di Antonella Di Nallo, Enciclopedia dannunziana
Genesi, elaborazione, vicenda editoriale
Composta in poco più di un mese, dal 30 settembre all’11 novembre del 1896, La città morta, tragedia moderna in cinque atti (così recita il sottotitolo), è il primo testo teatrale compiutamente scritto da d’Annunzio, dopo svariati tentativi drammaturgici rimasti allo stadio progettuale. L’autografo, ora conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma con segnatura ARC 21.66/1, consultabile liberamente on line all’indirizzo http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/manoscrittomoderno/ARC21661/BNCR_DAN19252_001 riporta nell’ultima carta quanto segue: «[Francavilla al mare] Nel giorno di San Martino, al crepuscolo: a.d. 1896. (Cielo grigio e piovigginoso. Lungo il mare agitato, passano vaste mandre di buoi che tornano alle pianure della Puglia. Or sì or no, nello strepito delle onde, giunge il suono fioco dei campani)».
Non c’è dubbio che sulla fertile vena creativa degli anni 1896-1903, che si apre con la composizione della Città morta e si chiude con La figlia di Iorio, e che al suo interno comprende i due Sogni, La Gioconda, La Gloria, Francesca da Rimini, abbia giocato un ruolo di primo piano il sodalizio con Eleonora Duse, lettrice appassionata, ispiratrice, interprete e sostenitrice generosa del teatro dannunziano. Se la stesura del dramma si concentra in tempi relativamente brevi, la sua elaborazione si protende in un arco temporale che occupa almeno il triennio precedente, se si escludono spunti e motivi, come quello dell’incesto, o l’idea del personaggio archeologo, che vengono da ancor più lontano (cfr. Zanetti, in d’Annunzio 2013, p. 1085). All’indomani del viaggio in Grecia, il 23 settembre 1895, d’Annunzio comunica a Georges Hérelle il proposito, mentre rilegge Eschilo e Sofocle, di «tradurre in forme materiali» il suo «sogno d’una tragedia moderna», la «finzione bellissima» ambientata tra le rovine di Micene, da poco visitata (d’Annunzio, Hérelle 2004, p. 336). Al suo traduttore chiede, contestualmente, di inviargli il libro di Schliemann, Mycènes, che ha fretta di leggere, già sapendo che il nucleo della tragedia sarà costituito dalle incredibili scoperte dell’archeologo. Di lì a qualche mese, il 18 gennaio 1896, gli comunica: «ho già sceneggiato La Città Morta ed ho tutto il dramma nella mia mente chiaro e definito»; ha difatti abbozzato uno Scenario (in Appendice a d’Annunzio 2013, pp. 1505-1508), che presenta una scansione drammaturgica in atti e scene molto vicina alla versione finale, salvo un Preludio e quattro intermezzi musicali che saranno poi espunti. In febbraio accenna ad Hérelle che sta «macchinando per la rappresentazione», giacché a Roma con Giuseppe Primoli ha «ordita una congiura spaventevole», pianificando un doppio esordio – abile stratagemma di mercato – con le due più grandi attrici del momento, Eleonora Duse e Sara Bernhardt, che nel dicembre 1896 riceve, ammirata e riconoscente, la Ville morte.
Il titolo annunciato è già quello definitivo, mentre l’iniziale slancio creativo viene poi indirizzandosi verso altri progetti, tant’è che la stesura della tragedia si situa in una zona limitrofa a quella del Fuoco, anzi, in una lunga pausa ritagliata durante la scrittura del romanzo, dentro la cui compagine è possibile leggere molti puntuali riferimenti a questo esordio drammaturgico. Difatti, il 13 ottobre 1896, d’Annunzio, scrivendone all’amico e sodale Angelo Conti, dichiara che ha interrotto da alcune settimane il romanzo “igneo” e che, febbrilmente invaso da «un torrente di bellezza», ha già delineato il fulcro dell’invenzione drammaturgica: «Sono riuscito ad abolire il Tempo e chiudere nello stesso cerchio le anime che vivono oggi e quelle che vissero nei millenni remoti». A dimostrazione poi di come la vita reale si intrecci con l’immaginazione creativa, sta la dichiarazione fatta a Emilio Treves nel novembre ’96 a proposito del Fuoco (Stelio Effrena compone la Città morta per una grande attrice al tramonto, la Duse/Foscarina): «Il penultimo capitolo del Fuoco ha la descrizione della “prima” della Città morta. Se non avrò il trionfo sul teatro reale, almeno l’avrò – e come magnifico! – nel mio romanzo stesso» (Oliva 1999, p. 200). Ma ha già ben chiaro in mente anche la destinazione spettacolare se, via via che compone, fa recapitare ad Hérelle pagine manoscritte da tradurre in francese, avendo stipulato in luglio, come si diceva, un contratto con Sarah Bernhardt per una prima rappresentazione della Ville morte a Parigi. Nell’aprile del 1897, sospesa la scrittura del Fuoco e rinviata la première della tragedia a causa degli impegni pregressi della Bernhardt, si mette a scrivere una pièce in un atto che ha promesso ad Eleonora; un «soggetto e nuovo e squisito» – scrive a Hérelle (d’Annunzio, Hérelle 2004, p. 304) – «Spero di fare una cosa bella»: così, il Sogno d’un mattino di primavera, che presto sarà affiancato dal Sogno d’un tramonto d’autunno, consentirà al poeta di debuttare in palcoscenico nel nome della Duse.
Proprio ripercorrendo il carteggio con Hérelle, si è certi che l’idea di presentare il testo in francese, senza traccia di traduzione, d’Annunzio la escogiti per ben precise ragioni d’arte e di strategia culturale. Il battesimo oltre frontiera, sulle scene parigine, con un testo senza peccato di lingua originale deve essere immediatamente percepito dal pubblico francese non come una sortita all’estero, non come un’operazione di esportazione, né tantomeno di traduzione. Di qui la scelta “premeditata” dell’interprete per Parigi, la più acclamata attrice di Francia. Una soluzione non dissimile da quella che adotterà tra qualche anno Marinetti per Le roi Bombance, ma ancor prima, nel 1896, Oscar Wilde per Salomé, scritta direttamente in francese e proprio per essere recitata da Sarah Bernhardt. Le atmosfere senza tempo del teatro dannunziano trovano del resto un sorprendente presupposto proprio nella visione dell’arte che in più luoghi Oscar Wilde pronuncia, convinto che non sia di nessun vantaggio chiedere alla musa della poesia di emigrare dalla Grecia e dallo Ionio.
D’Annunzio sa bene che Parigi è il crogiuolo delle più moderne tendenze drammaturgiche, oltre che palcoscenico della contemporanea “rinascenza” del teatro antico. La materia che lo scrittore ha scelto è in perfetta sintonia con tutto questo: il richiamo dell’antichità greca, la maledizione degli Atridi, il tesoro di Micene – «Nell’Argolide “sitibonda” / presso le rovine / di Micene ricca d’oro», si legge in calce alle dramatis personae – immettono contemporaneamente in un filone drammaturgico che guarda al moderno da una distanza mitica e come fuori del tempo, e insieme riformulano la domanda sulle sorti e la natura del tragico alle soglie del Ventesimo secolo.
Così, la vicenda del doppio battesimo della Città morta, in Francia e in Italia, l’equivoca e tormentata storia che porterà, ancora una volta, al confronto, pur a distanza, fra la Duse e la Bernhardt, la duplice veste linguistica del testo, sono circostanze non fortuite e più che sintomatiche dell’impronta europea che D’Annunzio vuole subito dare al suo battesimo teatrale. Se la première francese andò in porto, ma più tardi del previsto, in un Théâtre de la Renaissance affollatissimo, il 21 gennaio 1898, con Sarah Bernhardt nel ruolo di Anna, malgrado la stampa desse per imminenti le recite di Milano e Roma, bisognerà attendere il 20 marzo 1901 perché il pubblico italiano potesse assistere al Lirico di Milano – tutto esaurito – all’interpretazione dusiana, immortalata da splendide foto di scena, oggi conservate presso la Fondazione Cini di Venezia. Inoltre, mentre racconta l’esito incerto del debutto parigino, il «Corriere della sera» annuncia l’uscita simultanea in Italia dell’elegante volume della tragedia per i tipi dei Fratelli Treves. Nello stesso 1898 La ville morte esce in Francia da Calmann-Lévy con il sottotitolo Tragédie moderne en cinq actes e senza indicazione del nome del traduttore, consenziente Hérelle. I primi telegrammi da Parigi riferivano di un successo letterario più che teatrale, e difatti i critici francesi, pur divisi fra estimatori e detrattori, se espressero pareri piuttosto concordi nel lodare la tragedia come opera di poesia, apprezzandone lo stile, giudicarono invece scadente la missinscena e mediocre la recitazione degli attori, fatta salva l’interpretazione della Bernhardt (gli altri attori furono: Blanche Dufrène nel ruolo di Bianca Maria, Abel Deval di Leonardo, Léon Brèmont di Alessandro, Andrée Conti della nutrice). A Milano la Duse, nei panni di Anna, fu affiancata da Ermete Zacconi (Leonardo), cui l’attrice, affaticata dalle estenuanti tournée all’estero, aveva demandato la responsabilità dell’allestimento. Ines Cristina fu Bianca Maria, Carlo Rosaspina Alessandro, Mina Magazzari Galliani la nutrice. Dopo quasi quattro ore – tale fu la durata dello spettacolo – il pubblico del Lirico uscì stanco dal teatro. Il primo atto, riferisce Giovanni Pozza, era piaciuto; il secondo, denso di impeti lirici e di «passione irrompente» fu seguito con intensa attenzione; al terzo atto si registrarono i primi segni di impazienza; disattenzione al quarto: il pubblico, stanco di divagazioni, vorrebbe che l’azione precipitasse in catastrofe, ma applaude all’ultimo grido di Anna; al quinto atto, dall’ultima galleria si alza un grido «Assassino!», rivolto a Zacconi che interpreta Leonardo; la recita è sospesa, poi riprende, poi di nuovo tumulti fino all’apparizione della Duse sul fondo della scena; il sipario cala fra manifesti segni di disapprovazione (Pozza 1971, pp. 349-354).
A fronte della generale perplessità di pubblico e critica dinanzi alla verifica della scena del progetto drammaturgico dannunziano, vòlto al rinnovamento del teatro contemporaneo, i più solerti difensori del poeta furono certamente gli amici del «Marzocco», che inneggiarono entusiasti alla nascita, finalmente, del dramma lirico di poesia. Del resto, i «marzocchini» avevano seguito da vicino il sogno dannunziano e dusiano della rinascenza della tragedia antica e della fondazione di un grande teatro italiano en plein air. Ai critici che lamentano una sorta di discrasia fra la potenza letteraria del testo e la debolezza del meccanismo drammaturgico, a quelli, come Capuana, che criticano l’astrattezza dei personaggi, i quali sembra che «abbiano paura di dire qualcosa di umano, di vero» (in Granatella 1993, p. 172), Angelo Conti risponde che essi, abituati a una scuola letteraria che rappresenta «solo cose che gli occhi vedono e che le orecchie ascoltano», ignorano che l’opera d’arte non si fonda sull’osservazione diretta della realtà ma «nasce da una visione per giungere ad una invenzione» (Conti in Oliva 2002, p. 398). La più appassionata difesa del teatro dannunziano, e della Città morta nella fattispecie, viene proprio da Angelo Conti, che non solo richiama il magistero wagneriano nella rinascita della grande anima tragica, dentro cui l’azione diventa una visione restituita dal ritmo delle parole, dalla successione delle immagini, dal gesto e dal movimento della danza, ma riconnette il linguaggio tragico dell’esperimento dannunziano a una moderna e originale ridefinizione del coro, vale a dire, l’esaltazione dell’elemento lirico, l’euritmia delle parti, il «sentimento musicale» espresso nella scansione dei periodi e nella successione di pause e suoni. Di tutt’altro avviso, la recensione pirandelliana alla Città morta, che non meraviglia se si pensa a quali trasformazioni andranno incontro “le sorti del tragico”, di lì a poco, proprio nel teatro di Pirandello. Dal suo punto di vista, quello del futuro autore dell’Umorismo, più che una tragedia, La città morta è una farsa: «farsa per il modo com’è scritta, farsa per quel che rappresenta, farsa perché mi sembra fatta per ridere» (Pirandello 2006, p. 263).
Contenuto e struttura
La tragedia, ambientata in un tempo non precisato «nell’Argolide ‘sitibonda’ presso le rovine di Micene ricca d’oro», come si legge nel paratesto subito dopo le dramatis personae, è agìta da quattro personaggi (cui si aggiunge la nutrice), due coppie costituite rispettivamente da uno scrittore in crisi di creatività (Alessandro) e sua moglie (la cieca Anna), da un archeologo (Leonardo) e sua sorella (la giovane Bianca Maria). I cinque atti contano un numero di versi che decresce via via da un atto all’altro, come l’autore ha mostrato ad Hérelle in un disegnino ai margini della lettera datata 3 novembre 1896.
Atto primo. La particolareggiata didascalia d’apertura guida la costruzione dello spazio scenico, il medesimo anche nel terzo e nel quarto atto, occupato da una stanza vasta e luminosa, aperta su una loggia balaustrata che si protende verso l’antica città dei Pelopidi. Il piano della loggia si eleva sul pavimento della stanza per cinque gradini di pietra disposti in forma di piramide tronca, come dinanzi al pronao d’un tempio.
Due colonne doriche segnano il confine, presto una tensione, fra lo spazio interno, dove agiscono i personaggi, e lo spazio esterno, dove si intravedono le immagini dell’Acropoli «con le sue venerande mura ciclopiche interrotte dalla Porta dei Leoni», gli scenari dipinti da Rovescalli. Le direttive date da d’Annunzio a Zacconi, a cui spedisce le fotografie che erano servite per la rappresentazione parigina, confermano la funzione centrale attribuita al paesaggio: «il fondale della Porta dei Leoni» della prima scena, ribadisce il poeta, è «importante per la comprensione di alcuni episodi» (Zacconi in Valentini 1993, p. 71n).
Era la prima volta, almeno in Italia, che un allestimento scenico del teatro di prosa rispondesse alla precisa volontà dell’autore del testo. Intenzionato a incantare lo spettatore con suggestioni non solo visive ma anche sonore, D’Annunzio avrebbe voluto la presenza di un’orchestra che potesse eseguire sinfonie sceniche in profondo accordo con l’intima espressione dei caratteri; e anche se poi l’esecuzione musicale non ebbe luogo, fu subito chiara la novità espressiva dell’allestimento, curato personalmente da d’Annunzio, a simulare un autentico spazio archeologico, quasi un’esposizione museale, fatto di oggetti – calchi di statue greche, frammenti scultorei, bassorilievi, suppellettili – investiti di funzione drammaturgica piuttosto che decorativa. Le foto di scena dell’allestimento milanese, assieme alle diverse recensioni seguite alla première italiana, consentono di verificare la consonanza fra i suggerimenti delle didascalie e l’effettiva realizzazione del quadro scenico. La prima scena si apre con Bianca Maria che legge ad Anna due passi dell’Antigone, in traduzione, l’inno a Eros e il dialogo dell’eroina con il coro, mentre va a morire (vv. 781-816). La luce abbacinante, i costumi e le capigliature delle due donne, le loro pose preraffaellite, le movenze lente di Anna, che più volte con le mani cerca delicatamente il contatto fisico con la fanciulla, contribuiscono a creare una sorta di quadro vivente, entro cui i primi dialoghi lasciano presagire i segni della tragedia: la «primavera moribonda» di cui si lamenta Bianca Maria, «così ardente che dà la stanchezza e la soffocazione»; il sogno strano di Anna, che è tormentata dalla paura della vecchiezza; la sua «cecità veggente»; il motivo archeologico intrecciato con riferimenti alla tragedia antica, quindi il racconto di Bianca Maria della salita a Micene in compagnia del fratello alla ricerca, in un’atmosfera allucinata, della fonte Perseia e dei tesori sepolti; la percezione dell’enigmatico comportamento di Leonardo, la febbre che lo divora. Nella quarta scena, al gruppo quasi scultoreo delle donne si unisce Alessandro, visibilmente turbato alla presenza di Bianca Maria, e già quasi presago, a proposito dello strano comportamento di Leonardo, che la polvere calpestata dagli Atridi conservi traccia della loro maledizione. L’ingresso di Leonardo, che nella quinta scena annuncia, quasi in preda a un delirio, il ritrovamento del tesoro dei sepolcri, «la più grande e la più strana visione che sia mai stata offerta a occhi mortali», lascia il posto all’ultima scena, brevissima, dove Anna, rimasta sola, oppressa da una cupa tristezza comanda alla nutrice di prendersi cura dei fiori appassiti e di raccogliere un’allodola morta, contrassegno di luttuosi presagi.
Atto secondo. Siamo nell’appartamento di Leonardo, dalle pareti di colore «rosso cupo», colmo degli oggetti ritrovati nella tomba degli Atridi. Si avvicina l’ora del tramonto. È qui che il passato irrompe nel presente, annullando l’errore del tempo. La prima e l’ultima scena sono occupate rispettivamente dalla confessione dell’amore che Alessandro nutre per Bianca Maria, che lo ascolta spaventata e dolente, e dalla confessione dell’amore, ben più grave perché incestuoso, in quanto rivolto alla sorella, che Leonardo fa ad Alessandro. Tra le due dichiarazioni, si inserisce quella che d’Annunzio definisce «la scena di Cassandra», con Anna che si avvicina prima alle ceneri della profetessa e le fa scorrere tra le mani, poi alla sua maschera, per quasi evocarne il fantasma attraverso citazioni dall’Agamennone di Eschilo.
Atto terzo. Anna riconquista assoluta centralità, dopo la breve apparizione dell’atto precedente. La grande loggia, la stessa del primo atto, è ora aperta su un cielo notturno «palpitante di stelle». C’è un profondo silenzio. La tensione drammatica sembra sciogliersi nel disteso e malinconico dialogo tra la nutrice e la protagonista, che va con la mente ai ricordi d’infanzia, al rimpianto per la mancata maternità, al segreto mai svelato del suicidio della madre, e infine alla favola di Io trasformata in giovenca. Un lungo dialogo con Leonardo rallenta ulteriormente lo sviluppo dell’azione ed ha per oggetto la rassegnata consapevolezza della passione che il marito nutre per Bianca Maria, rivelazione decisiva per il sinistro proposito di Leonardo; ma la cecità veggente di Anna, dirà Umberto Artioli (1995, p. 85), non le fa intuire la pulsione incestuosa del giovane. Piena di presagi e allusioni al tragico finale è l’ultima scena (Anna: «Io credo di udire scorrere l’acqua sul vostro corpo come su la statua di una fontana», dove Bianca Maria riprende, su invito di Anna, la lettura tragica, il dialogo tra Cassandra e il coro dei Vecchi, da Eschilo, e poi l’Antigone interrotta al primo atto.
Atto quarto. Si fa subito chiara la «risoluzione estrema» di Leonardo, che si avvia con la sorella, mano nella mano, verso la fonte Perseia, mentre Anna sempre più sgomenta, intuisce finalmente, parlando con il marito, l’orribile segreto: «Un turbine violento – le dice Alessandro – ci trascina verso non so qual termine. Siamo la preda d’una forza oscura e invincibile».
Atto quinto. La scena unica si svolge in un luogo aperto, «solitario e selvaggio», nei pressi della fonte Perseia. Il cadavere di Bianca Maria, supino, giace ai piedi di un cespuglio di mirti, «le vesti bagnate le aderiscono al corpo; i capelli pregni d’acqua le fasciano il volto in guisa di larghe bende; le braccia sono distese lungo i fianchi», immagine che ricorda la celebre tela di Millais ispirata al personaggio di Ofelia. Leonardo, in piedi accanto alla morta, spiega ad Alessandro, con voce lacerata e in preda al delirio, la purezza del suo gesto, compiuto «per salvare la sua anima dall’orrore che stava per afferrarla». Appare infine Anna, brancolando nell’ombra. «Ella si piega su la morta, perdutamente, palpandola, finché giunge al viso, ai capelli ancóra impregnati dell’acqua letale» e getta un grido acutissimo, cui seguono le parole conclusive della tragedia: «Ah!… Vedo! Vedo!».
Stile e interpretazioni
L’architettura della Città morta è rigorosamente calcolata: l’incastonarsi simmetrico dei personaggi e dei loro destini obbedisce a un sistema di proporzioni studiato e persino disegnato, come si diceva. Scrive d’Annunzio a Hérelle il 22 novembre 1896 (2004, pp. 431-32):
[…] come vedrete, non vi è nulla di ozioso. Tutto è convergente alla catastrofe. Il dialogo del secondo atto, tra Bianca Maria ed Alessandro, – l’unico tra i due – se bene lungo, non ha una parola di troppo; poiché reca incluse le ragioni dell’opera. Come nell’anima della vergine, così nel dramma «l’errore del tempo» è abolito. E Agamennone e Cassandra, come Anna e Leonardo, sono anch’essi dramatis personae.
L’inesorabilità degli eventi sposta l’attenzione dal campo della fugacità e della precarietà al campo della circolarità del tempo e del nietzschiano eterno ritorno. Il mondo classico, delle rovine e dei fantasmi, non è una dimensione perduta irrimediabilmente, bensì attiva e vitale, eternatrice si direbbe, foss’anche nella dolorosità degli eventi, vissuti non tanto fuori del tempo, quanto invece in una continuità di significato in cui tempo antico e tempo presente si congiungono. Questa idea di resurrezione dell’antico, che la poesia della Città morta – perché di teatro di poesia si tratta – pone al centro della sua ispirazione porta alla ribalta lo speciale rapporto che d’Annunzio stabilisce con il mondo classico, richiamato subito in apertura, come una σφραγίς, un sigillo, con la traduzione di alcuni passi dell’Antigone. Il fatto che il drammaturgo abbia richiesto per questi versi, senza esito, la consulenza di un competente classicista qual era il Pascoli, prova che l’orizzonte di riferimento non è tanto il classicismo carducciano ma una modernissima sensibilità dell’antico, in linea anche con quanto veniva maturando contemporaneamente in Europa. Così, se palese è la convergenza con il gruppo del «Convito», prima ancora che con il «Marzocco», più sottotraccia ma non meno pregnante, come è stato notato, è l’affinità con il misticismo pagano del cenacolo parigino dei simbolisti di nuova generazione, Régnier, Gide, Louÿs, Valéry (Zanetti, in d’Annunzio 2013, p. 1089) proprio per quanto attiene al tema della resurrezione dell’antico. Ma senza dubbio, sul versante propriamente drammaturgico, il riferimento più prossimo è il modello maeterlinckiano (diffusi i richiami testuali al Pelléas et Mélisande), specie quando il ritrarsi dell’azione e l’eloquenza del gesto riescono a esprimere un nuovo profondo senso del tragico. Certo è che la proposta teatrale dannunziana va nella direzione diametralmente contraria a quella percorsa dalla drammaturgia borghese coeva.
Gli anni in cui D’Annunzio è alle prese con la scrittura drammaturgica sono all’incirca gli stessi durante i quali il giovane Rainer Maria Rilke apre e precocemente chiude il capitolo teatro, profondamente ispirato, anche lui, dalla figura della Duse. Ed è in quel tempo che Hugo von Hofmannsthal, a chiarificazione di sé stesso, scrive al grande Fancis Bacon una lettera immaginaria per scusarsi della rinuncia all’attività letteraria, per poi portare a compimento l’Elettra, l’Alcesti, una traduzione di Edipo re e la tragedia Edipo e la Sfinge. È noto come il giovane scrittore austriaco sia stato attratto, proprio negli anni Novanta, dall’opera dannunziana, altrettanto noto il suo successivo e definitivo allontanamento. Anello di congiunzione fra la drammaturgia dannunziana e la riflessione sul teatro che ne deriveranno Rilke e Hofmannsthal, è Eleonora Duse, rispecchiata, volta a volta, da ciascuno in configurazioni diverse eppure complementari, che toccano anche lo statuto della parola poetica, la sua tenuta, la sua resistenza, il suo scacco, o la sua onnipotenza. Per D’Annunzio la Duse esiste e vive nel contatto con la personalità creatrice, è «materia ardente e duttile» (Il Fuoco 1996, p. 278), consanguinea delle eroine tragiche sofoclee: nello svuotamento funzionale alla pienezza che è pronta a ricevere, ella è la Rivelatrice. Rilke (nei Quaderni di Malte Laurids Brigge) parte da un presupposto contrario: la Duse impiega la finzione scenica più per celare, e quasi proteggere, il suo mondo interiore che non per svelarlo al pubblico; piuttosto che inseguire una forma di pienezza, «quell’unità di vita – diceva D’Annunzio – a cui tende lo sforzo della mia arte» (Il Fuoco 1996, p. 278), il pensiero di Rilke sul teatro testimonia come al contatto con la realtà, anche la personalità umana e artistica della Duse è destinata a sgretolarsi. Nel Ritratto (Bildnis) che le dedica nella raccolta Der Neuen Gedichte anderer Teil (Nuove poesie. Seconda parte), Rilke vede la Duse nelle pose dolorose e stanche, «il mazzo sfiorito dei suoi bei lineamenti», «già quasi disfatto». Quando Hofmannsthal nel 1903 rievoca l’attrice nelle vesti dei memorabili personaggi dannunziani, rafforza ulteriormente l’impressione maturata già nel 1892 in occasione della tournée viennese della Duse, occasione in cui aveva osservato che ella, al contrario della Bernhardt, non recita sé stessa ma il personaggio dello scrittore. Questo scrittore ora è inequivocabilmente D’Annunzio e l’opera allusa è La città morta:
Vuole servire un poeta, si dà nelle mani di un poeta, si dà nelle sue mani come un essere senza volontà, come cosa sua […] E il suo poeta la conduce presso il cadaveredi Cassandra, le fa posare le mani sulle labbra di Cassandra; e la tuffa nella rossa vampa dell’inferno; […] ed egli l’acceca e la fa scivolare attraverso la scena con mani che vedono, col corpo che sente; e le dà scene in cui può scompigliarsi i capelli disciolti, e scene in cui gioca con rose in fiore, e scene in cui compare tra il verde novello dei cespugli con sguardo folle, eppure più tenera di un bambino. (Hofmannsthal 1991, p. 58).
Nella morfologia della Città morta, le immagini della cenere e dell’oro sono emblemi del tempo e dell’eterno ma sono prima di tutto forme visibili, che esigono di essere guardate dallo spettatore. C’è poi un’altra implicazione del vedere. Le rovine vedute in Grecia stimolano la vena immaginativa: «imaginare la scoperta dello Schliemann» appunta d’Annunzio nei Taccuini (Altri taccuini 1976, p. 17); si tratta dunque di un vedere letterario, lì dove il viaggiatore nelle forme di ciò che ha sotto gli occhi trova conferma di quel che si attende e che intanto ha letto nei libri, facendosene suggestionare. Nell’ideazione e poi nell’ordito della Città morta, come un refrain, torna ossessivamente il tema della vista, ma sarebbe più corretto dire della visione: gli spaventosi fantasmi di Leonardo, «sempre diritti innanzi agli occhi tra la polvere ardente», scrive nel romanzo “igneo” (Il Fuoco 1996, p. 169), lo sguardo cieco di Anna, il recupero finale della vista. Tra i più memorabili passaggi:
BIANCA MARIA: […] Sembra che le vostre dita vedano… Non so: è come uno sguardo che insista, che prema… Ciascuna delle vostre dita è come una palpebra che sfiori… Ah, sembra che tutta l’anima discenda all’estremità delle vostre dita, e che la carne perda la sua natura umana. Il colore di queste vene è indicibile… […] (La città morta 2013, p. 110)
LEONARDO [ad ALESSANDRO]: Ah, perché non c’eri? Perché non c’eri? Tu, tu dovevi essere là, Alessandro! La più grande e la più strana visione che sia mai stata offerta a occhi mortali; un’apparizione allucinante; una ricchezza inaudita; uno splendore terribile, rivelato a un tratto, come in un sogno sovrumano… (Ivi, p. 123)
Ad amplificare la funzione visiva, la cura meticolosa dell’allestimento scenico, lo sfavillio dei tesori, l’impiego della luce e dell’oro, non meno eloquenti delle parole pronunciate dagli attori. Insomma, un vedere che non equivale al semplice osservare, come chiarisce Angelo Conti a proposito dei drammi dannunziani: «l’opera d”arte non si fonda mai sull’osservazione diretta della realtà esteriore, ma sempre, in tutte le forme artistiche, nasce da una visione per giungere ad una invenzione» (in Oliva 2002, p. 398). Non per caso, filtrando la concezione shopenhaueriana, d’Annunzio fa dire a Daniele Glauro che nella sua arte la visione, penetrando oltre le apparenze, disvela la vita segreta del cosmo:
[…] i tuoi sensi sono così acuti che godendo delle apparenze penetrano fin nel più profondo e incontrano il mistero e ne rabbrividiscono. La tua visione si prolunga oltre il velo su cui la vita dipinge le sue figure voluttuose nelle quali tu ti compiaci. (Il Fuoco 1996, p. 36).
Proprio in diversi passi del Fuoco, direttamente in prossimità della tragedia, la descrizione della Duse/Foscarina richiama l’arte statuaria, e riprende a un tratto il luogo comune, certamente noto a D’Annunzio, dell’importanza dello studio della scultura antica per le pose tragiche degli attori:
Le statue [dice Foscarina] erano le mie mète. Andavo dall’una all’altra, e mi fermavo come se le visitassi. Alcune mi sembravano bellissime, e io mi provavo a imitare i loro gesti. Ma rimanevo più lungamente in compagnia con le mutilate, quasi per istinto di consolarle. La sera, sul palco, mi ricordavo di qualcuna e avevo un sentimento così profondo della sua lontananza e della sua solitudine nella campagna tranquilla sotto le stelle, che mi pareva di non poter più parlare. (Il Fuoco 1996, p. 256)
Il personaggio di Anna della Città morta si forma in questo clima paradisiaco di hortus conclusus, pervaso dalla ossessiva meditazione sul tempo, di cui anche le statue, come ombre del passato irrevocabile, sono emblemi. Nello studio, per così dire, della parte di Anna, la proverbiale “estatica staticità” degli sguardi e delle pose si configura come esercizio di recitazione plastica: «Tieni gli occhi immobili, come due pietre! Sei cieca. E vedi tutto quel che gli altri non vedono» (La città morta 2013, p. 277); «Ella ebbe nei suoi occhi la cecità delle statue immortali. Ella vide sé stessa scolpita nel gran silenzio» (Ivi, p. 278); «Tutto il suo volto si fece di marmo» (Ivi, p. 279); «Ella non rispose. Le linee marmoree del suo volto si mutarono come se vi passasse un’onda leggera. Un solco s’incavò tra i sopraccigli» (Ivi, p. 280). Ma poi, le statue mutilate che lei ama, e che d’Annunzio ama, diventano anche vivo spunto drammaturgico. Se la Duse sa dare accenti mirabili proprio dove assume su di sé la menomazione fisica di Anna (la cecità), ancor più eloquente sarà nella Gioconda, dove la mutilazione diventa motivo letterario pensato appositamente per «La Duse dalle belle mani».
Bibliografia essenziale
Edizioni apparse in vita:
Gabriele d’Annunzio, La città morta, Milano, Treves, 1898.
Gabriele d’Annunzio, La città morta. Tragedia, in Id., Tutte le opere (Istituto nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio), Mondadori, 1929.
Altre edizioni
Gabriele d’Annunzio, La città morta, in Tragedie sogni e misteri di G. d’Annunzio, con un avvertimento di Renato Simoni, I, in Id., Tutte le opere, a cura di Egidio Bianchetti, sotto gli auspici della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, Mondadori, 1939.
Gabriele d’Annunzio, La città morta in Id., Tutto il teatro, a cura di Giovanni Antonucci, Grandi tascabili economici Newton, 1995.
Edizioni commentate:
Gabriele d’Annunzio, La città morta, a cura di Emilio Mariano, Milano, Mondadori 1975.
Gabriele d’Annunzio, La città morta, a cura di Milva Cappellini, Milano, Mondadori, 1996.
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