorso sensato, da turista bene avvezzo ai tours ellenici. Quello dannunziano in Maia – anche a prescindere dall’assenza di Atene su cui parecchio si è scritto – è invece un vero labirinto, una pura proiezione mentale: dunque Corinto e l’Acrocorinto, l’altura a sud della città dove d’Annunzio non è mai salito (la Fantasia non fece scalo a Corinto), con una evocazione dei luoghi realizzata soprattutto in prospettiva mitica. E rapidamente il poema ci trasporta in un’altra realtà, quella di Tebe, anche questa puramente immaginata, perché mai raggiunta dagli escursionisti del 1895. Argo e Tirinto segnano il ricongiungimento del viaggio reale e di quello sognato, ma invano sfoglieremmo le pagine dei Taccuini, che in corrispondenza di questi luoghi restano desolatamente bianche.  La situazione non muta di molto per le tappe successive: Micene, Megara, Egina e infine Salamina, con incastonato il lungo passo sulle Cicladi (vv. 4264-8) «belle da presso e da lungi», (v. 4367), ma, che si sappia, mai viste dal poeta, né durante il viaggio del 1895 né in altra occasione. E così d’Annunzio, con qualche difficoltà, conclude il canto XII; canto che possiamo supporre tutto composto nel 1903, giacché nell’Avviso Treves compare solo il vago titolo di Periplo ellenico: a qualcosa del genere, magari, il poeta pensava già, ma ben poco, o forse nulla era stato scritto. E non credo esistesse neppure l’attuale XIII, introduzione ai misteri di Eleusi rievocati nel XIV.
È con il canto XV che il trapasso dalla Grecia a Roma, tante volte annunciato, si realizza: quanto si colloca al di là ha il sapore di un nuovo inizio, di una nuova dimensione di viaggio e di conoscenza, sottolineata dalla ripresa puntuale dei primi versi della Laus: «O Vita, o Vita, / dono terribile del dio, / come una spada fedele, / come una ruggente face, / come la gorgóna, / come la centàurea veste» (vv. 1-6 e 5524-9). Il trapasso è mediato da un canto, appunto questo XV, che condivide alcune caratteristiche con i precedenti, ma che presenta anche indiscutibili elementi di novità. Nella complessa oscillazione, che caratterizza tutta Maia, fra realtà sperimentata, sfiorata, parzialmente ricostruita, il caso di Delo è senz’altro singolare. Sull’isola, infatti, d’Annunzio non andò mai; e la Deliaca Lex, il monito superoministico: «Sii puro» offre al poeta il viatico per la sua discesa nell’inferno delle città terribili e per quanto ne consegue nello sviluppo del testo.
Alla Grecia, questa volta, d’Annunzio non tornerà più, e il congedo dalla terra ellenica marca la distanza estrema fra il progetto editoriale dell’inizio del 1903 e la realizzazione della princeps: i canti XVI, XVII e XVIII sono dedicati alla modernità, vista in una torsione potentemente espressionistica: Le città terribili (presenti già nell’Avviso Treves), pendant in chiave d’incubo delle «città soavi» del canto III, e replica italiana alle Villes tentaculaires di Emile Verhaeren pubblicate nel 1895, poi l’immersione in una romanità ferina del canto XVII (il cui contenuto è assente nell’Avviso), che ci presenta la rievocazione della Sistina e, in chiusa, la ricomparsa di Ulisse, guida anche di questa seconda tranche del viaggio. Fuori dalla dimensione protetta della Sistina e dei suoi misteri, il poeta al canto XVIII ci trascina in un tumulto di popolo, guidato dal «gran demagogo» del v. 7204; a porre termine a una deriva ideologica ben poco raccomandabile, in chiusa di canto, sarà la «Pace Romana» del v. 7581, il «novello […] mito» della «italica gente» (vv. 7559-7560).
Sono tutti canti stesi in fretta, in pochi mesi se non in pochi giorni, e oltretutto quasi sempre privi di un qualunque aggancio esterno, fra Taccuini e resoconti di viaggio di altri autori.
Sul finale dell’opera, invece, dopo l’epifania della «Pace Romana», il poeta aveva idee decisamente più chiare già al momento dell’Avviso Treves: la chiusa doveva essere all’ombra di Nietzsche, nel Deserto di Zarathustra (come ci si arrivi dalle convulse strade romane non è affatto chiaro), ma forse anche in quello reale del viaggio in Egitto compiuto fra 1898 e 1899, il cui ricordo è affidato al Taccuino XXVI.  Fra dato di realtà e suggestione letteraria – come potevamo dubitarne? – è però la seconda a prevalere, e l’impronta nietzschiana attira nel proprio alveo persino la quadriga platonica del Fedro, che nel poema dannunziano (come già nell’Avviso Treves) è trainata da Volontà, Voluttà, Orgoglio e Istinto.
L’uomo che nel Deserto sarà capace di rinunciare alle passioni e quindi al dominio che esse esercitano su di lui potrà attingere alla Felicità: «E quel ch’è angoscia spavento / miseria tra gli uomini, quello / le si trasmutò pel Deserto / in felicità senza nome» (vv. 7809-7812). Proprio per offrirla in dono o forse in voto alla Felicità il poeta ha composto la sua opera, sull’encomio della quale il canto XIX si chiude. Qui d’Annunzio colloca l’ultima recisa affermazione del nesso fra passato e presente: «Io feci apparire tra l’una / e l’altra sillaba i mille / volti del Passato tremendi / come sembianze di morti / che un’anima subita inondi. / Io dal vostro cozzo faville / sprigionai, baleni d’amore / che illuminarono l’ombra / del Futuro pregna di mondi» (vv. 7993-8001).
Il canto XX è tutto dedicato al «Maestro» Giosue Carducci, e dopo tanto vagare, dopo le escursioni alquanto vertiginose cui d’Annunzio ha costretto il suo lettore, torniamo infine nel solco della tradizione letteraria italiana, riaffermata con forza e decisione quale matrice dell’esperienza poetica, di Carducci innanzi tutto, ma in fondo anche di d’Annunzio stesso.
La conclusione vera e propria di Maia – e come potevamo dubitarne? – paga sino in fondo il suo debito al modello dantesco esibendo un equivalente pagano della Preghiera di San Bernardo: alla Madre immortale (identico, l’abbiamo già detto più volte, il titolo dell’Avviso Treves), simmetrica all’Inno alla madre mortale del canto IV, ma ben più rilevante in virtù della sua posizione. Si tratta di un’ennesima affermazione di palingenesi: il viaggio iniziatico di Maia consente al poeta, novello Zagreo, una nuova vita, lontana dagli orizzonti dell’esistenza umana donata dalla «madre mortale». L’incontro con Ulisse, la cui figura mi pare evocata alle spalle del dèspota del v. 8391, e soprattutto l’invocazione finale, che circolarmente suggella il periplo di Maia: «[…] necessario è navigare, / vivere non è necessario», come nei primi versi di Alle Pleiadi e ai Fati testimoniano senza dubbio che il viaggio è compiuto, ma non c’è stato sviluppo né tanto meno percorso: il viaggiatore è giunto al punto di partenza, ovvero esattamente dove voleva arrivare.

Stile e interpretazioni 

La struttura dell’opera condiziona profondamente anche l’orchestrazione delle fonti: dopo i “padri nobili” cui d’Annunzio fa ricorso nelle zone liminari del testo, Dante, Carducci, Nietzsche, Gide, il poeta segue la falsariga del viaggio reale fino circa al canto XI, secondo le annotazioni registrate nei Taccuini (soprattutto nel III, in parte anche nel 1 degli Altri Taccuini). Ma non è mai la mera realtà storica che viene versificata: d’Annunzio acquisisce sì il dato estrapolato dai suoi appunti, cui sovrappone però una accusata “placcatura” stilistica, elativa e dilatante. Questo vale sia per piccole sequenze testuali, che vengono di solito rimpinguate facendo ricorso ai consueti strumenti lessicografici, fra Tommaseo Bellini e Guglielmotti, sia per tratti narrativi più ampi. Qualche – minimo – esempio: il canto IV dovrebbe, secondo le indicazioni del diario di viaggio, seguire la navigazione da Leucade (cui sono dedicate poche righe) sino a Patrasso: ma ci porta in realtà verso tutt’altri lidi, quelli dell’Odissea, ai cui canti XIII, XX e XXI d’Annunzio allude già all’inizio dell’episodio, con il ricordo dei doni di Alcinoo e di Arete, e poi dell’arco destinato a compiere la vendetta su Antinoo. Più avanti, ai vv. 742-840, assistiamo alla ripresa puntuale di interi passi relativi al ritorno dell’eroe (canti XIX-XXIV dell’Odissea). L’esito finale sarà il processo di identificazione con Ulisse (in fondo è l’unico percorso reale che si dia in Maia), che sfocia nella rievocazione, in chiave di classicismo accusato della terra paterna (ovvero il corrispettivo di Itaca), delle tre sorelle, e infine della madre mortale. Proprio l’Inno alla madre, su cui si chiude il canto IV, segna un punto forte nella struttura del testo, giacché corrisponde alla conclusiva Preghiera alla Madre immortale (la Natura), dove il poeta ribadisce, in un moto circolare di «eterno ritorno», sia la propria identificazione con Ulisse che la perenne necessità del viaggio: «Ma odo anche un rombo lontano / che dice: “Son qua, Ulìsside. […] Riprendi il timone e la scotta; / ché necessario è navigare, / vivere non è necessario.”» (vv. 8388-8400).
Una fonte diversa, e molto meno nobile, è sottesa al canto VI (vv. 1513-1637) e a parte del VII (vv. 1681-1692): si tratta di quelle Excursions archéologiques en Grèce del Diehl, pubblicate a Parigi nel 1890, su cui ha richiamato l’attenzione Guy Tosi (Tosi 1967, p. 43). Dalle Excursions, infatti, il ricordo dei grandi strateghi, dei filosofi, dei letterati che sono andati a Olimpia per vedere consacrato il loro successo, anche se il taglio dannunziano è un po’ diverso, e il “canone dei citati” non è esattamente sovrapponibile: prima i popoli greci, poi i loro eroi, Temistocle, Pericle, Alcibiade; infine un catalogo di scrittori: Erodoto, Ippia, Gorgia, Demostene, Isocrate, Lisia, nel poema dannunziano. Il testo francese, dal canto suo (p. 230), annovera «les généraux et les hommes d’État» (Temistocle e Filopomene), «les philosophes et les littérateurs» (Anassagora, Pitagora, Socrate, Platone, Gorgia e Demostene), «les poètes» (Simonide e Pindaro) e infine «les voyants» (Apollonio Tianeo). Una guida turistica, o poco più, è dunque l’ipotesto di questo tratto, quasi che la realtà non filtrata attraverso una rivisitazione in forma scritta non sia degna di entrare nel poema, non abbia diritto di cittadinanza nel mondo dannunziano.
Fino al canto X d’Annunzio, comunque, ha a disposizione la traccia dei Taccuini, seguita più o meno da presso, ma mai ignorata; un cambiamento piuttosto radicale si produce con I miti superstiti (vv. 3111-3170), dove l’autore si confronta con le idee nietzschiane sulla mitologia (se direttamente ricavate dalla lettura della Nascita della tragedia, tradotta in francese nel 1901 da Jean Marnold e Jacques Morland, o assunte in forma mediata non è facile dirlo, ma forse non è poi indispensabile). Il finale del canto, invece, ci riporta nell’empireo della letteratura classica, con L’apparizione apollinea, tramata di echi classici, dall’Inno omerico ad Apollo a quello A Dioniso (il VII).
Via via che il poeta si allontana dal dato di realtà del viaggio e dei suoi appunti, si fa più pressante il ricorso a fonti esterne, di lignaggio vario: per esempio per Argo (vv. 4180-6) e Tirinto (vv. 4190-5) d’Annunzio fa ricorso al Thomas degli Études sur la Grèce (Thomas 1895). Si leggano i versi su Tirinto:  «[…] se mai / io torni, cercar voglio quelle / tue pietre che soffregate / dai dorsi lanosi di tante / pecore nei secoli lenti / si polirono come l’avorio» e il Thomas (p. 13): «sur la surface luisante des pierres polies sans cesse par les moutons qui s’y frottaient l’échine»; sempre a proposito di Tirinto, pochi versi innanzi, anche la definizione di «città di rupi adunate» (v. 4186) è ricalcata sulle «roches amoncelées» della stessa p. 13 del libro di Thomas. O si affacciano di nuovo fonti letterarie illustri, come nel canto XIV l’Inno omerico a Demetra che, vista la sua ampia orchestrazione narrativa, fornisce al poeta un robusto telaio per i vv. 4453-4494. Di nuovo Thomas a proposito di Eleusi e Colono nello stesso canto XIV (vv. 4563-71, 4680-2, 4685-92, 4734-9, 4784-8), cui il poeta inframmette divagazioni di più accusato prestigio letterario. Inevitabile, nel caso specifico, il ricorso al Sofocle dell’Edipo a Colono, citato in Maia proprio coi versi incipitari: «”Figlia del cieco vegliardo, / Antigone, dove siam giunti? / in quale città di mortali?”» (vv. 4579-81), e poi variamente ripreso sino al v. 4648.
I canti dal XV al XIX, quelli che segnano il ritorno in Italia e celebrano la corrispondenza fra «vita nova» e «passato augusto», sono, apparentemente, meno ricchi di fonti; in realtà la velocità della loro stesura, in pochi mesi, come s’è detto, rende piuttosto probabile che il poeta di sia valso di elementi preesistenti, appunti di lettura, spogli di vocabolari. Qualcosa è già stato identificato, qualcosa, probabilmente, resta da scoprire e molto è senz’altro da attribuire allo sforzo elativo e dilatativo che d’Annunzio mette in atto nei confronti dei propri materiali. Non è questa la sede per entrare nello specifico, ma la lettura, per esempio, di Montagnani 2007 rende l’idea del lavoro dannunziano in questa fase della elaborazione del testo.
Il canto XX, quello dedicato al Carducci, vede esibizioni di diverse fonti, tutte attinte alla nostra tradizione più alta: Dante quindi, più e più volte citato, specie là dove il rimando possa essere in qualche modo doppio, alla fonte e al passo carducciano che già a Dante si era rifatto, ma sul finale del canto anche a Foscolo (una presenza piuttosto eccentrica nel canone dannunziano). Sotto le vesti prese in prestito dalla Venere del sonetto a Zacinto il poeta ci presenta infatti una sua «[…] Dea ritornante / dal florido mare onde nacque […]» (vv. 8260-8261), contrapposta alla «[…] vergine madre / vestita di cupa doglianza» (vv. 8254-8255), il femminino cristiano destinato alla sconfitta. E il rapporto dialettico con la Commedia dantesca prosegue nel canto XXI, là dove la Preghiera alla Madre immortale (la Natura) segna l’apoteosi dei tempi nuovi, e del poeta che volle farsene interprete.
L’accoglienza critica di Maia, subito dopo la sua pubblicazione, fu trionfale: celebrata da Giuseppe Antonio Borgese nel 1903 quale apice del percorso poetico che muove da Canto novo (Borgese 1903) e, pochi anni più tardi, valutata quale una «Divina Commedia capovolta» (Borgese 1909), vide dunque riconosciuto in pieno lo statuto di «“primo” poema moderno che raccolga in sé la materia incandescente della vita nova e la memoria del passato augusto» che il suo autore le volle attribuire (Carteggio D’Annunzio-Hérelle, p. 562). Gargiulo 1912, per la prima volta, concentra l’attenzione più su Alcyone che su Maia e per una ventina d’anni, più o meno, la supremazia alcyonia rimase indiscussa. D’altro canto, l’importante volume di Binni sulla Poetica del Decadentismo  pubblicato nel 1936 cambia parecchio la prospettiva sulla questione, giacché sostiene il primato del d’Annunzio “notturno” su quello solare e vitalistico delle Laudi (soprattutto di Maia). Parzialmente in controtendenza la lettura di Giuseppe De Robertis che in un contributo del 1939 torna sulla dialettica Maia vs. Alcyone, schierandosi apertamente a favore del secondo, dove intravede la scaturigine anche dello stesso d’Annunzio “notturno”. Sulla sua scia si colloca l’importante volume di Adelia Noferi su Alcyone del 1945 che inaugura, per la terza laude, una rinnovata stagione di studi. Ma gli anni ’50 e ’60 sono difficili per gli studi sul nostro poeta: il dopoguerra, e la totale censura nei confronti di chi fosse – o apparisse – compromesso con il regime, non incoraggiarono di certo attività di ricerca sull’opera dannunziana nel suo assieme.
Per parlare di una rinnovata attenzione e di una reale dimensione critica nella lettura dannunziana bisogna attendere tempi molto recenti: è vero che gli anni ’70, come giustamente ricorda Gibellini 1999, vedono una notevole attenzione storica verso l’autore, con il rilancio del Vittoriale degli Italiani e della sua biblioteca e il nuovo Centro Nazionale di Studi Dannunziani di Pescara, ma è il volume di Pier Vincenzo Mengaldo La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, pubblicato nel 1975 che segna, a mio avviso, un reale punto di svolta. L’analisi mengaldiana (alludo in particolare al saggio D’Annunzio e la lingua poetica del Novecento, pp. 190-216) permette, infatti, di individuare dietro la condanna ideologica che accomuna tanti autori novecenteschi, da Gadda a Longhi, a Montale, il peso che la lingua dannunziana ha esercitato su molta della nuova letteratura, e in primis su chi esibì quella notevole ostilità. A fianco della critica, ovviamente, va la filologia: il saggio di Dante Isella sul taccuino della Pioggia è del 1972, degli anni ’70 (1974 e 1976) sono i due corsi universitari di Franco Gavazzeni (vedi poi Gavazzeni 1980) che danno l’avvio agli studi suoi e di altri sulle Laudi, e soprattutto sull’intreccio compositivo fra Maia e Alcyone. Del 1975 è il saggio di Gibellini sull’Alcyone, e del 1988 l’edizione critica, sempre a cura di Gibellini; a seguire, o a accompagnare, numerosi contributi, una parte dei quali sarà ricordata nella bibliografia che segue.
Dopo, direi, non si è più tornati indietro, e le dispute ideologiche sulla personalità dannunziana, le condanne per la sua adesione al fascismo e, più in generale, per il suo animo sinceramente antidemocratico sono uscite dall’orizzonte degli studiosi più avvertiti: è rimasto, per fortuna, solo lo scrittore.

Bibliografia essenziale

La bibliografia dannunziana è, letteralmente, sterminata; qui si offriranno solo i contributi di maggiore interesse relativi a Maia innanzitutto, e alla architettura del progetto laudistico nel suo complesso.

Edizioni

Dopo quelle pubblicate in vita da d’Annunzio (di cui s’è già detto), fra le quali spicca l’ultima, apparsa per i tipi dell’Oleandro nel 1935, sarà senz’altro da ricordare quella curata da Cristina Montagnani nell’ambito dell’Edizione Nazionale, Gardone, Il Vittoriale degli Italiani, 2006. A seguire le edizioni commentate (a tutt’oggi tre), a proposito delle quali andrà notato che larghe parti del poema, soprattutto nella seconda metà, sono tutt’altro che chiare e abbisognerebbero, quindi, di una nuova annotazione.

Ezio Palmieri, Commento a Gabriele d’Annunzio, Maia, Bologna, Zanichelli, 1941.
Giuseppe Paponetti, Commento a Gabriele d’Annunzio, Maia, Pescara, Ediars, 1995.
Annamaria Andreoli, Introduzione e commento a Maia in Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, II, Milano, Mondadori, 1984.

Altre edizioni dannunziane utili per approntare questa scheda:

Gabriele d’Annunzio, Alcyone, a cura di Pietro Gibellini, Edizione nazionale delle opere di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1988.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, di lotta […], II, Milano, Mondadori 1950.
Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965.
Gabriele d’Annunzio, Altri taccuini, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1976.

Fra i materiali e i carteggi utilizzati in questa sede ricordiamo:

Carteggio D’Annunzio-Hérelle (1891-1931), a cura di Mario Cimini, Lanciano, Carabba, 2004.
Mario Cimini (a cura di), D’Annunzio, Boggiani, Hérelle, Scarfoglio, La crociera della «Fantasia». Diari del viaggio in Grecia e Italia meridionale (1895), Venezia, Marsilio, 2010.
Gabriele d’Annunzio, «Esametri» inediti, accompagnati da una Notizia  di Eurialo De Michelis, «Il Verri», 1985, n. 7-8, pp. 37-47.
Georges Diehl, Excursions archéologiques en Grèce: Mycenes, Delos, Athenes, Olympie, Eleusis, Epidaure, Dodone, Tirynthe, Tangar, Paris, Colin, 1890.
Diego Garoglio, Per le nozze di un poeta, «Il  Marzocco», a. IV, 1899, n. 40, pp. 2-3.
Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, Milano, Garzanti, 1999.
Alberto Guglielmotti, Vocabolario marino e militare, Roma, Voghera Carlo, 1889.
Gabriel Thomas, Études sur la Grèce. Beaux-Arts. Les sites et la Population, Paris, Berger-Levrault, 1895.
Nicolò Tommaseo, Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, 1865-1879.
Guy Tosi, D’Annunzio en Grèce. Laus Vitae et la croisière de 1895 d’après des documents inédits, Paris, Calmann-Lévy, 1947.

Bibliografia secondaria

Walter Binni, Poetica del Decadentismo, Firenze, Sansoni, 1936.
Giuseppe Antonio Borgese, Le nuove «Laudi» di Gabriele D’Annunzio, «L’Illustrazione italiana», 2,  1903, pp. 21-30.
Giuseppe Antonio Borgese, Gabriele D’Annunzio, Napoli, Ricciardi, 1909.
Rossella Daverio, Giorgio Pinotti, Giorgio, Una scheda per «Maia» e «Alcione»,  «Autografo», 12, 1987, pp. 81-95.
Giuseppe De Robertis, D’Annunzio. Il «Libro segreto», in Omaggio a D’Annunzio, a cura di Giuseppe De Robertis e Enrico Falqui, numero speciale di «Letteratura», marzo 1939, pp. 59-66.
Antonio Gargiulo, Gabriele D’Annunzio, Napoli, Parrella 1912.
Franco Gavazzeni, Le sinopie di «Alcione», Milano-Napoli, Ricciardi, 1980.
Pietro Gibellini, Gabriele d’Annunzio, in Storia della letteratura italiana, vol. VIII, Tra l’Otto e il Novecento, Roma, Salerno, 1999, pp. 713-755.
Pietro Gibellini, Per la cronologia di «Alcione», in «Studi di filologia italiana», XXXIII, 1975, pp. 393-424.
Dante Isella, Nota a G. d’AnnunzioDal taccuino inedito dell’“«Alcyone», «Strumenti critici», 18, 1972, pp. 163-73.
Emilio Mariano, D’Annunzio e la Grecia, «Il Verri», n. 7-8, 1985, pp. 48-76.
Pier Vincenzo Mengaldo La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975.
Cristina Montagnani, Per l’«Inno alla Delfica»: uno studio sull’elaborazione di «Maia», «Strumenti critici», V, 1990, 3, pp. 407-424.
Cristina Montagnani, Il viaggio immobile: d’Annunzio e la genesi di «Maia», «Filologia italiana», IV, 2007, pp. 215-248.
Cristina Montagnani, Pierandrea De Lorenzo, Come lavorava d’Annunzio, Roma, Carocci, 2018.
Adelia Noferi, L’«Alcyone» nella storia della poesia dannunziana, Firenze, Vallecchi, 1945.
Giorgio Pinotti, Storia e preistoria di «Maia», «Studi di filologia italiana», XLVIII, 1990, pp. 211-257.
Guy Tosi, Une source inédite de «Laus Vitae»: Charles Diehl, «Lettere italiane», XIX, 1967, 4, pp. 483-486.
Guy Tosi, D’Annunzio, Taine e Paul de Saint-Victor, «Sudi francesi», XXXIV, 1968, pp. 23-28.

 

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