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Petrarca, Francesco

di Pietro Gibellini, Enciclopedia dannunziana

Petrarca nella biblioteca e negli scritti sparsi

L’opera di Francesco Petrarca fu una presenza costante nella lunga vita di Gabriele d’Annunzio. Lo conferma intanto il significativo nucleo di edizioni petrarchesche della biblioteca del Vittoriale, costituita dai libri raccolti dal Vate nella maturità e da quelli del precedente proprietario della villa, il colto Heinrich Thode, cui appartennero un’edizione delle Rime del 1811 e altri testi in tedesco, che d’Annunzio, poco o punto esperto di quella lingua, probabilmente non lesse. La biblioteca gardonese rivela del resto la passione del bibliofilo, prima di quella del lettore: dell’opera di Messer Francesco conserva infatti due incunaboli, tredici cinquecentine, due stampe secentesche e due settecentesche, e altre successive. Il testo più rappresentato è il Canzoniere, edito da solo o congiuntamente ai Trionfi, secondo la consuetudine attestata dai due incunaboli del Vittoriale: quello con i Trionfi e le Rime, edito a «Venesia» da Pasquali Bolognese nel 1486, accompagnati dal commento di Bernardo Lapini gli uni e di Francesco Filelfo e Gerolamo Squarzafico le altre; e quello con le stesse opere e commenti, pubblicato pure a Venezia, per la cura di Gabriele Bruno e Girolamo Centone da Quarenghi, nel 1494. Vi si trovano poi Li Sonetti Canzone Triumphi, con il commento di Bernardo Lapini (1519), Le rime per la Bottega d’Erasmo (1549), il Petrarca lionese «con nuove e brevi dichiarationi» (1551), quello con l’esposizione del Gesualdo (1554), quello con annotazioni tratte dalle prose del Bembo (1568), un altro lionese dove «si dimostra qual fusse il vero giorno et l’hora» dell’innamoramento, (1574), le Rime commentate da Vellutello, (1579), un Petrarca veneziano recuperato dopo la vendita all’asta dei volumi della Capponcina (1609), le Rime riscontrate sui codici dell’Estense (1711) e quelle impresse a Orléans (1786).
Fra le edizioni moderne, oltre a quella ricordata del 1811 con l’ex-libris di Thode, le Rime con note di Giacomo Leopardi e integrazioni di Eugenio Camerini (1882), i Trionfi a cura di Flaminio Pellegrini (1897), Le rime commentate da Giosuè Carducci e Severino Ferrari (1899), il Canzoniere riprodotto «letteralmente» dal Vaticano Latino 3195 (1904) a cura di Ettore Modigliani, un’edizione delle Rime a cura di Giuseppe Salvo Cozzo (1904) e una senza data dell’Istituto Editoriale Italiano; nonché la canzone politica Parma liberata dal giogo di Mastino della Scala, riedita e commentata da Francesco Berlan (1870). Si aggiungano la traduzione francese verseggiata dei Sonnets (1902), e quella dei Sonnets, Canzones, Sestines, Madrigaux et Triomphes (1932) con dedica a d’Annunzio del traduttore Ferdinand Bailly, e la monografia Laure et Pétrarque di Charles Weiss (1935), con dedica dell’autore.
Le opere latine, oltre che nell’edizione basilese Opera que extant omnia (1554), figurano prevalentemente nei loro volgarizzamenti. Tra esse primeggia il De remediis utriusque fortunae, in una giolitina nella versione di Remigio Nannini (De rimedi de l’una et l’altra fortuna, 1549), in un’altra stampa veneziana, sempre in traduzione (1584), in un De Remediis latino (1584), ancora nella traduzione di Remigio Nannini (1607), poi in quella di Giovanni da San Miniato, sia nell’editio maior (De’ rimedii dell’una e dell’altra fortuna, 1867) che in quella antologica (Fioretti de’ rimedii contra fortuna, 1867). In volgare sono anche El secreto (1517), la Chronica de le vite de pontefici et imperatori romani (1534), La vita solitaria in un inedito volgarizzamento del Quattrocento (1879), L’autobiografia, il secreto e dell’ignoranza sua e d’altrui, con l’immancabile Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna, a cura di Angelo Solerti (1904), donde d’Annunzio attinse i passi del Secretum inclusi nelle Faville del maglio. Quanto alle lettere, accanto all’edizione del testo latino curata da Giuseppe Fracassetti, Epistolae de rebus familiaribus et variae (1859-1863), ne abbiamo due in volgare tradotte dallo stesso Fracassetti: le Lettere (1863-1867) e le Lettere senili (1892), fonte delle citazioni inserite nella Vita di Cola di Rienzo.
Cenni al Petrarca, seppur marginali, compaiono negli scritti privati o semipubblici, a cominciare dalle lettere: il 24 febbraio 1901, inviando a Emilio Treves il manoscritto della Canzone in morte di Giuseppe Verdi, d’Annunzio scrive di aver riprodotto il metro di Rvf 128 (1999, p. 228); anni dopo, a Olga Levi promette un sonetto «sul gusto del Petrarca» (la lettera è oggi nell’Archivio Privato del Vittoriale), mentre altri riferimenti eruditi al poeta sono distribuiti nelle epistole ufficiali degli anni Venti e Trenta o in appunti conservati a Gardone Riviera. Negli articoli giornalistici le menzioni di Petrarca, seppur marginali, si fanno più numerose e meno fugaci. In un’intervista rilasciata a Edmondo De Amicis nel giugno 1902, per esempio, in un periodo di intesa fra i due letterati, d’Annunzio si professa «innamorato ardentissimo» del poeta del Canzoniere (Oliva 2002, p. 84). Fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, del resto, il Duca Minimo distribuiva nei suoi articoli citazioni erudite da Petrarca: così in un pezzo del 1886 intitolato Un ventaglio, e in tre casi nel 1888 (Roma ad Ambrogio Thomas, Giaufré Rudel, La biblioteca del barone de la Roche-Lacarelle; tutti oggi in d’Annunzio 1996, pp. 1051-1054, 1117-1127 e 1173-1177).

Petrarca nei romanzi

Gli articoli culturali e le cronache mondane sono, per la materia ma anche per la forma, il cartone preparatorio dell’estetizzante affresco del Piacere, il romanzo pubblicato nel 1889, in cui il nome di Petrarca compare sei volte. Nella prima, il protagonista Andrea Sperelli in attesa di un duello contempla i giochi di luci e ombre del fogliame degli alberi «gentili come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca»; le due successive chiariscono invece il ruolo di maestro del cantore di Laura, da cui Andrea apprende «tutti i misteriosi artifizii dell’endecasillabo», e i cui versi, insieme a quelli di altri «verseggiatori antichi di Toscana», servono all’esteta a trovare «una nota che gli servisse da fondamento» per i suoi lavori. Così un verso del Canzoniere (Rvf 246, v. 12) accende poco oltre l’ispirazione di Sperelli, che dedicherà all’amata marchesa d’Ateleta «un sonetto curiosamente foggiato all’antica» che si conclude proprio con quel verso; una «sospirevole quartina del Petrarca» (Rvf 85, vv. 1-4) compare poi nelle scritte di innamorati o «contemplatori solitarii» sui pilastri del tempietto al Belvedere di villa Medici. Al contrario di molti riferimenti dotti del romanzo, sfoggiati per esibire la ricercata cultura del protagonista (e dell’autore), le scelte menzioni del poeta laureato incidono sulla trama e sull’atmosfera della narrazione: rappresentano infatti la distrazione estetica del duellante, illustrano la genesi del suo comporre, riflessa e musicale, connotano l’atmosfera elegiaca della passeggiata al tempietto.
L’altra opera narrativa in cui incontriamo Petrarca è il Fuoco, romanzo-saggio ambientato a Venezia, in cui fra l’altro nei dialoghi di Stelio Èffrena con Daniele Glàuro vengono trasposte le conversazioni di estetica di d’Annunzio con il critico Angelo Conti. Le stesse che vennero incluse da quest’ultimo nella Beata riva, uscita nel 1900 contemporaneamente al Fuoco, con una prefazione del Vate in cui il Canzoniere è evocato due volte, la prima per richiamare l’Introduzione a uno studio sul Petrarca dello stesso Conti, la seconda a proposito del Saggio critico sul Petrarca di Francesco De Sanctis, di cui d’Annunzio loda le intuizioni estetiche ma condanna la scrittura per «i falli troppo palesi», «le difformità delle imagini che si seguono senza interruzione», la parola che non ha valore, «né come lettera né come suono». Gabriele vagheggia infatti, come l’amico, una figura di critico che emuli e continui l’opera dell’artista, ed è probabilmente infastidito dai rimproveri che l’irpino muoveva al poeta del Canzoniere perché gli ricordavano quelli si facevano a lui: il possesso di «facoltà assimilative» (memoria, lucidità) e la carenza di «facoltà produttive» (originalità, profondità, forza di trovar nuove idee, di scartare l’accessorio e cogliere il sostanziale). Attaccandolo dunque, egli esalta implicitamente il critico-artista, Conti, e difende lo scrittore-artista, Petrarca-d’Annunzio (Conti 1900, pp. IV e XI-XIII).
Non a caso, il primo cenno a Francesco del romanzo è nel dialogo tra d’Annunzio-Èffrena e Conti-Glàuro: al «dottor mistico», che elogia le rivelazioni di bellezza che Stelio si accinge a fare alla folla nel solenne discorso in palazzo Ducale, questi ripete «sorridendo le parole del Petrarca: — “Non ego loquar omnibus, sed tibi sed mihi et his…”» (la fonte è il De vita solitaria, II 15, 1). Ed è Glàuro a citare poi il poeta di Laura, quando chiede all’amico se Wagner potrà avere una morte degna del suo sogno, simile a quella che «condusse il Petrarca a spirare solitariamente su le pagine di un libro». Solo immaginato, un viaggio ad Arquà è poi al centro delle parole di Stelio a Foscarina, che propone di portarvi una copia seicentesca delle Rime «che omai non si può più chiudere perché s’è gonfiata di erbe come un erbario da bambola»; l’immagine è tra l’altro accompagnata dall’evocazione dei celebri vv. 40-42 di Rvf 126 («Da’ be’ rami scendea / (dolce ne la memoria) / una pioggia di fior’ sovra ‘l suo grembo»), che avevano lasciato traccia pure nell’incipit di una novella del 1884, Ad altare Dei: «Dolce nella memoria. Quando le campane cominciarono a squillare». Alle parole di Stelio Foscarina non risponde, ma quel dolce paesaggio sentimentale riaffiora nella sua mente dopo una ventina di pagine, in cui compare anche «la fontana del Petrarca».
Il piacere e Il fuoco esauriscono il catalogo delle menzioni esplicite del poeta di Laura nei romanzi dannunziani, le quali provano quanto l’orecchio e la mente del loro autore ne fossero segnati. Nel primo, dove scaturiscono dalle riflessioni sull’arte del solitario Sperelli, esse assumono una coloritura preziosistica e pongono l’accento sulla perizia del verseggiatore, mentre nel secondo, dove affiorano nel dialogo intellettuale che Èffrena-d’Annunzio intreccia con Glàuro e Foscarina (come dire con Angelo Conti ed Eleonora Duse), il loro ventaglio si allarga dando luogo a considerazioni di più ampio respiro letterario e sentimentale.

Petrarca nelle Prose di ricerca

L’opera in cui Petrarca compare più frequentemente è però la Vita di Cola di Rienzo, pubblicata nel 1905-1906 in rivista e poi nel 1913 in volume, con la giunta del lungo Proemio autobiografico cui si deve la collocazione dell’opera fra le Prose di ricerca (che nell’Edizione Nazionale delle sue opere l’autore distinse dalle Prose di romanzi). Stendendola sulla falsariga dell’anonima Cronica scritta nel Trecento in volgare romanesco, d’Annunzio non mancò di consultare altre fonti: le missive di Cola edite dal Burdach, la cronaca del Villani e, non ultime, le lettere di Petrarca, che egli trovava ampiamente riportate nell’apparato esegetico annesso da Zefirino Re alla sua edizione, ma che cita prevalentemente dalla traduzione italiana del Fracassetti da lui posseduta. Cola si era infatti incrociato con Petrarca, che ne aveva appoggiato l’azione politica e aveva poi stretto amicizia con lui. Alcune «ambascerie solenni» al cantore di Laura compaiono già nel primo capitolo dell’opera, mentre nell’ottavo, commentando una notazione dell’Anonimo, d’Annunzio attribuisce a Cola «un riso rivolto alla faccia del futuro», e giustifica la sua espressione citando due epistole di Francesco dagli accenti profetici (Varie 48 e 50). Gabriele prosegue evocando il viaggio di Petrarca a Roma del 1341 e quello in cui strinse amicizia con il tribuno, del 1366-67 (sulla scorta di Fam. II, 121); nel capitolo seguente, il poeta è ricordato fra quanti nel 1352 premono sul papa Clemente VI perché riporti a Roma il soglio pontificio e indica un nuovo Giubileo.
Con il suo nome, anche le sue espressioni di Petrarca affiorano nelle righe su Avignone, novella Babele, e sul sognato rilancio di Roma (cfr. Fam. XI, 6 e Rvf 136-138):

«Se solo rimanesse nell’Urbe l’ignudo sasso capitolino» diceva il Petrarca «pur quivi durerebbe senza fine l’imperio».
Incredibile fervore accendeva l’animo del Petrarca; e l’interna vampa sembrava renderlo cieco: «Quando ripenso» scriveva al notaro della Regola «quando ripenso il gravissimo santo discorso che mi tenesti l’altrieri su la porta di quell’antica chiesa, parmi avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo. Così divinamente deplorasti lo stato presente, anzi lo scadimento e la ruina della repubblica; così a fondo mettesti il dito della tua eloquenza nelle nostre piaghe; che, ogni qualvolta il suono di quelle tue parole mi ritorna alle orecchie, me ne cresce il dolore all’animo, me ne sale la tristezza agli occhi; e il cuore che, mentre tu parlavi, ardeva, ora, mentre pensa, mentre ricorda, mentre prevede, si scioglie in lacrime, non già feminee ma virili, ma d’uomo che all’occasione oserà qualche cosa di pietoso secondo il potere a difensione della giustizia. E se anche per addietro io era col pensiero teco sovente, dopo quel giorno son teco più che sovente; e ora dispero, ora spero, ora ondeggiando tra speranza e timore dico in me stesso: «Oh se fosse mai! oh se avvenisse a’ miei giorni! oh se anch’io fossi a parte di sì grande impresa, di tanta gloria!»

Nel decimo capitolo viene ricordato il lamento di Francesco sul Rodano vorace, che «tutti per sé gli onori del Tevere rodeva e ingoiava» (da Rvf 208, 1-2), cui segue un cenno a quel «Simone sanese cui il Petrarca aveva posto in man lo stile per ritrarre Laura» e all’intercessione di «Messer Francesco» per ottenere da Cola il perdono del cardinale Giovanni Colonna. Nel capitolo seguente torna una menzione del «gran sogno romano [che] ardeva custodito nel profondo petto di Francesco Petrarca», citato anche per il giudizio su Stefano Colonna, «divino giovane pieno dell’antica e vera romana grandezza», così come le lacrime del vecchio Colonna per i presagiti di lutti familiari vengono evocate nel tredicesimo, sulla base di Fam. VIII, 1. Una lunga citazione (dalle Varie, 48) torna, et pour cause, nel capitolo seguente, dove è descritta l’intensa attività cancelleresca del tribuno, dictator di epistole costellate di riferimenti all’antica gloria romana:

Forniva il Laureato, di lungi, le iperboli sonore. «Romolo fondò Roma; Bruto, che tante volte già nominai, la libertà; Camillo l’una e l’altra ebbe redintegrata. Or quale, o chiarissimo, da loro a te corre differenza se non questa: che Romolo una meschina città di fragile steccato ricinse, tu la città fra quante furono e sono grandissima d’inespugnabili mura hai circondato? Bruto da un solo, tu da molti tiranni usurpata la libertà rivendicasti? Camillo da recenti e ancor fumanti ruine, tu da rovine antichissime e l’una e l’altra, di cui già disperavasi, facesti risorgere? Salve a noi Camillo, a noi Bruto, a noi Romolo o qualunque altro sia nome onde ti piaccia chiamarti; salve, o fondatore della libertà, della pace, della tranquillità di Roma. Per te quelli che or vivono potranno liberi morire, liberi nasceranno per te quei che vivranno in futuro».

Nel ventiduesimo capitolo d’Annunzio ricorda poi che il poeta aveva paragonato (Fam. VII, 7) l’eroe giovinetto Gianni Colonna «a Marcello diletto da Giove Ferètrio»; ma quando, per la condotta riprovevole del tribuno, il sogno di Petrarca cade, ecco la lettera di rampogna a Cola (Fam. VII, 7) riempire una pagina cruciale del ventiquattresimo capitolo. L’ultima apparizione del cantore di Laura è nel capitolo trentunesimo, là dove si parla del trasferimento di Cola prigioniero da Praga ad Avignone:

Narrava il Petrarca a Francesco dei SS. Apostoli avere il Romano evitato il supplizio per l’opinione che si era sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona. Dell’antico laudatore aveva chiesto notizia il prigioniero sul primo entrare nella città, forse sperandone qualche soccorso, o perché la calda amicizia in quegli stessi luoghi nata gli tornasse alla mente; ma erasi ritratto nella solitudine di Valchiusa ad ascoltare la melodia del suo cuore doglioso colui che mirato aveva bella nel bel viso di Laura la morte. «Poteva egli aver compiuto in gloria i suoi giorni sul Campidoglio, e si ridusse invece con onta immensa della Republica e del nome romano ad essere prima da un Boemo e poi da un Limosino in carcere sostenuto!» deplorava colui che un giorno aveva anelato di avvolgere le mani entro i capegli dell’Italia sonnolenta per isvegliarla.

Sulla pagina vale la pena di fermarsi per più ragioni. C’è, innanzitutto, il riconoscimento del potere salvifico — qui in senso letterale — dell’arte, ricavato dalla lettera petrarchesca a Francesco Nelli (Fam. XIII, 6). Compare poi il dettaglio della vana speranza del prigioniero di trovare ad Avignone Petrarca, trasferito a Valchiusa dopo la morte di Laura, qui menzionata nel modo del Triumphus mortis («Morte bella parea nel suo bel viso», I, 172). Infine, l’irreversibile disillusione della speranza posta dal poeta nel tribuno, affidata a un passo di Fam. XIII, 6, e al rinvio per contrasto alla canzone Spirto gentil (Rvf 53, 10-14). Da questo momento Petrarca sparisce dall’operetta dannunziana, che segue il protagonista nel suo ritorno a Roma e nella finale rovina. La storia dell’amicizia, dell’ideale alleanza e poi del divorzio tra Francesco e Cola occupa un discreto spazio nella singolare biografia certo perché l’Imaginifico vedeva impersonate nel poeta aretino e nel tribuno due aspirazioni che dominarono la sua vita, l’eccellenza artistica e il restauro della gloria romana. Di lì a poco le avrebbe fuse e incarnate lui stesso, facendosi poeta-soldato, e in seguito perseguite separatamente, prima come bellicoso Comandante fiumano, emulo di Cola nella fluida oratoria e nel conio dei motti, infine come eremita del Vittoriale, dedito a trasferire nella scrittura i fragmenta del suo io.
Come si è detto, il Proemio alla Vita di Cola determinò l’inclusione dell’opera nelle Prose di ricerca, quelle in cui Gabriele rifiutava i vincoli narrativi e aboliva i personaggi costruiti sulla sua immagine — come Andrea Sperelli e Stelio Èffrena — per fare esplicitamente di sé l’oggetto unico della scrittura. Se in quella biografia Petrarca compariva come auctor rispettato da cardinali e signori, nonché come scrittore di lettere più o meno pubbliche (e solo indirettamente delle Rime), non stupirà che nel Proemio, dedicato all’amico Annibale Tenneroni, provetto conoscitore della letteratura due-trecentesca, sia messo in primo piano l’autore del De vita solitaria:

Se Lapo di Castiglionchio mandò in dono al Petrarca un buon manoscritto, tu a me hai mandato un raro volgarizzamento della Vita solitaria ricordandomi come esso Poeta fosse solito dire, secondo Leonardo Aretino, che solo il tempo della sua vita solitaria poteva chiamar vita, perché l’altro non gli era stato vita ma pena ed affanno. Questo anch’io so.

Tappa preparatoria della scrittura di ricerca è da considerarsi l’antologia delle Prose scelte, curata dall’autore (1906), dove accanto a passi di romanzi scorporati dall’organismo narrativo (fra cui L’apparizione dell’eroe, dal Fuoco, con il cenno a Petrarca spirante sul libro), d’Annunzio includeva discorsi celebrativi e commemorativi. Il poeta del Canzoniere vi compare intanto nell’Elogio di Enrico Nencioni del 1896, poi nell’Orazione agli Ateniesi del 9 febbraio 1904 e, meno fuggevolmente, nell’Orazione in morte di Giosuè Carducci (1907), che insieme a Severino Ferrari aveva procurato nel 1899 un ammirevole commento del capolavoro petrarchesco. Il Petrarca di Carducci, anzi il Petrarca che d’Annunzio evoca per lui, è il poeta bellicoso che si confà al paesaggio apuano di Valdicastello, in cui si trova la casa natale di Giosuè, fra rupi, torrenti e oliveti, «ove a Francesco Petrarca parve dovesse la vergine Pallade trasvolata dall’Attica piantare la sua asta per non più dipartirsi», giusta l’immagine di Africa, VI, vv. 856-861.
Un Petrarca stimolo all’«azione formidabile» e all’amor patrio è quello che emerge anche dalle pagine del Comandante, a partire dall’opuscolo Contro uno e contro tutti dove, spronando gli italiani a non credersi vinti, ricorda con sdegno che «vien coronato col lauro petrarchesco di Pierre de Ronsard l’allegro viennese Lammasch che già ci pronostica e ci minaccia la rivincita nell’Alto Adige». In Per l’Italia degli Italiani, un verso del poeta aretino è citato tangenzialmente per esaltare la rapidità di intelletto (Rvf 330, 5), e successivamente un suo distico è opposto a un verso isolato per insegnare ad «ardire» in luogo di «ordire» («V’erano di lacciuo’ forme sì nuove… / Che perder libertate ivi era in pregio!» e «Tanti lacciuol, tante impromesse false…», Rvf 214, 10 e 12, e 69, 3). Un emistichio petrarchesco è anche nel messaggio Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie (Rvf 289, 1), mentre nel Teneo te Africa il poeta è citato come eponimo dell’espressione «Latin sangue gentile» (Rvf 128, 74), certo adatta a interpretare il pensiero di d’Annunzio se, all’inizio dello stesso anno in cui viene pubblicato questo libello celebrativo della conquista d’Etiopia, essa compare nel telegramma scritto a Mussolini sopra citato.
Ma la parte meno datata delle Prose di ricerca resta quella in cui l’epos oratorio cede all’esplorazione d’ombre: la Contemplazione della morte, le Faville del maglio, il Libro segreto. Nel diario della Contemplazione, seguendo a distanza l’agonia e la morte di Pascoli, d’Annunzio ricorda la visita che gli aveva fatto nell’umile casa, e lo soccorre allora il Petrarca di O cameretta che già fosti un porto, letticciuolo compreso (Rvf 234). Anche parlando dell’amico francese Adolphe Bermond, sulla cui fine verte la Contemplazione, egli cita Petrarca, sia pur di sfuggita, nell’intento di mettere in evidenza la fraternità letteraria tra l’Italia e la città di Bordeaux. Nei due tomi delle Faville del maglio e nel Libro segreto, poi, viene additato come modello il Petrarca del Secretum, la cui «falsa modestia» nel presentare quell’opera viene pure «a noia» a d’Annunzio. Ancora il Secretum riaffiora all’interno del Venturiero, o meglio nel Secondo amante di Lucrezia Buti (che nell’edizione definitiva verrà scorporato), dove d’Annunzio confronta la scrittura petrarchesca con la propria, «più potente» rispetto alla mancanza di «amor sensuale della parola» dell’illustre precedente (della materia del libello petrarchesco, di cui non cita mai il titolo alternativo De secreto conflictu curarum mearum, d’Annunzio, che nella sua confessione versa tutt’al più problemi psicologici, mai etici, non pare accorgersi).
Meno rilevanti gli altri cenni a Petrarca nel libro. Nel Compagno dagli occhi senza cigli, secondo tomo delle Faville pubblicato quattro anni dopo il primo, la materia si frange in una miriade di immaginazioni e memorie. E così le menzioni di Petrarca, che compaiono come schegge minuscole e colorite (per esempio, un «coretto circolare che da un lato porta su la sporgenza del dossale le più leggiadre stampe del Canzoniere di Francesco Petrarca». Anche nell’evocazione dell’ultimo incontro con Giuseppe Giacosa, una celebre canzone del Petrarca (Rvf 129) è al centro della discussione con d’Annunzio, che sostiene però la superiorità della «libera creazione ritimica» della strofe di Pindaro o di Eschilo.
Ancor più franto nella struttura e nella scrittura, rispetto alle Faville, il Libro segreto lascia affiorare qua e là il nome di Petrarca, citato per la perizia metrica, inferiore però a quella del lirico di Alcyone: «Non mi bastò un gioco di assonanze, e di consonanze intime, per dare al Fanciullo sette ballate che non arieggiano alcuna dello stil novo o del Petrarca?». Il poeta è evocato ancora una volta come virtuoso del metro, ponendo l’accento sulla canzone-sestina già richiamata nelle pagine sulle Myricae pascoliane, in quelle sul Jaufré Rudel carducciano e in un passo del Fuoco, nonché emulata nell’Isotteo e nel Paradisiaco. Quello del Libro segreto, un monologo che ha per solo oggetto l’autore, è insomma un Petrarca in briciole, recuperato nella memoria grazie alla consuetudine con preziosità lessicali riportate sul dizionario Tommaseo-Bellini e alla presenza, nella casa-museo del Vittoriale, di rarità bibliografiche o di preziose reliquie.

Petrarca nelle poesie

D’Annunzio, del resto, frammenta e lessicalizza nel suo linguaggio le fonti poetiche, quasi pietra dura incastonata nel metallo, lega preziosa cui l’oro petrarchesco conferisce chiarità. E il nome di Petrarca compare più volte a ingemmare i preziosi Versi d’amore, più che quelli di gloria, del Nostro. Nel Canto dell’ospite di Canto novo (II, 11) la canzone di Petrarca apre, insieme al sonetto di Cino, ai distici elegiaci e alla strofa asclepiadea, il ventaglio dei possibili omaggi metrici alla donna:

Vuoi tu ascendere (tu che d’aureole
d’oro i crepuscoli cinser di Fiesole!)
la canzon che il Petrarca
constellò di sue lacrime? (vv. 9-12).

Nel clima preraffaellita delle Due Beatrici, e della Chimera in generale, l’autore del Canzoniere entra nel dipinto che d’Annunzio stende a gara con Botticelli. Così, evocati Poliziano e la Primavera, fa la sua comparsa decorativa anche un Petrarca larmoyant:

Or n’andavan così per la novella
erba, per l’ombre de ‘l beato lido,
il damigello con la damigella,
pensando Cino ed il Petrarca e Guido» (vv. 57-60).

L’eleganza che governa il Poema paradisiaco fa sì che il poeta aretino rappresenti il trait d’union tra le varie parti, accompagnandosi ad altri rimatori antichi nelle epigrafi che lo scandiscono, dettandone ritmo e registro. Nel Prologo accanto a Benuccio Salimbeni e a Frate Stoppa, ecco il Petrarca di Rvf 56: «Tra la spiga e la man qual muro è messo?» (v. 8); a introdurre l’Hortus conclusus con Cino da Pistoia e Sennuccio del Bene coopera in epigrafe l’encomiastico vocativo di Rvf 267: «Alma real, dignissima d’impero…» (v. 7). Hortus Larvarum è poi preceduto, oltre che dal Conte di Battifolle e Saviozzo da Siena, dal trasognato Petrarca di Rvf 49: «…quasi d’uom che sogna…» (v. 8). Assente dagli esergo di Hortulus animae, il poeta del Canzoniere è citato nel testo di Un verso (v. 4), mentre nell’Epilogo i versi di Cino e di Bindo Bonichi sono preceduti da quello petrarchesco, adattissimo a un explicit, tratto com’è dal Triumphus Mortis, II «…infin qui t’ho condutto / salvo (ond’io mi rallegro), benché stanco» (vv. 119-120).
Se nel Paradisiaco Petrarca accompagna il percorso a suo modo morale del poeta moderno con un diagramma che va dalle Rime (specie quelle consone agli stilnovisti che lo affiancano nelle epigrafi) ai Triumphi, in Elettra, il libro eroico delle Laudi, il cantore di Laura emerge nella zona pacifica delle Città del silenzio, con una funzione che ieri poteva dirsi decorativa e ora sembra invece suggestiva. Ecco dunque il settimo sonetto su Prato, dove Francesco appare non solo come «architettor della Canzone» (v. 1), ma anche come devoto discepolo di uno sfortunato maestro, parimenti omaggiato dal poeta moderno. Nel primo, invero modesto, dei componimenti dedicati alla sua città natale, Petrarca compare ancora come maestro di canzoni, le quali, afferma Gabriele, con i sonetti di Guittone gli parlano d’amore:

Van sonetti del tuo Guitton, canzoni
del tuo Petrarca per colline e valli;
e con voce d’amore tu mi parli (12-14).

Complessivamente meno interessanti le occorrenze petrarchesche nelle poesie sparse, tra cui almeno una nel primo dei Sonnets cisalpins, in cui il poeta è ancora maestro del sonetto (Le page craintif, v. 1), e nei nove componimenti inclusi nel Venturiero, in cui è soprattutto «signore / della canzone» (Lorenzo, ospite sono in questo chiaro, vv. 9-10).

Funzioni degli echi petrarcheschi nel linguaggio dannunziano

Al catalogo delle menzioni esplicite di Petrarca va aggiunto, per completezza di discorso, uno sguardo all’influenza che la sua poesia esercitò sul linguaggio dannunziano, e segnatamente su quello lirico: come già osservato in uno studio ormai lontano sulle correzioni della Sera fiesolana (Gibellini 1976), per esempio, una reminiscenza del Canzoniere entrata quella lirica fece da reagente nel suo processo elaborativo. Infatti, alla forma iniziale dell’incipit, «Dolci sien le mie parole ne la sera / come il fresco fruscìo che fan le foglie», subentrò quella definitiva, «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie», ascrivibile a una scelta d’ordine fonosimbolico e sinestetico ma non meno alla volontà di impiegare, con la ripresa-variatio dell’attacco della seconda strofa, «Dolci le mie parole ne la sera», la dittologia «fresche et dolci» dell’incipit di Rvf 126 (di cui un remake apre uno dei Sogni di terre lontane, Lacus Iuturnae: «Settembre, chiare fresche e dolci l’acque / ove il tuo delicato viso miri», vv. 1-2).
Dopo Dante, certo il primo auctor di d’Annunzio (che mutua da lui i titoli delle sezioni della sua Opera omnia, «versi d’amore e prose di romanzi»), ma prima degli stilnovisti e dei laurenziani, c’è Petrarca, ai cui versi egli attinge in certa misura e in modi diversi. Nel saggio appena citato, si accenna alla consistenza dei singoli prelievi, che possono ridursi a una tessera lessicale, svincolata dal contesto originario e reimpiegata con totale libertà, oppure estendersi a un distico e a uno stilema; e alla loro funzione, ora evocativa, ora di citazione vera e propria, seppur talvolta dissimulata dall’anonimato. Le reminiscenze petrarchesche possono accompagnarsi a quelle di altri autori, antichi o moderni, che se inglobate nella stessa riscrittura ne modificano la tinta, ovvero, se fatte a distanza, producono suggestivi effetti cromatici d’insieme. Come nella Sera fiesolana, dove echi di poeti diversi, distanti di secoli (Francesco d’Assisi, Dante, Petrarca, Carducci, Pascoli, Verlaine) entrano come strumenti diversi in un concerto armonioso.
Ma la rassegna delle citazioni del poeta aretino permette anche di definire la modalità e la funzione del loro riuso da parte di d’Annunzio, più o meno analogo a quello rilevato per la Sera. Egli sembra dunque operare nel modo di Sperelli poeta, descritto nel passo del Piacere che, esteso all’intera poesia e limitato all’auctor di cui ci stiamo occupando, suonerebbe così:

Un emistichio, […] il ricordo d’un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e bene sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all’armonia.

Un Petrarca dunque menzionato o sottinteso, che conta soprattutto per il Canzoniere e, in misura assai minore, per i Triumphi. Quello latino, poco letto da Gabriele e comunque poco amato, lo interessa quasi esclusivamente per le Lettere, essenziali per dipingere il ritratto di Cola di Rienzo e il color temporale del suo sfondo, e il Secretum, recuperato dal maturo scrittore ripiegato su sé stesso, fra memoria e immaginazione, fra confessione e stenografia dei propri moti mentali. Del poeta, rimossa la patina del petrarchismo, apprezza la raffinatezza metrica, il linguaggio armonioso, la forza di certe coppie oppositive e, nella fase più tarda, l’ardente appello al «Latin sangue gentile», e magari la celebrazione della scipioniana conquista dell’Africa (anche se nel Teneo te Africa cercheremmo invano un lamento di Magone, l’empatia con il nemico vinto). Questo, in sintesi, si ricava dalle menzioni esplicite.
Altre ragioni d’interesse s’intuiscono, come nella pagina contro il Saggio petrarchesco di De Sanctis, nella quale, difendendo Francesco scrittore-artista, finisce per difendere sé stesso. E, nonostante l’assenza di affermazioni precise al riguardo, si capisce che in molti tratti di Petrarca egli si doveva riconoscere: l’amore della gloria e l’idea dell’alto rango del poeta; il culto della classicità; la costante preoccupazione, nelle opere e nelle lettere, di costruire la propria immagine e il proprio mito per la posterità; la sperimentazione di forme e generi; la straripante presenza dell’io come oggetto della scrittura.
Ma occorre anche dire che altrettanto cospicuo è il Petrarca che manca in d’Annunzio, o quello cui si mostra indifferente o sordo: è lo scrittore totalmente dedito (almeno in letteratura) a un’unica donna, l’uomo costantemente attraversato da dissidi morali, non tanto delle opere filosofiche e ascetiche, e nemmeno dei Triumphi (anche se Gabriele non ha mancato di scrivere il suo Trionfo della morte), ma del Canzoniere, di cui l’Imaginifico sembra apprezzare solo la levigata superficie formale, l’incantata descrizione della natura e l’opzione per la materia amorosa. E se l’egotismo di Francesco era fonte per lui di conflitti morali, quello di Gabriele, uomo cui era sconosciuto ogni rimorso, viene gioiosamente esaltato, o risolto tutt’al più in oscillazione psicologica tra eccitazione e melanconia.

 

Bibliografia essenziale

Catalogo delle lettere di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, «Quaderni Dannunziani», 1976, XLII-XLIII.
Interviste a D’Annunzio, a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2002.
Angelo Conti, La beata riva, Milano, Treves, 1900.
Gabriele d’Annunzio, Prose scelte, Milano, Treves, 1906.
Gabriele d’Annunzio, Sonnets cisalpins, in Gabriele d’Annunzio à Georges Hérelle, Correspondance inédite, a cura di Guy Tosi, Parigi, Denoël, 1946.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, I-II, a cura di Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982-1984.
Gabriele d’Annunzio, Prose di romanzi, I-II, a cura di Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1988-1989.
Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici, I, a cura di Annamaria Andreoli e Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1996.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, Milano, Garzanti, 1999.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, I-II, a cura di Annamaria Andreoli, Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005.
Pietro Gibellini, I pentimenti della «Sera». Saggio di un commento alle correzioni di «Alcyone», in Idem, Logos e Mythos. Studî su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985, pp. 31-84.
Francesco Petrarca, Secretum, a cura di Enrico Carrara, Torino, Einaudi, 1977.
Francesco Petrarca, Triumphi, a cura di Marco Ariani, Milano, Mursia, 1988.
Francesco Petrarca, Le familiari, I-III, a cura di Ugo Dotti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991-1994.
Francesco Petrarca, Lettere disperse. Varie e miscellanee, a cura di Alessandro Pancheri, Parma, Guanda, 1994.
Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996.

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