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Francesca da Rimini

 di Donato Pirovano, Enciclopedia dannunziana

 Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

La Francesca da Rimini – prima opera di un ciclo drammatico in tre momenti dedicato alla famiglia riminese dei Malatesti cui farà seguito la Parisina ma non il progettato Sigismondo – è una tragedia di 4178 versi (endecasillabi, settenari e quinari), strutturata in cinque atti per un totale di 25 scene, che debuttò al Teatro Costanzi di Roma il 9 dicembre 1901.
Il fascino della tragica storia d’amore di Paolo e Francesca – profilata da Dante in Inferno v, disegnata dai primi commentatori fiorentini (soprattutto Andrea Lancia e l’autore anonimo del cosiddetto Ottimo commento) che vi aggiunsero particolari assenti nella Commedia, e poi di fatto riscritta da Boccaccio nelle sue pubbliche letture al poema dantesco (poi diventate Esposizioni sopra la Comedia) tanto da diventare una sorta di novella che non figurerebbe male nel Decameron – non lasciò immune d’Annunzio, il quale la rielaborò già nel racconto giovanile Nell’assenza di Lanciotto, inizialmente pubblicato nella «Fanfulla della Domenica», il 20 e il 27 gennaio 1884, e poi compreso nel Libro delle Vergini edito da Sommaruga nel medesimo anno. La novella, articolata in sette capitoli, narra l’innamoramento tra la giovane Francesca e il cognato Gustavo, durante la lontananza del marito Valerio.
Ma è nel 1901 che la passione per la Commedia, condivisa dall’allora compagna Eleonora Duse – per la quale Gabriele aveva coniato anche il soprannome ‘dantesco’ Ghìsola o Ghisolabella –, produsse il frutto più maturo. Qualche mese prima (gennaio-marzo 1899) rileggendo il poema dantesco a Corfù, in un bosco d’ulivi, in faccia al mare, d’Annunzio, a suo dire, avrebbe percepito per la prima volta la vera grandezza della Commedia, e una volta rientrato in Italia ebbe pure l’onore di varcare la soglia del tempio della dantistica contemporanea, la sala fiorentina di Orsanmichele, dove si teneva la Lectura Dantis sorvegliata dalla Società Dantesca Italiana, quando, l’8 gennaio 1900, fu chiamato a leggere il canto ottavo dell’Inferno, in sostituzione dell’indisposto Carducci.
Un anno più tardi, dopo il fortunato debutto milanese della Città morta (20 marzo 1901) matura l’idea di scrivere la Francesca e la comunica alla Duse negli ultimi giorni di aprile. L’attrice, che – sebbene non più giovane – avrebbe avuto il ruolo di protagonista, è entusiasta e condivide sùbito il progetto dell’«alleato» tanto da accompagnarlo in visita didattica a Ravenna e a Rimini nell’ultima decade di maggio. Nel frattempo Gabriele si immerge nello studio della storia e della società duecentesca per delineare con cura l’ambiente della sua tragedia, in quella «Romagna» che «non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor’ de’ suo’ tiranni» (Inf., xxvii 37-38).
Alla Villa La Capponcina di Settignano (FI), dove allora risiedeva, affluiscono i libri. Oltre ai consigli di noti studiosi di Dante che erano allora suoi vicini di casa come Giuseppe Lando Passerini e Guido Biagi, furono prodighi di suggerimenti bibliografici soprattutto Annibale Tenneroni, Corrado Ricci e Francesco Novati, coi quali d’Annunzio tenne intensi scambi epistolari. Il direttore della Biblioteca Marucelliana di Firenze, Angelo Bruschi, non lesinò i prestiti. Altri libri vennero acquistati compulsivamente sul mercato.
Considerati gli oltre 4000 versi, la stesura della tragedia, avvenuta a Viareggio, fu breve. Lo si apprende dall’autografo ora conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma con segnatura ARC 5.I/C1 consultabile liberamente on line all’indirizzo http://digitale.bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/manoscrittomoderno/ARC5IC1/BNCR_DAN15486_001, che riporta le date esatte di conclusione di ogni atto. Atto i: 18 luglio; Atto ii: 9 agosto; Atto iii: 18 agosto; Atto iv: 1 settembre; Atto v: 4 settembre.
Il 3 ottobre 1901 alla Capponcina d’Annunzio legge la tragedia ai futuri interpreti e al maestro Antonio Scontrino, incaricato degli intermezzi musicali; con loro ci sono alcuni giornalisti, e ancora Bruschi, Passerini e Adolfo Orvieto – allora direttore della rivista «Il Marzocco» –, accorso da Rapallo; non manca l’onnipresente veterinario abruzzese Benigno Palmerio, amico e amministratore di Gabriele.
Annunciata da un manifesto grandioso in inchiostro nero e rosso raffigurante una donna seduta al centro di un roseto vermiglio i cui rami intrecciati modellano un cuore, elaborato da Adolfo de Carolis – pittore e docente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze incaricato di occuparsi in tempi molto brevi di scenografie, costumi e manifesti –, la Francesca da Rimini con Eleonora Duse nel ruolo di protagonista va in scena la sera di lunedì 9 dicembre 1901 al Teatro Costanzi di Roma. L’attesa per quello che viene ritenuto l’evento teatrale dell’anno è enorme e già alle sette di sera una ressa di spettatori aspetta stipata davanti all’edificio. Quando si permette l’ingresso, la folla irrompe all’interno dividendosi nell’atrio, nel loggione e nelle gallerie. Il gran numero di guardie schierato a protezione degli illustri ospiti previsti per questo esordio fatica a far rispettare l’ordine. Il drammaturgo si presenta a teatro con il suo Dante sotto braccio, come se fosse un libro di preghiere, per leggere – a suo dire – il canto quinto dell’Inferno in attesa dell’esito scenico, ma in realtà ultra indaffarato a seguire la prima della sua opera e a rispondere alle ripetute chiamate del pubblico. Iniziata poco dopo le venti, la tragedia si prolunga per ben sei ore, nonostante il taglio del dialogo tra le ancelle di Francesca che avrebbe dovuto aprire il quinto atto. L’eccessiva lunghezza e le trovate sceniche, come il fuoco vero impiegato per l’episodio di battaglia del secondo atto il quale produce un fumo che si propaga in teatro tanto da causare fastidi respiratori in molti spettatori, non contribuiscono al successo dell’opera e l’esito risulta, infatti, incerto, tra fischi di disapprovazione e applausi. Ciò nonostante d’Annunzio orgogliosamente accompagna la protagonista in camerino proclamando: «Dopo tutto io mi chiamo d’Annunzio e Lei si chiama Eleonora Duse».
La grande attrice, che si era avvicinata a questa prima con dubbi e remore tanto da saltare per presunti e improvvisi malori anche alcune prove, investì molto denaro arrivando alla cifra per allora rilevantissima di quattrocentomila lire, la maggior parte impiegata per i soli allestimenti scenici voluti fortemente dal drammaturgo. Se la prima fu un insuccesso, sarà soprattutto grazie alla bravura della Duse se la tragedia ottenne successivamente un buon séguito di pubblico e lusinghiere recensioni, soprattutto durante la tournée internazionale.
Dopo il debutto a teatro, alcune scene della tragedia cominciano a circolare su rivista già a partire da metà dicembre 1901, mentre d’Annunzio lavora all’editio princeps, che vuole bellissima, una sorta di editio picta primonovecentesca, la quale aspiri a imitare gloriosi incunaboli figurati veneziani, come l’Hypnerotomachia Poliphili attribuito a Francesco Colonna e stampato nel 1499 nella tipografia di Aldo Manuzio di cui il poeta possiede un esemplare, dono prezioso di Eleonora Duse.
Come si era speso per la Francesca a teatro così d’Annunzio si dedicò con cura alla princeps pubblicata a Milano per i tipi di Treves il 20 marzo 1902, un’edizione di lusso su carta a mano, stampa a due colori, con disegni e fregi di Adolfo De Carolis. Vi aggiunse una dedica – in forma di canzone con il medesimo schema della dantesca Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete – alla «divina» Eleonora, nobile gesto di gratitudine e in un certo senso di risarcimento per l’attrice e imprenditrice che aveva condiviso il progetto. Il primo sonetto della Vita nuova e la risposta al quesito del sogno del cuore mangiato da parte di Paolo – novello Guido Cavalcanti – offrono al lettore una chiave per penetrare il significato della tragedia. In coda un Commiato in terzine dantesche diviene la razo della sua Francesca e annuncia il Sigismondo, ultima opera della triade malatestiana, che però non vide mai la luce. Da ultimo d’Annunzio inserisce una Nota d’autore.
La lussuosa princeps per i tipi di Treves ha un notevole successo di vendite, tanto che le cinquemila copie vanno esaurite in pochissimo tempo cosicché l’editore milanese la ristampa negli ultimi giorni di aprile, e l’anno dopo (15 settembre 1903) produce un’edizione economica, poi dieci volte ristampata fino al raggiungimento di trentaduemila copie. La Francesca circola tempestivamente anche all’estero sull’onda del successo internazionale della tragedia per merito della Duse: fu tradotta in Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Danimarca, Romania, Russia e Francia.
Nel 1927 la Francesca da Rimini è inserita nell’àmbito dell’edizione promossa dall’Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio, stampata presso l’Officina Bodoni di Hans Mardersteig di Verona ed edita da Arnoldo Mondadori. Nel 1936, infine, esce a Roma l’edizione per i tipi dell’Oleandro che è considerata l’ultima volontà dell’autore.
Le varianti tra la princeps e le stampe successive non sono rilevanti, e si risolvono per lo più in aspetti grafici e interpuntivi. Fanno eccezione nelle undici edizioni economiche Treves l’assenza degli spartiti musicali che precedono il Commiato e la modifica della Nota dell’autore. Nell’edizione nazionale del 1927 e in quella dell’Oleandro sono nuovamente introdotti gli spartiti, mentre è soppressa la Nota d’autore finale.
L’attuale edizione di riferimento è quella a cura di Elena Maiolini pubblicata nel 2021 nell’àmbito dell’Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio, che mette a disposizione degli studiosi un’ampia messe di documenti e che, secondo i princìpi della più aggiornata filologia d’autore, offre un apparato genetico, il quale permette di studiare attraverso le varianti il processo compositivo della tragedia e di entrare nel laboratorio di d’Annunzio.

Contenuto e struttura

Atto I (totale vv. 1216). La vicenda si svolge a Ravenna nella casa di Guido il Vecchio (o Minore) da Polenta (nato tra il 1230-1240 circa e morto nel 1310), padre di Francesca. Siamo nel 1278, come si apprende da una battuta dell’ancella Biancofiore, in cui si allude alla morte di re Enzo avvenuta sei anni prima (cfr. Francesca da Rimini, i 235): il figlio naturale di Federico II morì, infatti, il 14 marzo 1272 a Bologna; nella scena terza poi il notaio ser Toldo Berardengo precisa che «è maggio» (cfr. Francesca da Rimini, i 439).
Per debellare le ultime resistenze dei rivali Traversari (di fede ghibellina), la famiglia guelfa da Polenta è disposta a sacrificare Francesca, dandola in sposa con l’inganno allo sciancato Giovanni, in cambio di un aiuto militare da parte dei Malatesta. La trama viene ordita dal notaio (in Boccaccio, invece, l’ideatore è un amico di Guido il Vecchio) e approvata dal fratello di Francesca, Ostasio, che in preda a un raptus d’ira non esita a ferire il fratellastro Bannino, reo, a suo dire, di vigliaccheria e di scarso impegno bellico. La ferita sulla guancia provoca le prime stille di sangue fraterno in questa tragedia fratricida.
Per la scenografia d’Annunzio attribuisce molta importanza a un’arca bizantina scoperchiata e riempita di terra cosicché può fiorire un rosaio vermiglio. Lo si apprende in una lettera scritta da Viareggio nell’estate 1901 a Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949), il celebre scenografo, grande esperto di illuminotecnica, che avrebbe dovuto curare l’allestimento della tragedia, ma che poi per una serie di incomprensioni con d’Annunzio e la Duse si occupò solo dei bozzetti. Il drammaturgo spiega che questo oggetto scenico è rilevante, perché poeticamente corrisponde al filtro della storia di Tristano e Isotta:

v’è nella prima scena un accessorio importante, ed è un’arca bizantina scoperchiata – e precisamente quella che è nel sepolcreto di Braccioforte, creduta anticamente la tomba del profeta Eliseo, nella quale fiorisce un gran rosaio di rose purpuree. È importante la collocazione di quest’arca. Possibilmente dovrebbe esser collocata non troppo lontana dalla scala e dalla chiusura marmorea che separa il giardino dalla corte coperta. Come motivo decorativo, quest’arca può essere bellissima e, nella tragedia, è un motivo poetico di grande forza che corrisponde quasi al motivo del filtro nel Tristano e Isolda. Non ho la fotografia dell’arca così detta d’Eliseo; ma la cercherò.

In effetti, alla fine del primo atto Francesca coglie dall’arca una grande rosa rossa e la dona a Paolo, che ritiene essere il suo promesso sposo. Poco prima, però, la schiava cipriota Smaragdi – felice immissione dannunziana nel cast – aveva cancellato dal pavimento le tracce del sangue di Bannino e aveva riversato l’acqua sporca nel rosaio, cosicché il pegno d’amore della rosa è imbevuto, all’insaputa dei due protagonisti, di sangue fraterno.

Atto II (totale vv. 959). L’azione si svolge a Rimini nelle case della famiglia Malatesta, che si trovavano presso l’antica cattedrale di Santa Colomba, nel luogo dove poi – a partire dal 1437 – fu costruito Castel Sismondo. Siamo nel dicembre 1282, come si evince da vari riferimenti storici, quali per esempio i Vespri siciliani e la strage di Forlì. È in corso la battaglia tra i guelfi Malatesta e la famiglia ghibellina dei Parcitadi: infatti, dopo la morte di Concordia Parcitadi (1262), che aveva sposato Malatesta il Vecchio e fu madre di Gianciotto, Paolo e Malatestino, i rapporti tra le due potenti famiglie riminesi si incrinarono irreparabilmente. Come confessa nella Nota aggiunta alla princeps della tragedia, d’Annunzio non esita ad alterare la successione degli avvenimenti nel tempo, anticipando di più di dieci anni la battaglia tra Parcitadi e Malatesta che realmente avvenne il 13 dicembre 1295.
Mentre si aspetta il segnale di guerra, Francesca non ha remore a salire sulla torre e a giocare con una roccaffuoco, come se volesse agitare esteriormente la vampa che arde nel suo cuore. Uno dopo l’altro arrivano i tre fratelli Malatesta: prima Paolo, poi Giovanni (Gianciotto) e da ultimo Malatestino. Nel furore della battaglia Francesca sottopone Paolo alla prova del fuoco per purificarlo dall’inganno che la donna ha subito e che l’ha condannata a un amore infelice e a quanto pare sterile se, nonostante il desiderio di Gianciotto, non gli è ancora nato «un leoncello» (cfr. Francesca da Rimini, ii 722) generato da quella impavida moglie che non teme di mischiarsi tra gli uomini di guerra. Un dardo passa attraverso la folta chioma di Paolo ma non lo colpisce: la purificazione è avvenuta.
Chi rimane ferito è l’impetuoso e terribile fratello minore Malatestino il quale perde l’occhio guadagnando il soprannome che lo ha reso celebre (dall’Occhio) e le cure della cognata. Francesca e i tre fratelli bevono dalla stessa coppa il vino greco portato da Smaragdi: placano la sete naturale, ma accendono un’altra più ardente e ‘scura’ sete, che provocherà la futura tragedia familiare.

Atto III (totale vv. 962). L’episodio del celeberrimo bacio è collocato nel terzo atto come già aveva fatto Silvio Pellico in una delle più fortunate versioni romantiche della tragedia, di cui d’Annunzio possiede un esemplare che fa parte ristampa del 1887, il quale contiene segni di lettura proprio in corrispondenza della scena del libro galeotto. L’azione si svolge a Rimini nella camera di Francesca. È il calendimarzo 1283, celebrato con danze e con canti – ricavati soprattutto dai Canti popolari raccolti da Tommaseo – dalle ancelle della donna. Il cavalcantiano amore ereos che avvince Paolo non si placa neppure con la distanza, e al rientro da Firenze, dove ha abbandonato anticipatamente l’ufficio di Capitano del Popolo – senza tra l’altro passare da Ghiaggiolo dove abitava la moglie Orabile Beatrice –, avviene la lettura fatale, particolare assente nel racconto di Boccaccio, ma derivata da Dante e dai commentatori fiorentini.

Atto IV (totale vv. 640). Protagonista assoluto del quarto atto – ambientato nella ottagonale sala da pranzo del palazzo Malatesta in un giorno di settembre 1285 – è Malatestino dall’Occhio, felice inserimento dannunziano nel cast della tragedia; tra l’altro un anonimo commentatore del ’300 erroneamente scrisse che Francesca «fu moglie di Malatestino de’ Malatesti da Rimini; e Paolo di questo Malatestino fu fratello» (Chiose anonime, p. 33). Vistosi respinto da Francesca, il fosco adolescente sfoga tutta la sua vis irascibilis. Nel suo furore Malatestino taglia la testa al prigioniero Montagna Parcitadi, poi rivela a Gianciotto la tresca di Paolo e Francesca, assumendo il ruolo di delatore che nel racconto di Boccaccio spetta a un «singulare servitore», e infine suggerisce il piano per sorprendere i due amanti, che si basa su una finta partenza per Gradara – la quale, dunque, per d’Annunzio non è luogo della tragedia – e Pesaro.

Atto V (totale vv. 401). La tragedia precipita nel breve ultimo atto, ambientato nella camera di Francesca, la notte seguente. Rientrati di nascosto e nottetempo a Rimini, Malatestino sopprime l’insidiosa Smaragdi, e Gianciotto sorprende la moglie e il fratello. Lo sviluppo tragico segue fedelmente il racconto di Boccaccio. Fatale a Paolo è la cateratta, nella quale era già inciampato in precedenza. Dopo l’arca bizantina (atto i), la coppa (ii), il libro (iii), e il macabro viluppo in cui è contenuta la testa di Montagna (iv), la botola conclude la serie degli oggetti scenici messi in rilievo dal drammaturgo. I corpi pugnalati di Paolo e Francesca piombano sul pavimento. Resta lo Sciancato che «si curva in silenzio, piega con pena un de’ ginocchi; su l’altro spezza lo stocco sanguinoso» (cfr. Francesca da Rimini, didascalia finale a p. 316).

Stile e interpretazioni

Per dare corpo al «poema di sangue e di lussuria» (Gabriele d’Annunzio, Commiato, v. 2) l’autore si è immerso con alacrità nella letteratura e nella storia medievale. I versi dannunziani trasudano dei frutti di questo attento studio e le plurime citazioni disseminate più o meno scopertamente furono messe già in luce dai primi recensori, che fecero presto partire – anche contro la volontà dell’autore ricavabile dalla Nota aggiunta alla prima edizione a stampa del 1902 – la caccia alla fonte, inaugurando comunque un filone di ricerca, i cui risultati migliori si ottennero più tardi con i contributi critici di Mario Praz, Carla Ferri, Gabriella Di Paola e poi con le edizioni commentate a cura di Annamaria Andreoli e Donato Pirovano. La «pressione del virtuosismo letterario» (Francesca da Rimini, edizione Maiolini, p. CXIV) emerge nei versi e si espande pure nelle frequenti e spesso lunghe didascalie, funzionali più alla narrazione che alla regia teatrale (cfr. Barsotti 1981, pp. 102-103 e Brandalise 2002, pp. 144-145).
Per ispessire la preziosità semantica del dettato il drammaturgo si serve non solo di libri ma anche di dizionari (generici come quello di Tommaseo e Bellini, e pure specifici come per esempio il Vocabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti). Si delinea un percorso biunivoco: voci di vocabolario indirizzano d’Annunzio verso determinati testi presenti nella sua ricca biblioteca o richiesti con urgenza agli amici e collaboratori oppure letture specifiche conducono verso i dizionari e l’approfondimento lessicale. Ne deriva una tendenza all’accumulo, alla ripetizione, alla ripresa di testi antichi (per esempio novelle di Sacchetti o di Boccaccio) alla citazione manifesta o dissimulata della Commedia e di altre opere delle origini. Frequenti, e innovative rispetto alla tradizione, sono poi le riprese dai Canti popolari toscani corsi illirici greci raccolti da Tommaseo i cui testi e le cui glosse sono usati soprattutto per i dialoghi delle coralità femminili.
L’esito è «un nuovo e originale mosaico testuale» (Gibellini 1995, pp. 16-17) e una «lingua damascata» (Francesca da Rimini, edizione Maiolini, p. CXXIII) che fa di questa tragedia una novità nella pletora delle ‘Francesche’ ottocentesche e primo-novecentesche. Teatro di poesia e di lettura, dunque, più che di scena: non a caso l’opera fu esaltata dai dantisti, tra i quali d’Annunzio nella Nota all’edizione Treves 1902 ricorda il lusinghiero giudizio di Isidoro Del Lungo, allora vicepresidente della Società Dantesca Italiana (cfr. la Nota, nell’edizione Maiolini, p. 328 oppure Isidoro del Lungo 1902, p. 8):

Il sentimento e il linguaggio di queste persone, così delle principali come delle secondarie anzi anche delle minime, sono, qui poi è dir poco studiati, ma calcati con insistente vigoria sui documenti della viva parola d’allora, senza scrupolo di traslazioni e assimilazioni, anzi cercandone con vaghezza ardimentosa; per modo che all’orecchio esercitato ritorna come l’eco di voci da secent’anni remote, e all’illusione scenica si connette quella delle imagini e de’ suoni; e l’impressione è che l’arte abbia questa volta afferrato l’oggetto suo eterno: il Vero.

Non così entusiasti gli uomini di teatro (per esempio Luigi Pirandello fu giudice severo e preferì la Francesca di Giovanni Alfredo Cesareo della quale tra l’altro fu anche prefatore nell’edizione 1906), che più che l’intreccio e il testo apprezzarono gli sforzi interpretativi della Duse.
A rivitalizzare la fortuna scenica della Francesca da Rimini contribuì un decennio dopo la musica di Riccardo Zandonai su libretto ridotto da Tito Ricordi. La prima dell’opera lirica al Regio di Torino il 14 febbraio 1914 fu un successo, così come le successive tappe, due delle quali al Costanzi di Roma (rispettivamente il 10 marzo 1915 e il 26 dicembre 1922).
Ciò nonostante, la Francesca dannunziana non è solo un virtuosismo verbale di spessa densità letteraria. Recentemente Elena Maiolini (cfr. Maiolini 2023) ha messo in evidenza una struttura drammatica che contempla una trentina di personaggi contro la manciata di cinque o sette, più le guardie, delle versioni di Silvio Pellico, Eduardo Fabbri e Ulivo Bucchi. Fanno lievitare il numero a una cifra tanto più ambiziosa rispetto ai precedenti ottocenteschi le dramatis personae concepite per creare movimentate scene corali: il quintetto delle ancelle del séguito della protagonista, i partigiani di Guido da Polenta e quelli di Malatesta, affiancati dai portatori di fiaccole, dai balestrieri, dagli arcieri e dal torrigiano. Vi sono poi ruoli introdotti per dar spazio a discorsi arguti e a vivaci colpi di scherma verbali, come il medico, il giullare, l’astrologo e il mercante di stoffe.
È un’abbondanza funzionale all’opulenza espressiva e scenica, in cui spiccano le due felici novità della serva Smaragdi e del terzo fratello Malatesta, il fosco adolescente Malatestino, al debutto interpretato da una donna, la trentaquattrenne Emilia Varini, salutata come «meravigliosa» dalla prima terza pagina della storia giornalistica italiana, nel «Giornale d’Italia» di mercoledì 11 dicembre 1901, a firma Diego Angeli.
Ognuno per la sua parte, Smaragdi e Malatestino – che da ultimo si sobbarcherà l’incarico di sopprimere la pericolosa antagonista femminile (lo spettatore e il lettore lo apprendono indirettamente) – rinnovano con la loro efficace presenza l’intreccio fondato sul consueto terzetto dei protagonisti, per il quale d’Annunzio suggerisce una chiave di lettura nel paratesto della princeps, ossia il primo sonetto della Vita nuova con la risposta di Paolo Malatesta, novello Guido Cavalcanti.
Nel libello il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core è indirizzato ai «fedeli d’amore», gli ‘innamorati’, e inserito da Dante dopo il sogno avvenuto in séguito al secondo incontro con Beatrice, quando la «gentilissima» per la prima volta gli elargì il suo saluto salvifico. Nella edizione dannunziana, svincolato dalla prosa corrispondente della Vita nuova il componimento preserva il suo originario significato di un sogno erotico da sottoporre ad altri, perché venisse decifrato. D’Annunzio immagina un sonetto di risposta di Paolo Malatesta a Dante, in cui il sogno dantesco è interpretato alla luce di una stretta connessione tra Amore e morte.
La tragedia si configura, dunque, come una versione moderna dell’amore eros, la passione patologica («amor cortese e passione naturale», secondo Gianni Oliva 2023) studiata dai medici medievali e ripresa in modi diversi dai poeti antichi tra cui anche Dante e soprattutto Guido Cavalcanti. D’Annunzio porta, infatti, alle estreme conseguenze quanto espresso in Donna me prega, vv. 17-18: l’amore passa (aristotelicamente) dalla potenza all’atto per effetto di «una scuritate / la qual da Marte vène», ‘un’oscurità dovuta all’influsso di Marte’.
In effetti, non solo i personaggi principali sono contraddistinti in modi diversi di una forma patologica di amore, ma in essi si esprime anche una sorta di ‘oscurità’ derivante da Marte che d’Annunzio trasforma in istinto bellicoso o in vis irascibilis. Da qui anche la fitta presenza, innovativa rispetto alla tradizione della storia di Paolo e Francesca, del tema della guerra, che occupa quasi interamente il secondo atto e che riaffiora continuamente: si pensi al truce assassinio di Montagna dei Parcitadi, sul quale Malatestino sfoga la pulsione erotica dopo il rifiuto di Francesca.
La ricchezza dei materiali offerti da Elena Maiolini nella nuova edizione critica dovrebbe rivitalizzare l’interesse della critica, comunque non completamente assente nei due primi decenni del terzo millennio come attesta la bibliografia in calce, e favorire inedite appropriazioni, con l’auspicio forse di una ripresa anche per il teatro che corra parallelamente al diuturno successo della versione lirica di Zandonai.

 

Bibliografia essenziale

Edizione critica di riferimento:

Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, edizione critica a cura di Elena Maiolini, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani («Edizione nazionale delle opere di Gabriele d’Annunzio»), 2021: https://edizionedannunzio.wordpress.com/wp-content/uploads/2023/05/def_francesca-da-rimini_10.2.21.pdf

 

Edizioni apparse in vita:

Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1902 (editio princeps).
Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1903 (edizione economica).
Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, Verona, Bodoni (Mondadori), 1927 (Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio).
Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, Roma, Per l’Oleandro, 1936.

 

Edizioni commentate:

Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, in Tragedie, sogni e misteri, 2 voll., a cura di Annamaria Andreoli, con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori («Meridiani»), 2013, vol. i pp. 449-682.
Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, a cura di Donato Pirovano, Roma, Salerno Editrice, 2018.

 

Bibliografia secondaria:

Annamaria Andreoli, Per la rilettura di ‘Francesca da Rimini’, «Sinestesie», 6-7, 2008-2009, pp. 484-522.
Annamaria Andreoli, D’Annunzio e l’antropologia poetica di Francesca da Rimini, «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», 12, 2015, pp. 69-87.
Anna Barsotti Frattali, D’Annunzio e il teatro di poesia, in Teatro contemporaneo, diretto da Mario Verdone, I, Teatro italiano, Roma, Lucarini, 1981, pp. 77-139.
Adone Brandalise, I colori di Francesca. Francesca da Rimini tra D’Annunzio e Zandonai, in Id., Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Padova, Unipress, 2022, pp. 141-154.
Chiose anonime alla prima cantica della ‘Divina Commedia’ di un contemporaneo del poeta, pubblicate per la prima volta […] da Francesco Selmi, Torino, Stamperia Reale, 1865.
Eva Colombo, La lussuriosa dantesca nel prisma dell’Imaginifico. Tre facce della Francesca dannunziana, «Archivio d’Annunzio», 1, 2014, pp. 95-122.
Salvatore Comes, D’Annunzio lettore di Dante e Note del d’Annunzio alla ‘Divina Commedia’, in Id., Capitoli dannunziani, Milano, Mondadori, 1967, pp. 67-103 e 105-133.
Mario Corsi, ‘Francesca da Rimini’, in Id., Le prime rappresentazioni dannunziane, Milano, Treves, 1928, pp. 31-42.
Vincenzo Crescini, L’episodio di Francesca, Padova, A. Draghi, 1902.
Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Milano, Mondadori, 1943.
Gino Damerini, Ricordi su Eleonora Duse e Gabriele d’Annunzio. Otto lettere del Poeta a Mariano Fortuny per la ‘Francesca da Rimini’, «Quaderni dannunziani», 12-13, 1958, pp. 165-198.
D’Annunzio e il teatro, numero speciale di «Scenario», 4 aprile 1938.
D’Annunzio e l’innovazione drammaturgica, Premessa di Elena Ledda, Saggi introduttivi di Giovanni
Isgrò e Carlo Santoli, numero speciale di «Sinestesie», 24, 2022.
Eurialo De Michelis, Pascoli, D’Annunzio, i vociani, in Dante nella letteratura italiana del Novecento. Atti del Convegno di Studi, Casa di Dante, Roma, 6-7 maggio 1977, Roma, Bonacci, 1979, pp. 9-50.
Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2002 (contiene tra le altre citazioni l’intervista di Diego Angeli a d’Annunzio sulla Francesca dal «Giornale d’Italia», 3 dicembre 1901, pp. 74-78).
Isidoro Del Lungo, Medio Evo dantesco sul teatro, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», 98, marzo-aprile 1902, pp. 23-31.
Gabriella Di Paola, Il mal perverso e i fiori velenosi. La poesia di Dante nella ‘Francesca da Rimini’, Roma, Bulzoni, 1990.
Carla Ferri, Studio sulle fonti della «Francesca da Rimini», «Quaderni del Vittoriale», 21, 1980, pp. 15-65.
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Valeria Giannantonio, Per una reinterpretazione critica della ‘Francesca da Rimini’, «Sinestesie», 6-7, 2008-2009, pp. 523-564 (poi in Tra metafore e miti. Poesia e teatro in D’Annunzio, Napoli, Liguori, 2011, pp. 37-78).
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