di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana
1878- 1887: dall’immaginazione alla realtà
Dagli impervi abitati d’Abruzzo ai centri più importanti dell’Italia d’allora come Firenze e Roma, molti i luoghi e le città d’Italia che d’Annunzio amò, ma, fatto singolare, l’amore di d’Annunzio per Venezia nasce di lontano, senza che egli l’abbia vista mai. Nel 1878, ginnasiale del «Cicognini» di Prato, destina a un tema d’italiano (Bodrero 1934, pp. 161-185) un animato ritratto della «Serenissima Repubblica»: ha attinto all’opera di Alphonse Royer, Venezia la bella (Zorzanello 1983, pp. 20-21); nel 1879 è la volta dell’ode di Primo vere intitolata A Bacco Dioniso Nel Museo Archeologico della Biblioteca Marciana in Venezia (d’Annunzio 1982, pp. 49-51): è un ecfrastico ritaglio dal Catalogo dei marmi scolpiti del Museo Archelogico ad opera di Giuseppe Valentinelli (Tamassia Mazzarotto 1949, pp. 101-102); ancora, nel 1886 s’ispira a una miniatura del marciano Breviario Grimani per un pregevole sonetto sulla «Cronaca bizantina» (poi nella Chimera: d’Annunzio 1982, pp. 489-490): la fonte è una riproduzione litografica interna alla Vie militaire et religieuse au Moyen Age di Paul Lacroix (Andreoli 1993, p. 34). Riferimenti puramente libreschi dai quali comunque si evince che una tensione poietica riguardante Venezia era allora già in atto. E la realtà avrebbe presto fornito alimento: il 9 settembre del 1887, d’Annunzio, De Bosis, che aveva offerto il mezzo di trasporto, Ferrari e Parenti giungevano a Venezia sullo yacht «Lady Clara», tappa d’un viaggio che in votis comprendeva anche l’Istria e la Dalmazia (d’Annunzio 1996, pp. 922-924). Di fatto, uscita di rotta al largo dell’estuario veneziano, la goletta sarebbe ripescata dalla Regia «Agostino Barbarigo» e per quella volta il giovane argonauta non si spingerebbe più in là di Riva degli Schiavoni. Qui, per l’appunto, egli prendeva alloggio al «Beau-Rivage» – attuale «Londra Palace» –, che aveva il pregio d’essere una finestra su San Giorgio e la Giudecca e di trovarsi a due passi dal Palazzo Ducale, dove da età napoleonica erano collocati la «Libreria di San Marco» e il Museo Archeologico (Zorzi 1987, pp. 363-364, 539). D’Annunzio vi avrebbe finalmente ammirato dal vero i reperti oggetto della sua immaginazione e anche il bellissimo gruppo della Leda col cigno, che rievocherà nella Licenza tanti anni dopo. Tuttavia, almeno stando alle firme sull’Albo dei Visitatori, la visita alla Marciana sarebbe avvenuta solo il 24 settembre (Giacon 2009, p. 140). In effetti, oltre a quelle monumentali, molte erano le offerte culturali della città in quel periodo, in primo luogo la splendida installazione nei Giardini della VI Esposizione Nazionale. D’Annunzio l’avrebbe visitata incontrandovi anche gli amici artisti e letterati praticati a Roma (Forcella 1937, pp. 320-321): inizio d’una frequentazione dei famosi appuntamenti artistici veneziani che si rinnoverà quasi regolarmente fino al 1901 (Varagnolo 1937, passim). Tale soggiorno gaudente, allietato perfino da una visita dell’amante Barbara Leoni (d’Annunzio 2008, pp. 115-116), non sarà del tutto improduttivo sul piano della scrittura: in quel settembre egli compone L’Allegoria dell’Autunno – Frammento d’un poema obliato che fornirà il titolo a un celebre discorso successivo (Forcella 1937, pp. 358, 368), mentre maturano gli interventi latamente politici, L’Armata navale e le Navi d’Italia, comparsi l’anno dopo sulla «Tribuna» (ivi, pp. 316-318). Dalle conversazioni intrattenute con gli ufficiali della «Barbarigo» d’Annunzio ha infatti appreso dell’insoddisfacente operato del Ministero della Marina e, indossate vesti tribunizie, si prodiga in incitamenti per una più accorta selezione e preparazione del corpo dei militi del mare: lontano preannuncio di quanto a Venezia farà il poeta-soldato, insistendo, ora munito di tecnica perizia, sulla necessità di un ammodernato e incrementato utilizzo dell’arma dell’Aviazione (cfr. infra, 1915-1919).
1894-1895: dalla realtà all’idea d’un «romanzo veneziano»
D’Annunzio non porrà più piede a Venezia fino al settembre del ’94, quando s’incontra con Georges Hérelle, già ottimo traduttore dell’Innocente, per prendere accordi sulla versione francese del Trionfo della morte. Non era solo questa la ragione del nuovo soggiorno, bensì, come attestano il carteggio con lo stesso Hérelle (d’Annunzio 2004) e i taccuini del poeta (d’Annunzio 1965; d’Annunzio 1976), la prepotente attrazione esercitata dalla città lagunare quale centro d’una mitopoiesi perdurante dall’adolescenza. Col ’94 infatti s’inaugura un quinquennio di frequentazioni durante il quale il rapporto con Venezia andrà artisticamente orientandosi fino a conseguire, insieme ad altri risultati, quelli magnifici del romanzo Il fuoco. Abbrivio di tale esperienza è senza dubbio il contatto per intermedio di Hérelle con una raffinata mondanità cosmopolita (Damerini 1943, p. 31; Zorzi 2023, p. 382). D’Annunzio verrà così introdotto al circolo, fra gli altri, della contessa de la Baume, che aveva affittato il palazzo Venier dei Leoni per i suoi eletti tra cui si distinguevano il principe Friedrich Hohenlohe, appassionato studioso del Settecento veneziano (Hohenlohe 1911), l’artista a 360 gradi Mariano Fortuny, la grande figlia dei Duse di Chioggia, Eleonora, e l’esperto d’arte Angelo Conti, che allora si trovava a Venezia col compito di riordinarne le Gallerie. Amico della Duse e primo sicuro tramite del rapporto fra lei e Gabriele, Conti era l’autore del notabile Giorgione, che, in bella vista tra le nouveautés librarie (Conti 1894), avrebbe esercitato un’influenza determinante sul d’Annunzio dell’Allegoria dell’Autunno composta l’anno dopo (Ricorda 2015, pp. 133-145). Né le sedi per il commercio intellettuale erano sempre circoli eletti, il poeta e i suoi amici frequentando gli ameni ritrovi conviviali della città, come l’aristocratico «Floriàn», «Il Cappello Nero», «Il Vapore» (d’Annunzio 2004, 23 settembre 1894, lxxiv, p. 227), tutti nel Sestiere di San Marco, oppure, «alle fondamenta delle Eremite», l’ancor oggi famosa «osteria degli artisti detta il Montin» (Barth [1909], pp. 57-58; d’Annunzio, ivi, pp. IX-X). Altri momenti privilegiati dell’apprendistato dannunziano sono le visite alle bellezze inedite della città, come il giardino degli Eden alla Giudecca o la Sacca della Misericordia, con il palazzo Contarini dal Zaffo e l’attiguo «Casino degli Spiriti» (Damerini 1943, p. 32); in tal modo il poeta incomincia a sperimentare il singolare fascino della Venezia ‘minore’, alla pari di quello delle sue isole, Torcello, Burano e Murano, nella quale si ferma a visitare una vetreria d’arte (Hérelle 1984, pp. 17-18): tutti percorsi su cui egli ritornerà nel ’96-’97 entro una chiara prefigurazione del Fuoco. Sempre in tale prefigurazione, i taccuini dei soggiorni successivi registrano le visite agli aspetti artistico-monumentali della città, che tuttavia, ricorda Georges Hérelle, furono per la prima volta metodicamente effettuate in quel 1894 sotto la guida di Angelo Conti (ivi, p. 17). In esse si fa palese, preannunciando la caratterizzazione pittorica del Fuoco, la predilezione di d’Annunzio per il cromatismo caldo e avvolgente degli artisti veneziani. Lasciandosi il 30 settembre Venezia alle spalle (d’Annunzio 2004, lxxv, p. 231), d’Annunzio recava dunque con sé un consistente patrimonio di dati e, soprattutto, il principio d’un tracciato poietico riguardante un «romanzo veneziano» già «chiaro», a sentir lui, «e vivo nello spirito» (ivi, 27 ottobre e 5 novembre 1894, lxxix e lxxx, pp. 237 e 242).
Nel successivo 1895 di d’Annunzio si registrano solo due brevi soggiorni, a settembre e a novembre, nondimeno di grande interesse. Interrotta il 21 agosto la crociera in Grecia (Tosi 1947, p. 123), egli ha fatto ritorno a Francavilla, da dove il 21 e il 22 settembre scrive a Hérelle annunciandogli la sua partenza per una breve visita veneziana (d’Annunzio 2004, cxxvi-cxxvii, pp. 335-336). Al momento è immerso nella scrematura delle fonti della Città morta, ma su di lui incombe la promessa fatta ad Antonio Fradeletto di stendere un «discorso» per l’Esposizione Internazionale o I Biennale d’Arte, «discorso» che su sua richiesta è slittato dalla fine d’aprile al 30 di ottobre quale orazione di chiusura, e però sta urgendo in lui anche il «romanzo» annunciato a Hérelle nell’autunno del ’94. Pertanto, una ricognizione veneziana s’è fatta per più aspetti imprescindibile. Disceso il 23 settembre «all’Hôtel Danieli» (ivi, cxxviii, p. 340, c.d’A.), tre giorni dopo egli stendeva la criptica nota «Amori. et. dolori. sacra. / * 26 settembre 1895. / Hôtel royal Danieli / Venezia» (d’Annunzio 1965, VI, p. 77). In essa è più che probabile un riferimento amoroso ad Eleonora, da cui nel ’94 era rimasto oltremodo impresso (Mariano 2016, pp. 82-85), ma di fatto egli voleva incontrarsi con la Duse, capocomica oltre che attrice «divina», per esporle il suo progetto della Città morta. Tuttavia, si è visto, la creazione della tragedia s’intersecava con quella del romanzo e con la stessa stesura del «discorso» per la Biennale. È dunque al fine d’una raccolta di materiali potenzialmente fruibili in più direzioni che il 27 settembre, attesta l’Albo dei Visitatori, d’Annunzio si reca alla Marciana (Giacon 2009, p. 137), dove sarà cortesemente assistito dal prefetto Carlo Castellani. È possibile che qui consultasse, fra le tante cose d’arte, anche il recentissimo catalogo della Biennale, ma di sicuro gli stava a cuore effettuare una ricognizione erudita connessa alla «capolavorazione» del romanzo. In tal modo il «famoso discorso che voi sapete», quello dell’Esposizione (d’Annunzio 2004, 8 ottobre 1895, cxxx, p. 341), si sarebbe tradotto nella Glosa all’Allegoria dell’Autunno (D’Annunzio 1895), poi trasposta nel Fuoco quale orazione di Stelio Èffrena in Palazzo Ducale. In breve, un frettoloso escamotage: congedatosi quello stesso 27 dal prefetto marciano (Zorzanello 1983, pp. 13-14), l’indomani d’Annunzio si recherà a Firenze e quindi a Francavilla per tuffarsi nella stesura di «questa prosa» senza «un’ora di distrazione» (d’Annunzio 2004, [15 e 20 ottobre 1895], cxxxii, p. 345). Tuttavia, ancora inadempiente il poeta, il «discorso» per l’Esposizione sarebbe da questi pronunciato solo l’8 novembre, quando la Mostra aveva ormai chiuso i battenti.
1896-1899: Venezia nella realtà e nei taccuini del Fuoco
I soggiorni dal 1896 al 1899 sono tutti scanditi dalla creazione del Fuoco: non tanto come concreta stesura, oltremodo frammentaria anche per l’interferire dell’opera teatrale, certo come progettazione e scrittura nell’interiore. Immerso nella «Città di Vita», d’Annunzio stende le sue note su monumenti e dipinti, ma anche si smarrisce in appartati tragitti rivelandosi affascinato dalla compresenza, che Venezia sa incomparabilmente offrire, d’un gioioso trionfo di luce e colore e dell’intensa mestizia che muove dalla devastazione del tempo. Queste due declinazioni, che sono del romanzo e della città reale innanzitutto, prenderanno corpo nei due blocchi complementari dei Taccuini e degli Altri taccuini veneziani del 1896, 1897, 1899. Il generale carattere d’una rielaborazione memoriale in vista della scrittura d’arte nulla toglie al realismo sensibilissimo delle note dannunziane. Fra di esse spiccano per particolare abbondanza e significatività quelle stese nel giugno e settembre 1896 nei Taccuini VIII, IX, X e negli Altri taccuini 2, 3, in cui già si rinviene la topografia del «dramma di “passione”» che il poeta intende collocare a seguito della composta Allegoria (Mariano 2016, pp. 102-103). Benché meno testimoniato, di grande rilievo per l’economia narrativa ed anche teatrale è lo stesso 1897, con i taccuini di luglio e ottobre XV, XVI, 6, dei quali il XV, registrante una visita alle fornaci muranesi, e il XVI, alla Brenta e alla villa Pisani di Stra, costituiscono il sicuro avantesto di alcune celebri pagine del romanzo e in parte del Sogno d’un tramonto d’autunno. Poche, invece, prossima ormai la conclusione del Fuoco, le attestazioni del 1899, con i Taccuini XXX e XXXI risalenti al mese d’ottobre, benché, pur non registrandolo, d’Annunzio si fosse recato a Venezia anche a maggio, quando al «Rossini», interpreti Duse Zacconi, si rappresentava La Gioconda e in contemporanea s’inaugurava la splendida III Esposizione d’Arte, dal poeta visitata di sicuro (Varagnolo 1939, p. 147). Quanto al contenuto, i taccuini restituiscono i principali tópoi di rappresentanza già esplorati nel ’94: la Scuola di San Rocco, con l’amato Tintoretto (d’Annunzio 1965, X, pp. 131-133); l’Accademia, dove d’Annunzio specialmente ammira il colorismo infuocato di Bonifazio de’ Pitati e quello «luminosissimo» di Paris Bordone; il Museo Correr, con le «due cortigiane del Carpaccio» (d’Annunzio 1976, 3, pp. 38-42); San Marco, meta di annuali sopralluoghi (ivi, 2, pp. 23-24; d’Annunzio 1965, XVI, p. 217; ivi, XXXI, p. 349), con i suoi ori fiammeggianti e i suoi marmi varî di colori e venature; Palazzo Ducale, con il Paradiso del Tintoretto e il Trionfo di Venezia del Veronese (d’Annunzio 1976, 2, pp. 24-25, e d’Annunzio 1965, X, pp. 129-131), cui è connessa la figurazione di Stelio, per ora «Basilio». Ferma poi restando la predilezione per il patrimonio pittorico, d’Annunzio non è certo insensibile all’architettura della città, visto che dedica cura anche al «Palazzo Vanassel» (Van Axel), ritorna a visitare San Giovanni e Paolo con l’antistante statua del Colleoni, e ha note ammirate per la Chiesa di Santa Maria dei Miracoli (d’Annunzio 1965, VIII, pp. 109-113). Accanto ai luoghi più illustri, fin dal prezioso taccuino 2 del giugno ’96 (d’Annunzio 1976, pp. 26-29) egli si sofferma sulla Venezia ‘minore’, con l’intrico delle sue calli e dei suoi rii attraversati in gondola tra muri rossastri e chiusi giardini: scopre allora, in San Giacomo dall’Orio, la Chiesa di San Giovanni Decollato, nella cui navata di destra lo colpisce la colonna «verde […] come la condensazione fossile d’una […] possente foresta» alla quale per ora «si appoggia Laura» (ivi, p. 29). Venezia è anche colta trionfare nella sua irrefrenabile vitalità: esemplare è ancora il taccuino 2 con la vista a Rialto, alla «vigilia di Sant’Antonio (12 giugno)», di «tutte le barche (da Malamocco, da Chioggia, dal Lido) cariche di frutta e verdura», di cui una «piena di ciliege e di gigli [c.d’A.]» (ivi, p. 26). Questa animata inquadratura, trasposta a inizio romanzo nel passeggio in gondola di Stelio e Foscarina, ricompare puntualmente in una lettera del 17 giugno ’96 a Georges Hérelle cui egli confida di trovarsi a Venezia per «”studii” relativi al […] Fuoco». E «Vi mando», scrive nel congedo, «i petali d’un fior di melagrano. Jeri, in un orto, gli alberi ne brillavano; e v’erano da per tutto papaveri fiammanti» (d’Annunzio 2004, clxii, p. 395). L’«orto» è sicuramente quello degli Eden alla Giudecca con la sua gran copia di marasche, rose, oleandri, garofani, papaveri e i fiori «violentemente rossi (16 giugno)» dei melograni (d’Annunzio 1965, VIII, p. 108); un luogo caro al poeta – come lo sarà a Foscarina –, ch’egli ritorna a visitare il 14 luglio 1897 sottolineandone «la pienezza ineffabile di vita» (d’Annunzio 1976, 6, p. 61); sempre alla Giudecca, questa volta nell’ottobre del ’97, lo affascina un orto «biondo e purpureo […] con […] ortaggi pingui» (d’Annunzio 1965, XV, pp. 198-199): è quello di «Ca’ Frollo», cui si è recato in compagnia della Duse per far visita all’artista americana Henriette Macy (Damerini 1958, pp. 181-184), la «Clarissa d’oltremare» delle Faville. Alla pari, diffusamente attestato è il fascino spirante dalla malinconia veneziana: Palazzo Gradenigo, ove «Tutto è morto, cadente nell’abbandono» (d’Annunzio 1976, 2, pp. 27-28, 28); la Chiesa di Sant’Alvise, che comunica al visitatore «un’impressione […] di dissolvimento, di decadenza, di ruina» (d’Annunzio 1965, XV, p. 208); nei pressi dell’Accademia – e dell’attuale Fondazione «Peggy Guggenheim» – la casa serrata di Calle Gambara, futura dimora di Radiana di Glanegg (ivi, VIII, p. 105, e un cenno anche in 3, p. 44); antichi orti segreti con «un avanzo di chiostro» (ivi, VIII, p. 111, e IX, p. 118); le molte inquadrature sulla laguna: dalla Giudecca, le isole-nosocomio San Clemente e San Salvo «perdute nel vapore – cinereo» (ivi, VIII, p. 108), o, dalle Fondamenta Nuove (ivi, IX, p. 121), «A sinistra Murano e il Cimitero [San Michele]» e «davanti», discosta dalle isole maggiori, San Francesco del Deserto, cui nel [settembre] ’96 d’Annunzio si reca in compagnia di Angelo Conti (ivi, IX, pp. 121-125; Conti 1896). Ma talvolta la malinconia si tinge di funereo: come avverrà il 18 ottobre ’97, quando, al rientro da una visita alle fornaci vetraie muranesi (ivi, XV, pp. 201-202, 205-207), Venezia si fa innanzi al poeta «cupa e fumigante, come una città incenerita» (ivi, XV, p. 205). Sono luoghi largamente assunti nel Fuoco. Da ultimo, al ritorno da Vienna nell’ottobre del ’99, egli fa sosta nella città lagunare per una ricognizione conclusiva: saranno i neri «felsi marciti» che si scorgono nei pressi di San Simeone, le statue mùtili del giardino Gradenigo (ivi, XXX, p. 342, ma già 2, p. 27), e il Palazzo Vendramin-Calergi, in cui, prima di farlo morire nel Fuoco, visita le stanze un tempo occupate da Wagner (ivi, XXXI, pp. 350-351). Tuttavia, come nel romanzo a venire, la registrazione della malinconia di Venezia spesso si coniuga con quella della sua vitalità. Così accade anche nel corso di visite ripetute nel tempo: l’incolto giardino di Palazzo Gradenigo, che nel giugno ’96 offriva improvviso alla vista il lussureggiare di roseti, papaveri, calicanti (ivi, VIII, p. 106), nell’autunno del ’99 donerà all’occhio la vivace nota verde-gialla di serpeggianti zucche (ivi, XXX, p. 344). Né certamente poteva sfuggire a d’Annunzio la captazione del complesso sensoriale tipico di Venezia: saranno allora trasposti nel romanzo il pervadente odore della canapa cardata (ivi, XXX, p. 342); la giornata di pioggia «grigia, fumosa, col vento di Greco» (ivi, VIII, p. 105); suoni di campane lontane e il canto degli uccelli che popolano le isole (ivi, IX, p. 122); i ronzii d’insetti nell’orto degli Eden e il «cantare lento» che vi giunge dalle isole-nosocomio (d’Annunzio 1976, 6, p. 61); lo «strano riso» dei gabbiani e il rumoreggiare della tempesta in laguna, «i sibili rauchi delle sirene [c.d’A.]» che nella bassa marea si fanno «dolci come suoni di flauto» (d’Annunzio 1965, XVI, pp. 216-218). Infine, i taccuini restituiscono un’immagine della città quale sede di visitazione erudita e di maturazione anche in senso musicale. Il taccuino X del [settembre] 1896 contiene (d’Annunzio 1965, pp. 134-135) un’interessante descrizione strumentale dell’Arianna di Benedetto Marcello (Uras 2015, p. 60), che sarà ripresa nel romanzo alla pari dell’Arianna di Claudio Monteverdi, cremonese per nascita, per vita veneziano. In rapporto tutt’affatto complementare è il taccuino 6: in data ottobre 1897, vi si riporta (d’Annunzio 1976, pp. 61-62) una cospicua lista di titoli d’Opere di musica italiana antica, che, annoverante svariati studi di teoria e pratica musicale del Cinque-Seicento, fu sicuramente tratta dal catalogo dei Fondi Antichi della Biblioteca Marciana (Giacon 2009, p. 173). Pertanto, entrambi i taccuini recano indizio della svolta prodottasi nel gusto musicale del futuro artefice del Fuoco specie a seguito della lettura dello studio di Romain Rolland Histoire de l’Opéra en Europe avant Lully et Scarlatti (1895): con «certo disamoramento per Wagner» (Ciani 1982, p. 44) e la rivalutazione del genio mediterraneo in opposizione a quello germanico. Al contempo il 1897, anno della stesura del Sogno d’un tramonto d’autunno, ha rinverdito l’interesse per la storia di Venezia e il suo costume. Lo si evince dal medesimo taccuino 6, là dove, interrompendo la successione degli studi di musica (d’Annunzio 1976, p. 62), figura l’annotazione «Habiti antichi – di Cesare Vecellio», che, unitamente all’opera dello storico Pompeo Gherardo Molmenti (1880 e 1884), è tra le fonti sia del Sogno che del Fuoco (Giacon 2009, pp. 68-70, 164-177). I taccuini del biennio ’96-’97 recano note di grande rilievo anche sotto il profilo biografico, testimoniando la frequentazione del principe Friedrich Hohenlohe e della sua compagna, poi legittima consorte, Teresa Cattadori, privilegiata destinataria del poeta (d’Annunzio 2019). D’Annunzio aveva sicuramente conosciuto «Fritz» e «Zina» nel 1894, tuttavia la prima testimonianza certa d’un rapporto propriamente amicale risale al taccuino VIII del 1896, recante dettagliata descrizione della «casa di bambola. Tutta rossa di fuori» di Fritz Hohenlohe (pp. 106-107): è la Casetta di San Maurizio in cui egli s’installerà negli anni della guerra. Il 1897, a più riprese (Taccuini XV e XVI), registra l’approfondirsi d’una consuetudine affettuosa, della quale, con le figure del principe «Hoditz» e della «bella Nineta», recherà traccia lo stesso romanzo del 1900.
1901-1908: una frequentazione rara
Nel decennio precedente l’«esilio» francese, d’Annunzio ha ormai centro d’ispirazione e dimora fissa in Toscana. Si sa che egli fu sicuramente a Venezia nel 1901: per assistere, l’8 di maggio, alla mise en scène della Città morta al «Rossini», mentre il 6, su invito della Lega Navale veneziana, aveva parlato presso «La Fenice» della «necessità di armare l’Italia sul mare» e poi letto la Canzone di Garibaldi (Damerini 1943, p. 86). Un soggiorno denso d’impegni, in cui anche visitava l’Esposizione (Varagnolo 1939, p. 148) e soprattutto prendeva contatti con Mariano Fortuny per affidargli la realizzazione scenografica della Francesca da Rimini. Il carteggio intrattenuto con il geniale ideatore del sistema a luce riflessa consente di apprendere come in quei giorni il poeta si recasse più volte nello studio dell’amico a Palazzo Pesaro degli Orfei: prima da solo e poi con la Duse, imprescindibile partner e mecenate (d’Annunzio 2017, pp. 69-72). A settembre, dopo la rinuncia di Fortuny a quel compito oneroso e da eseguirsi in tempi strettissimi, d’Annunzio ritornò a Venezia nel tentativo di persuadere l’artista a continuare il lavoro, e vi si trattenne, benché vanamente, sino alla fine mese (ivi, pp. 86-98). Per il seguito, altri soggiorni non sono accertati fino all’ottobre 1907, quando l’autore della Nave, dirigendosi a Fiume per darne il 23 pubblica lettura, ne offriva il giorno prima un saggio agli amici veneziani presso la Casetta rossa dello Hohenhole (d’Annunzio 2019, 23 ottobre 1907, ii, pp. 91-93). Sarà ancora a Venezia nel 1908 per assistere alla rappresentazione della tragedia svoltasi alla «Fenice» dal 25 al 29 aprile. Caldamente promosso dalla Lega Navale, il cui presidente, Piero Foscari, era un fervido sostenitore dell’irredentismo adriatico, l’evento fu applauditissimo anche per via del folto pubblico di irredenti convenuti da ogni dove. Riconoscente, d’Annunzio avrebbe consegnato al sindaco Filippo Grimani il manoscritto della tragedia quale dono per la città (Damerini 1943, pp. 101-102). Ciò ed altre attestazioni, dal sonetto dedicato allo scultore Leonardo Bistolfi per la V Esposizione ai preziosi tessuti e vetri veneziani con cui ornava la sua Capponcina (d’Annunzio 2017, v, pp. 104-105), lasciano intendere come, pur in absentia, d’Annunzio mai interrompesse i rapporti con la storia, la cultura e l’arte veneziane. Tuttavia, dopo la «vasta rappresentazione epica della stirpe veneta» (d’Annunzio 2004, «Ognissanti 1904», cclxxxvi, p. 570) e il sotteso messaggio di riscatto delle terre di San Marco Istria e Dalmazia, si dovranno attendere gli anni della guerra perché il poeta riponga piede nell’amata città.
1915-1919: Venezia e il poeta-soldato
A Venezia, vittima di bombardamenti feroci e prima delle città d’Italia a patire gli effetti economici della guerra (Gray 1917, p. 45), d’Annunzio giunge il 18 luglio 1915 in veste di tenente dei Lancieri di Novara aggregato al corpo della III Armata; è autorizzato dal Cadorna ad assistere alle azioni «sull’intera fronte dell’Esercito» e dal Ministero della Marina a «prender parte a movimenti e combattimenti di nave» (Alatri 1983, p. 366), ma, subito entrato in contatto con i piloti dell’aeroscalo del Lido, egli volgerà calda richiesta al Salandra di prender parte anche alle azioni aviatorie. Con altrettanta tempestività, in compagnia di Piero Foscari visita l’ingegnoso sistema di difesa collocato sulle altane, inaugurando il costume di seguire personalmente le incursioni aeree e di verificarne i danni al patrimonio artistico. Ha preso alloggio al «Danieli», ma, anche grazie alla mediazione di Mariano Fortuny, troverà un «rifugio» più adatto alle sue esigenze di raccoglimento e scrittura proprio nella Casetta rossa degli Hohenlohe. Lo scoppio della guerra ha infatti segnato la dipartita del principe Friedrich: appartenendo al ramo austriaco della Casa imperiale tedesca, benché nato a Venezia da una nobildonna d’ascendenza italiana e a Venezia da sempre, egli ha dolorosamente optato per l’esilio riparando con la moglie Zina a Lugano. La Casetta è dunque sotto sequestro e d’Annunzio vi s’installa il 9 settembre (d’Annunzio 2019, vi, pp. 108-113, p. 113). Ragioni affettive, la nostalgia di giorni più felici e soprattutto la radicata amicizia per Fritz e Zina, contribuiranno a fare della dimora veneziana la sede prediletta fra le tante che egli ebbe durante la guerra. Ma anche ragioni di praticità: d’ubicazione centrale e insieme discreta, la Casetta di San Maurizio è per d’Annunzio il luogo ideale in cui ricevere o da cui raggiungere i suoi amores e insieme appagare la passione per la musica. Oltre che con l’eccentrica marchesa Luisa Amman Casati-Stampa, egli entra in intima consuetudine con Olga Brunner Levi («Venturina»), relazione che andrà spegnendosi nel ’19 col subentrare di Luisa Bàccara, l’egregia pianista veneziana che dagli anni di Fiume seguirà il poeta al Vittoriale. La Brunner vive a San Vidal, nel longheniano Palazzo Giustinian Lolin – attuale «Fondazione Levi» – dove Olga, dalla bella voce e apprezzabili abilità al piano, e il coniuge Ugo, musicologo e pianista talentuoso, sogliono organizzare concerti specie con giovani musicisti di vaglia (Vivian 2005, pp. 18-19, 39). Il poeta-soldato frequenta assiduamente il circolo di San Vidal, come frequenta il Liceo Musicale «Benedetto Marcello», in cui per sua iniziativa si tengono, con la partecipazione dello stesso Ugo Levi, concerti anche per i feriti (ivi, p. 19). La Casetta medesima, specie nei mesi della cecità, è sede d’eccellenti esecuzioni da parte anche del pianista Giorgio Levi e di quelle giovani promesse uscite dal «Benedetto Marcello», ora soldati del Lido, Attilio Crepax, Saracini, Bondi, Alberghini (Giacon 2009, pp. 82-83; Uras 2015, pp. 68-69), ripetutamente rievocati nel Notturno e nella Licenza. San Maurizio, inoltre, è meta di ragguardevoli ospiti stranieri, fra i quali nel maggio del ’16 Maurice Barrès, nel ’18 Calmann-Lévy, André Maurel, André Bérida e, autori d’interessanti cronache, l’amico dagli anni francesi Marcel Boulenger e il console di Francia René Dollot (Boulenger 1925; Dollot 1952); è luogo d’incontri, nell’imminenza di qualche rilevante azione militare, con personalità politiche come Paolo Thaon di Revel, il Duca d’Aosta o, all’indomani della «vittoria mutilata», la delegazione dei congiurati fiumani. Scomoda per l’illustre circondario sul quale caddero numerosi lanci destinati a d’Annunzio (Damerini 1943, pp. 142-144; Ojetti 1925, II, pp. 13-17), la Casetta risultava invece comodissima per il poeta-soldato, che, dal giardinetto sul Canal Grande, poteva speditamente raggiungere i centri militari dell’Arsenale, di Sant’Andrea e di San Nicolò del Lido, sede di quella Prima Squadriglia Navale Siluranti Aeree, la Sufficit Animus, al cui comando, battendosi per l’utilizzo dell’aereo «quale vettore per un siluro», sarebbe preposto nel marzo 1918 (Capra 2014, pp. 71-72). Se già prima d’occuparla egli era stato protagonista di significative azioni marittime e aviatorie (la dimostrazione nelle acque di Pola, i voli con Giuseppe Miraglia su Trieste e su Grado), dalla Casetta sarebbero mosse alcune fra le sue più celebri imprese: il raid su Pola (2-3 agosto 1917) e «la beffa di Buccari» (10-11 febbraio 1918), e naturalmente, nel settembre del ’19, da lì egli avrebbe raggiunto la punta di San Giuliano per la marcia su Ronchi e la presa di Fiume. Anche nel tumultuoso biennio ’19-’20 il pensiero di d’Annunzio resterà vicino a Venezia: segno ne è l’attaccamento per la Casetta che, essendo sotto sequestro ancora nel luglio del ’21 (lettera di Zina Hohenlohe, d’Annunzio 2019, «25.7.21», pp. 80-82), egli manterrà per l’intero periodo fiumano, pur avendo affittato a San Polo un piano del Palazzo Barbarigo (Gatti 1956, p. 340) per far spazio al contenuto degli otto vagoni nel frattempo giunti da Arcachon. Del resto, esperienze fondamentali lo legavano a quel minuscolo habitat, perché nel ’16 qui aveva patito i dolorosi effetti del distacco retineo all’occhio destro riportato nelle acque di Grado, e qui aveva composto il Notturno e la Licenza segnanti il netto inscriversi della sua arte nel quadro della più avanzata letteratura europea del Novecento. Costretto a tre mesi d’oscurità e immobilità assoluta, con l’assistenza della figlia Renata Gravina (la «Sirenetta») avviava nel Notturno la celebre pratica della scrittura su cartigli fatti scorrere fra pollice e medio. Nel frenetico avvicendarsi degli eventi entro le visioni allucinate dell’infermo, tra le presenze dei vivi e soprattutto dei morti (fra i molti, i piloti Giuseppe Miraglia e Luigi Bresciani), l’essenza dell’anima veneziana giunge trascritta per mezzo d’una impareggiabile sensibilità fonico-acustica: le voci nelle calli, il gridio chioccio dei gabbiani, lo sciabordio delle acque nel gran Canale. La pressoché contemporanea Licenza della Leda senza cigno compone le «faville» stese nel ’14 in Francia con una parte largamente veneziana. Una tecnica frammentistica oltremodo raffinata (Crotti 2016, pp. 76-77) proietta sull’«intenebrata Venezia di guerra» una continua successione di bagliori memoriali, lontani e vicini: le visite occorse negli anni Novanta alla Ca’ d’Oro del barone Giorgio Franchetti, a Palazzo Contarini e al suo orto ubertoso, alla pari di quella recente, rievocata dalla stessa Gravina, al pittore-vetraio muranese Vittorio Zecchin (Crotti 1997, pp. 128-129), o dell’altra, con avantesto nel taccuino XCIII del giugno-luglio 1916, ai morti per cielo e per acqua di San Michele (ivi, pp. 857-859). Quale emanazione sovente funerea della malinconia, la Licenza prelude allo stato d’animo di d’Annunzio rientrato a Venezia dopo lo scacco della sua ultima impresa. Trasferitosi quanto prima a Gardone, nella città di San Marco egli non farà più ritorno, ad eccezione d’un rapido sopralluogo nell’estate del ’21 (d’Annunzio 2019, 25 agosto, viii, pp. 121-123) e di qualche altro spostamento per verificare lo stato dei beni degli Hohenlohe. Entro le mura dell’ultima dimora dannunziana, Venezia resterà racchiusa nei preziosi «Venini» su disegno di Napoleone Martinuzzi e nei capolavori di Vittorio Zecchin, o, col favore e l’apporto di Gian Francesco Malipiero, nelle pregiate esecuzioni musicali del «Quartetto veneziano del Vittoriale». Per il resto, la «Città di Vita» ormai non poteva dare al poeta che cupa mestizia.
Bibliografia essenziale
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Didascalia dell’immagine allegata
Fotografia della Casetta rossa trasmessa a Gabriele d’Annunzio da Zina Hohenlohe Waldenburg (Archivio Generale del Vittoriale, XIII, 4, Hohenlohe W. Zina); l’invio è s.d., ma è verosimile risalga all’anteguerra. Sul margine dx risulta tracciato verticalmente, per mano della stessa Zina, il motto di conio del poeta «Tener a mente», utilizzato da d’Annunzio e dalla Hohenlohe in molteplici occasioni della loro corrispondenza.