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Parisina

di Giuseppe Muscardini, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Nel progetto editoriale concepito da Gabriele d’Annunzio la tragedia lirica in quattro atti Parisina entra come seconda opera dell’incompiuta trilogia dei Malatesti, che sarebbe stata completata con la stesura di Sigismondo, in realtà mai redatta né iniziata. Ben conoscendo l’omonimo poemetto di George Gordon Byron del 1816, d’Annunzio vi si dedicò a partire dal 1902, subito dopo il limitato consenso ottenuto dalla Francesca da Rimini. Come per il precedente episodio del ciclo malatestiano desunto dal V Canto dell’Inferno di Dante, anche Parisina fu pensata per il teatro lirico. Riguardo all’insorto interesse, gradualmente irrobustito, di d’Annunzio per la drammatica vicenda biografica della giovanissima Laura Malatesta, soprannominata Parisina, figlia di Andrea Malatesta Signore di Cesena e andata in sposa quattordicenne a Niccolò III d’Este, Signore di Ferrara e padre di Ugo (Chiappini 2001, pp. 110-112), abbiamo effettivo riscontro in una lettera dell’ottobre 1903 inviata da Nettuno al Direttore della Biblioteca Civica di Ferrara Giuseppe Agnelli (Mss. B.C.A. Cl. II, 434). Il Poeta richiedeva di farsi recapitare a Roma presso il Grand Hotel, dove in quei giorni alloggiava in attesa di raggiungere Settignano, il lucido di una pianta di Ferrara inclusa in un manoscritto dello storico Antonio Frizzi, utile per contestualizzare i luoghi ferraresi in cui si svolse la tragica vicenda di Ugo e Parisina, gli sfortunati amanti fatti decapitare da Niccolò III d’Este la notte del 21 maggio 1425 e protagonisti del lavoro a cui attendeva:

Mio caro signore ed amico, Le mando con molta riconoscenza la scheda firmata. Mi perdoni l’indugio. Soltanto ieri – avendo terminato un lungo e duro lavoro – mi furono mostrate le lettere importanti arrivate nelle ultime settimane. La ringrazio di aver pensato a me. Io verrò a Ferrara verso la fine di ottobre. Ma Le sarei molto grato s’Ella volesse inviarmi subito a Roma il lucido e s’Ella volesse dirmi ciò ch’io debba al lucidatore. Resterò a Roma pochi giorni (Grand Hotel); e poi sarò a Settignano (Firenze); Le stringo la mano con sincera cordialità. Gabriele D’Annunzio. Nettuno: 15 ottobre 1903.

Un interesse, quello maturato per i due giovani amanti, ingenerato da precedenti coinvolgimenti emotivi riguardanti, nella fattispecie, i luoghi suggestivi in cui evolvono le due storie incestuose di Francesca e Parisina che tanto lo ammaliano. Ecco allora Ravenna, dove giacciono le spoglie dell’amato Dante e dove Niccolò III d’Este sposò Parisina nel 1418. Scrigno d’arte, inserita a pieno titolo nell’«ideal filo» delle «Città del silenzio» (Rosina 1931, p. 19), Ravenna partecipa con la sua storia e la sua cultura agli intenti celebrativi presenti in Elettra, riservati ai centri storici italiani carichi di raffinata e antica bellezza, o «città soavi» (Montagnani 2019, pp. 27-36). Da d’Annunzio la città è presentata con espressiva efficacia nell’incipit declamatorio:

Ravenna, glauca notte rutilante d’oro, / sepolcro di violenti custodito / da terribili sguardi, / cupa carena grave d’un incarco / imperiale, ferrea, construtta / di quel ferro onde il Fato / è invincibile, spinta dal naufragio / ai confini del mondo, / sopra la riva estrema!

Ed ecco Ferrara, percepita dal Poeta come agglomerato urbano in cui gli spazi desertici e le strade ampie, risultato dell’innovativo assetto urbanistico rinascimentale voluto da Biagio Rossetti, diventano teatro esibitorio della vicenda che si appresta a raccontare in versi, riconvocando sul piano onirico la figura di Parisina, che ammette di preferire alle altre donne presenti alla Corte Estense nello scorrere dei secoli: «E loderò quella che più mi piacque / delle tue donne morte / e il tenue riso ond’ella mi delude / e l’alta imagine ond’io mi consolo / nella mia mente» (d’Annunzio 1899, pp. 205-206, vv. 10-14).
Ferrara, dunque, dove risiedono amici di specchiata fiducia: Ottorino Novi, romanziere e collaboratore insieme a d’Annunzio della «Cronaca Bizantina»; Arrigo Minerbi, apprezzato scultore ammesso al Vittoriale subito dopo la morte del Vate per realizzarne la maschera funeraria; Nando Bennati, musicologo e poeta; Vittore Veneziani, direttore di coro e compositore, poi  chiamato nel 1921 da Arturo Toscanini a dirigere il coro del Teatro alla Scala di Milano; i fratelli Domenico e Gualtiero Tumiati, scrittore-drammaturgo l’uno e attore l’altro, che nella primavera di quello stesso anno lo avevano invitato ad assistere al melologo intitolato Parisina (Tumiati 1902), scritto da Domenico Tumiati, musicato da Veneziani e declamato da Gualtiero la sera del 22 maggio 1903 nel cortile di Castello Estense. Fatti, questi, che esercitano su d’Annunzio un vivo interesse, diventato via via più profondo con la consultazione delle fonti storiche e della documentazione esistente sull’empatia dei due giovani amanti, sfociato in amore proibito e adulterino. Ma altrettanto passionale quanto lo era quello di Francesca da Rimini nella tragedia lirica omonima da lui composta, e andata in scena per il debutto nel dicembre di due anni prima al Teatro Costanzi di Roma, con Eleonora Duse nel ruolo della protagonista.
D’Annunzio è reduce dalla pubblicazione di Maia, uscita nello stesso mese di maggio 1903, a cui seguirà nel dicembre quella di Elettra e Alcione in un medesimo volume con i torchi tipografici di Treves, unitamente a Laus Vitae, Merope e Asterope e Maia, raccolti nelle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Vi sono trasfusi gli assiomi della teoria superoministica, ormai totalmente recepita, e di cui troviamo tangibili segni nella stessa tragedia lirica della Parisina. Segni che riconduciamo, se mai vi fosse bisogno di ribadirne la portata, all’inflessibilità di Niccolò III d’Este, il quale ‘al di là del bene e del male’ sceglie di dare la morte al figlio e alla giovane moglie, anziché umanamente graziarli una volta scoperto l’adulterio. Sono i requisiti  che si richiedono all’illuminato e lungimirante ‘Principe’ di Machiavelli, governante imparziale e capace di amministrare saggiamente la giustizia; una giustizia dalla quale  d’Annunzio sembra impressionato e colpito, memore del buon governo di Borso d’Este – a sua volta figlio di Niccolò III d’Este, ma illegittimo e non naturale come Ugo – raffigurato nelle immagini rinascimentali che adornano le pareti del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia (Muscardini 2002, pp. 85-92).
E qui l’evocazione dannunziana si fa potente, poiché questo pur crudele senso della giustizia di Niccolò III è pienamente espresso nella reazione che il sovrano ha quando scopre il tradimento: non infierisce, aspetta, ignora i due fedifraghi mentre davanti a lui questi si dolgono e mostrano avvilimento; poi osserva a lungo il cielo quasi ad attendere un cenno per capire quale pena infliggere, ma escludendo da subito la clemenza. Alla fine la pena sarà quella estrema, quella che porta un tiranno a non fare distinzione alcuna, sia che si tratti di cospiratori, di oscuri nemici o di familiari.
Una seduzione, quella per Parisina, che a tratti nella vita e nella produzione di d’Annunzio si manifesta ogni qual volta volge la mente creativa alle suggestioni musicali diffuse dai madrigali del ferrarese Girolami Frescobaldi, che riconvocano le atmosfere della Corte Estense. La ritroviamo nei Taccuini (d’Annunzio 1965 xix, p. 253), nel frammento del Notturno (Id. 1995, p. 106) e nelle Faville del maglio (Id. 1968, ii, pp. 205-208):

Ed ecco in cima alla canizie folta, rientra a Ferrara verso sera Madonna Paresina di Malatesti, col capo nella palma della man destra al modo ch’ebbe il santo di Francia messer Dionigi. E n’era uscita un lunedì ventun di maggio; e porta in mano il capo mozzo dagli occhi aperti ove Ugo s’eterna e il suo peccato; porta il capo col gesto medesimo di chi ostenta la teca dall’altare: porta nella sua teca le reliquie delle sue primavere all’autunno di Ferrara estense.

Non solo seduzione, dunque, ma autentico rapimento onirico, dettato da un’estetica della situazione storica che d’Annunzio vive intensamente nel corso dei dovuti approfondimenti e studi intrapresi; non ultimo l’incanto esercitato da altre figurazioni presenti nella fascia superiore del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, dove le fanti e i garzoni della Corte Estense bamboleggiano allegramente fra giochi e concerti. Fin dal Primo atto della Parisina questa allusione si configura come precisa citazione dei freschi di Schifanoia, suffragata da un aperto rimando alle carezzevoli dipinture di Francesco del Cossa quando entra in scena Parisina, scortata da giovani donne che imbracciano gli strumenti musicali. «Come nel trionfo di Venere su la parete di Schifanoia», insiste d’Annunzio in didascalia, nel riuscito tentativo di rendere persuasiva la concomitante situazione iconica.
Se questi elementi costituiscono i prodromi, dobbiamo necessariamente compiere un salto temporale e portarci al 1911 per comprendere fino in fondo la genesi, il travaglio e la pur modesta fortuna della tragedia. Dopo il deciso rifiuto di Alberto Franchetti e di Giacomo Puccini di rappresentarla in teatro, l’editore milanese Sonzogno, incoraggiato dal successo parigino ottenuto in quello stesso anno dal melodramma dannunziano Martyre de Saint Sebastien musicato da Claude Debussy, propose di coinvolgere allo scopo Pietro Mascagni, nonostante un precedente dissapore risalente a venti anni prima avesse minato la considerazione fra i due, per via di certe posizioni eccessivamente critiche assunte da d’Annunzio riguardo alla commedia lirica L’amico Fritz musicata dal maestro livornese, e lanciate dalle colonne de «Il Mattino» di Napoli del 2 e 3 settembre 1892 con un articolo dal titolo Il Capobanda, dove il compositore veniva descritto come un «musicante che stava attento soltanto alle esigenze del pubblico e si occupava solo di affari». Per la circostanza vent’anni dopo i due seppero costruire un dialogo fertile, non privo però di titubanze, ripensamenti e ponderate modalità per adattare il testo poetico della tragedia alla parte musicale. Il completamento avvenne nel dicembre 1912 a Castel Fleury, nelle vicinanze di Parigi, dove Mascagni raggiungeva di frequente il Vate per il necessario coordinamento tra loro, teso a rendere fruibile l’opera lirica per un pubblico esigente come quello milanese, che vi avrebbe assistito dai palchi della Scala. Risultato: 1400 versi distribuiti in quattro atti, ma di cui Mascagni ne cassò 330, oltre ad eliminare il preludio del Quarto atto; e dopo la prima rappresentazione del 15 dicembre 1913 al Teatro alla Scala di Milano, in accordo con lo stesso d’Annunzio, provvide per opportunità scenica ad eliminare tutto il Quarto atto, nonché il postludio del Secondo atto e il preludio del Terzo. La durata dello spettacolo alla prima milanese si aggirava sulle tre ore e quaranta minuti, escludendo gli intervalli. Alla seconda rappresentazione il libretto appariva pertanto privo delle parti sopra citate, con un’ulteriore amputazione del dialogo di Ugo con la madre nel Primo atto, di quello di Parisina con la Verde nel Secondo atto, del quadro con l’usignolo nel Terzo atto e dei cori sacri. Riduzione necessaria, a sentire il giudizio espresso dall’autorevole critico teatrale Giovanni Pozza che, presente alla prima milanese, si era subito espresso negativamente sui tempi della Parisina, definendo «smodata» la sua lunghezza e caldeggiandone i troncamenti con la convinta esortazione «Tagliare, tagliare, tagliare!». Il critico d’arte ironicamente faceva il verso alle grida di guerra delle fanti nel Secondo atto della tragedia lirica, quando si svolge la furiosa battaglia di mare contro i predoni: Mozza! Mozza!, Taglia! Taglia! Tronca! Tronca!, incitamento a colpire con spade e accette le ‘braccia rosse’ dei nemici che tentano l’arrembaggio. In seguito, nell’immaginario del pubblico pagante, che pure trovò oltremodo lunga la tragedia lirica, quello stesso ammonimento a tagliare virò in direzione di uno spontaneo slittamento semantico per assumere un significato più concettuale, incatenandosi per analogia alla stessa funzione scenica dell’ultimo atto dell’opera, dove incombe su Ugo e Parisina il taglio della testa per espiare la loro colpa.

Contenuto e struttura

Atto primo (totale vv. 499). Il Primo atto si svolge nella villa estense situata su un’isola del fiume Po. È il momento in cui Nicolò III d’Este, figlio di Alberto V d’Este e impenitente sottaniere, ripudia l’amante Stella de’ Tolomei – meglio nota come Stella dell’Assassino e che in precedenza gli ha dato il figlio Ugo – per sancire una nuova unione con Parisina Malatesta, figlia del Signore di Cesena Andrea Malatesta. L’acredine di Stella per la giovane antagonista trova il suo apice quando cerca di infondere nel figlio Ugo un sentimento di rivalsa, che tuttavia giunge affievolito al cuore del giovane, invaso com’è da una forte attrazione per la coetanea Parisina, all’epoca quattordicenne, ma destinata paradossalmente a diventare sua matrigna.

Atto secondo (totale vv. 611). Parisina si concede ad Ugo nei pressi della Santa Casa di Loreto. Il giovane estense è reduce da un combattimento con i predoni che infestano le coste dalmate, nella cosiddetta Schiavonia. Incontrando Parisina, forte della corale acclamazione di cui gode per aver respinto i briganti, le manifesta il suo sentimento e i due giovani danno così avvio all’amore clandestino che li unirà fino alla morte.

Atto terzo (totale vv. 544). Durante un incontro negli spazi sontuosi della Delizia di Belfiore, Parisina manifesta ad Ugo la sua preoccupazione per la storia d’amore in cui sono coinvolti. Il suo timore di essere scoperta e tradita da qualche servitore di Corte non è privo di concretezza, perché una notte i due amanti vengono sorpresi in flagrante da Nicolò III a seguito di una spiata. Non è immediata la reazione del Signore di Ferrara, dettata da comprensibile esitazione, ma alla fine giunge inevitabile la condanna: moglie e figlio vengono imprigionati in attesa della morte.

Atto quarto (totale vv. 209). Negli angusti ambienti del carcere ricavati nella Torre dei Leoni che affaccia sul lato nord-est del Castello Estense, i due giovani amanti si disperano. Sono confortati solo dal profondo sentimento che li unisce, pronti per questo ad accettare la morte, ben consapevoli che la mannaia del boia potrà mutilare il loro corpo ma non la loro anima, intrisa di passione e di amore autentico l’uno per l’altra. Neppure l’arrivo di Stella dell’Assassino, per un saluto accorato al figlio, servirà a sciogliere quel vincolo saldo nelle ultime ore di vita dei due amanti. Ugo pare ignorare l’invito della madre a raggiungerla alle sbarre per l’estremo saluto, ma destina gli ultimi istanti a Parisina, il cui nome viene da lui urlato prima di salire sul patibolo.

Sul piano critico e filologico non è possibile scindere quest’opera teatrale in versi di d’Annunzio dalla vicenda musicale e vocale che le pertiene. Testo e musica si fondono per restituire, nelle intenzioni del Vate e di Mascagni (intenzioni peraltro dibattute già in prima istanza), il clima morale che presiede ai tragici fatti a cui l’opera si ispira, storicamente documentati e ripresi nel tempo da più letterati. Quel clima morale non poteva essere descritto in altro modo se non accostando la poesia alla musica, nella diffusa convinzione che vi fosse un’evidente convergenza fra i sentimenti espressi in versi e il suono musicale dei fonemi riversati da un attore sulla platea. Come ebbe a dire lo stesso Mascagni traendo il bilancio della proficua collaborazione con il Pescarese, «se la potenza di un bel poema suscita belle sensazioni musicali, io dico che la musica è provocata e sollevata dalla poesia» (Mascagni 1914, p. 17). Né può essere negato che la poesia di d’Annunzio è musicale, che non prescinde dalla rima, ma si nutre di allegorie, di figure retoriche quali l’anafora, l’assonanza, l’onomatopea, dove la parola acquisisce valenza acustica per designare al meglio sia l’oggetto che l’azione a cui afferisce. Parola e partitura musicale si compendiano, e nel caso in specie vivificano nella vicenda storica portata in scena. L’elemento vocale che nell’introduzione strumentale del Primo atto emerge per significare l’ancestrale contesa fra amore e morte, armonizza con il susseguente coro che precede il colloquio fra Ugo e Aldobrandino, incentrato sui franamenti dell’animo umano in presenza dell’amore. Ed è ancora un coro che accompagna sul proscenio Niccolò III d’Este, così come alla fine del Primo atto le fanti intonano un coro accompagnate dal suono del violoncello solista per salutare Ugo che, agitato e indignato dopo un alterco con il padre regnante, esce di scena. All’inizio del Secondo atto sarà la solenne vibrazione emessa da un organo a introdurre il senso del sacro di cui è circonfuso il luogo, il Santuario di Loreto. Questo avviene all’apparire delle Tre donzelle e dei marinai che invocano in coro la Madonna dedicandole una Laus Virginis. In stridente e voluto contrasto con il luogo sarà di lì a poco il canto d’amore della cameriera di Parisina, denominata La Verde, ben caratterizzata nei versi vergati da d’Annunzio per il ruolo mondano che svolge e per il sororale ascendente che ha sulla sua giovane padrona. Un canto definito nel testo in versi frottola, componimento poetico popolare di origine mantovana in uso in tutto il Rinascimento, intriso di facezie e burle, e che in ambito musicale ‘snobbava’ la scrittura contrappuntistica a vantaggio di ritmi semplici e melodiosi. E nel rispetto della tradizione musicale, lo stesso Mascagni pone in accompagnamento alla frottola della Verde il suono di un’arpa, interrotto però da quello delle buccine, gli ottoni usati in ambito militare fin dai tempi di Roma, che nel nostro caso precede l’ingresso in scena di Aldobrandino ed Ugo d’Este. La potente suggestione che anima l’inizio del Terzo atto, con la parte orchestrale che amplifica in Parisina il ricordo delle analoghe vicende storiche in cui è coinvolta, dalla fiamma d’amor proibito di Francesca per Paolo a quella di Isotta per Tristano, annuncia il delicato inno alla notte accompagnato dagli accordi di un’arpa, con il flauto solista capace di evocare il verso dell’usignolo, mentre i due amanti si illanguidiscono pensando ad una fuga nella foresta, come fu per Isotta. Ma un minaccioso accordo in Mi bemolle maggiore (quello che, per intenderci, troviamo nella Sinfonia n. 3, Eroica, di Beethoven, o nella Sinfonia n. 9, Op. 70, di Šostakovič) rompe l’idillio e introduce in scena il sospettoso Niccolò III, che scopre il tradimento della moglie.
All’inizio del Quarto atto sarà il suono aspro e profondo dei violoncelli a rendere compiutamente l’atmosfera lugubre che regna nell’anfratto della prigione in cui Ugo e Parisina si disperano. E sarà un disegno musicale scandito da semplici accordi, a sostegno della melodia, a rendere il patema d’amore e mestizia di cui soffre Parisina quando Stella dell’Assassino, madre di Ugo, la implora di non trattenere il figlio, affinché possa dargli l’ultimo saluto. Conciliante la risposta di lei, espressa con malinconica grandezza: «Vedi, io non lo serro».
Rilevante il fatto che su quattro atti, tre siano ambientati in luoghi estensi ben riconoscibili e identificabili: 1. la lingua di terra sul fiume Po dove ha sede una villa estense segna l’avvio al dramma; 2. la delizia di Belfiore e 3. la Torre del Leone, ala del Castello Estense che ospita le carceri dove si compirà il destino dei due amanti con la decapitazione. Così come è rilevante il fatto che nella stesura della tragedia d’Annunzio consideri storicamente risaputo il soprannome di Paresina conferito alla sfortunata Malatesta. Risaputo ma non scontato, poiché nell’economia della composizione si allude in più occasioni al motivo per cui quel soprannome le è stato attribuito, in ragione della raffinatezza femminile, del garbo e della grazia che la Malatesta incarnava per natura. Paresina, cioè parigina, secondo modi e mode che appartenevano di fatto ad una città all’epoca considerata capitale dell’eleganza, dello stile, del buon gusto e della ricercatezza. Garbo e raffinatezza femminile, unite alla dignità nell’affrontare la morte, non possono che fare presa sull’immaginario di d’Annunzio, sedotto dalle eroine francesi dello stesso secolo in cui visse e morì Parisina, prime fra tutte la ben nota pulzella Giovanna d’Arco, che nel biennio 1428-1429 si mise a capo di un esercito di contadini per combattere gli inglesi nell’assedio di Orléans.
L’amara vicenda di Ugo e Parisina, al pari di quella di Paolo e Francesca, marcò per tutto l’Ottocento l’elaborata struttura di fantasia di quanti se ne occuparono, dagli storici ai letterati, dagli artisti ai musicisti. L’interesse che suscitò nell’immaginario popolare l’esito infelice di due sciagure parallele, in cui l’amore e la passione avevano un ruolo non accessorio, ma contrapposto alla ragion di stato, era dovuto principalmente alla diffusa consapevolezza che i due fatti luttuosi si erano consumati nell’ambito famigliare. Scalpore giustificato nel lettore che ne veniva a conoscenza, poiché l’agire nascosto di un lui e di una lei, colti in flagrante dal marito tradito che per vendetta ne decreta la morte, nella visione del pubblico dell’epoca, sia colto che popolare, equivaleva ad un duplice omicidio consumatosi a distanza di 150 anni esatti l’uno dall’altro, rispettivamente nel 1275 e nel 1425, e compiuto in circostanze simili. Fatti che nella prima decade del secolo lasciano un segno nel fecondo e già potente immaginario del diciottenne Giacomo Leopardi (Mazzucchetti 1912, pp. 961-972) che nel 1816, nel Canto II dell’Appressamento della morte, menziona espressamente Ugo d’Este e il suo funesto destino per aver amato Parisina con cuore sincero: «Ugo fui detto, e caddi in miei / verd’anni, / e me Ferrara tra suoi forti avrìa / se non fosse ‘l mio padre infra’ / tiranni /» (Leopardi 1956, pp. 260-265, vv. 100-102).
Nello stesso 1816, anno della pubblicazione dell’Appressamento, esce a Londra dai torchi tipografici di John Murray il poemetto di George Byron Parisina, edito insieme a The Siege of Corinth. Per amor di compiutezza va detto che nello stesso 1816 si segnalano nella vicenda biografica di Lord Byron accadimenti da cui si evince come il poeta inglese fosse personalmente ‘partecipe’ e ben ferrato in materia di adulteri perpetrati in famiglia. In quello stesso anno conclude infatti il suo matrimonio con Annabella Milbanke, sposata appena l’anno precedente, a causa di un eccessivo interessamento per la sorellastra di lei. E pochi mesi dopo, in Svizzera, dove si rifugia, Byron viene raggiunto dal celebre poeta, suo connazionale, Percy Bysshe Shelley e da Claire Clairmont, sorellastra della moglie dello stesso Shelley. Attratto con ogni evidenza dalle sorellastre, l’irriducibile Byron se ne innamora e dalla loro unione nascerà l’anno seguente la figlia Allegra. Esulando da questi fatti che sconfinano nel gossip ma che nel contempo la dicono lunga sulla conoscenza da parte di Byron della materia, il poemetto Parisina è tradotto in lingua italiana insieme ad altri poemi da Pietro Isola e condotto in porto editoriale nel 1827 con i tipi di Giuseppe Pomba di Torino, godendo per tutto l’Ottocento di ampia fortuna grazie anche alle successive traduzioni di Giuseppe Maria Bozoli (1832), Saverio Baldacchini (1839), Francesco Domenico  Guerrazzi (1853), Andrea Maffei (1853), Carlo Dell’oro (1854), Paolo Pappalardo (1858), Marcello Mazzoni (1859), Antonio Canepa (1864), Nazzareno Trovanelli (1881), senza omettere qui il tentativo di volgere il testo in prosa compiuto nel 1850 da un’anonima aristocratica che si firmò Marchesa CMM. Il successo editoriale del poemetto ne determinerà l’approdo teatrale nella rappresentazione scenica su libretto di Felice Romani e musica di Gaetano Donizetti, con debutto il 17 marzo 1833 al Teatro della Pergola di Firenze.
Lo stesso d’Annunzio, al pari di Lord Byron, non fu alieno da circostanze sentimentali in cui l’amore proibito padroneggiò. Basti qui menzionare la relazione con Maria Gravina Cruyllas Ramacca, moglie dell’aristocratico Guido Anguissola di San Damiano, che sfociò nel 1893 in un processo per adulterio in cui i due amanti furono condannati, con conseguente disposizione del Tribunale affinché fosse tolta alla donna la custodia dei quattro figli avuti in precedenza con il marito. Quando al volgere del secolo d’Annunzio mette mano al testo della Parisina, trama, contenuti e destinazione artistica riguardante le celebri coppie di amanti ‘irregolari’ di Casa d’Este e di Casa Malatesta, sono stati perciò ampiamente recepiti dal pubblico dei lettori e dei frequentatori dei teatri dell’epoca. Un’epoca in cui lo svago e i costumi, sia della borghesia che dei ceti meno abbienti, passano necessariamente attraverso queste stesse tematiche, e a dispetto di un’ostentata pruderie palesemente ipocrita, regna il gusto del proibito, della curiosità morbosa per le relazioni extraconiugali di protagonisti ardenti e impulsivi che, ancorché sostenute da sentimenti autentici, rischiano spesso di degenerare in tragedia perché del tutto anticonvenzionali (Muscardini 2004, pp. 250-259).
D’Annunzio aveva abituato i suoi lettori a queste tematiche, da molti detrattori ritenute amenità letterarie. Si pensi a Il Piacere del 1889, dove nelle stanze di un’improbabile delizia di Schifanoja curiosamente inserita in un paesaggio collinare, aveva ambientato il risanamento del protagonista Andrea Sperelli che, riavvicinatosi all’arte dopo un periodo di debolezza del corpo e dello spirito, vergava questi versi per salutare il ritorno dell’entusiasmo di vivere (d’Annunzio 1939, p. 11): «Schifanoja in Ferrara (oh gloria d’Este), / ove il Cossa emulò Cosimo Tura / in trionfi d’iddii su per le mura, / non vide mai tanto gioconde feste /».
Un entusiasmo che si rispecchia nella stessa linea narrativa adottata da d’Annunzio per la redazione del romanzo, salutata da Benedetto Croce, pure abruzzese di nascita, come innovativa nella letteratura italiana, e ben riassunta con tre pertinenti aggettivi, esatti e puntuali: «sensualistica, ferina, decadente» (Croce 1967, pp. 99). Ma si pensi anche a L’innocente, dedicato giustappunto a Maria Gravina, a Il trionfo della morte, a Le Vergini delle rocce, a Il fuoco, testi letterari che precedono la stesura della Parisina, impregnati di erotismo e di una dominante sensualità resistente ai tentativi dei protagonisti di reprimerla.

Stile e interpretazioni

Si può affermare che nel comporre la Parisina d’Annunzio abbia agito in perfetta coerenza con i dettami di quello stile che caratterizza l’intera sua opera letteraria e poetica. Lo stile è ostentato, pomposo e volutamente  ricercato; testo e ambientazione storica gli consentono di mettere in atto una gran varietà di espedienti, ora rapsodici e ora elegiaci, sorretti nella musicale versificazione dai mezzi espressivi più idonei e da lui prediletti, come l’impiego di lemmi ordinari e ampiamente diffusi accanto a parole arcaiche mutuate dai frasari e dalle parlate dell’XIII° e XIV° secolo, con sconfinamenti nel gergo di epoche diverse fra loro che abbracciano l’evo antico, il Medioevo e il Rinascimento; senza escludere infine l’incursione nel nuovo e provocatorio lessico futurista scandito all’epoca dagli eccitati effetti marinettiani dello Zang tumb tumb, che di lì a qualche mese avrebbe visto la luce. Se la qui citata opera futurista di Filippo Tommaso Martinetti che elogia la guerra è del 1914, la princeps della Parisina di d’Annunzio esce a Milano con i tipi di Lorenzo Sonzogno nel 1913. A corredo del testo figurano cinque tavole di Gaetano Previati, interfogliate in successione cronologica e aderenti al progredire della vicenda (Bisi 1913, p. 397).
Nella prima dell’opera lirica andata in scena al Teatro della Scala di Milano il 15 dicembre 1913, Tina Poli Randaccio interpreta il ruolo della giovane e infelice moglie di Niccolò III, a cui il marito tradito fa mozzare la testa per essersi macchiata di colpe orrende e imperdonabili. Analoga trasposizione è quella resa da Cesare Da L’Olmo, autore nel 1912 di una Parisina uscita a Firenze con i tipi di Bemporad, dove si incontra un Niccolò III che non si discosta dallo stereotipo comunemente diffuso del sovrano implacabile e spietato (Da L’Olmo 1912). Diversa interpretazione ne dava ancor prima  Antonio Somma nella sua Parisina, più distante nel tempo e rappresentata a Torino nel 1835, dove si registra nel Secondo atto una scena violenta fra Niccolò III e Ugo d’Este, salvo poi a restituire un’idea plurima del sovrano di Ferrara, padre, marito e monarca che, attonito e confuso, non sa cosa rispondere alle rimostranze del figlio, fin quasi ad ispirare compassione; difformità rimarcata dal critico teatrale veneziano Antonio Pilot dalle colonne del «Fanfulla della Domenica» (Pilot 1913, p. 2).
E qui, trattando dello stile e dell’interpretazione dell’opera, non possiamo sottacere la versione che ne diede chi più di altri fu parte in causa nell’ardita impresa della Parisina, unitamente al Vate in veste di librettista. Vale a dire Pietro Mascagni. Pur consapevole dei limiti di d’Annunzio in ambito musicale: «D’Annunzio non conosce la musica, però ha uno spirito musicale dei più raffinati» (Mascagni 1914, p. 17), pur con i dissidi che il lavorare insieme comportò, Mascagni si espresse sempre in maniera appassionata circa la validità dell’opera in versi da lui definita «tragedia nuovissima», e da cui rimase affascinato al punto da affermare: «Io avrei potuto perdere l’intero manoscritto di Parisina e sarei stato capace di riscriverla tale e quale», garantendo di averne «musicato persino le virgole» (Teatro d’annunziano 1928, p. 126).
La ragione di tale fervore si ascrive alla chiara opinione che Mascagni aveva del teatro di d’Annunzio, dove la psicologia dei diversi personaggi in scena gli appariva decisamente multiforme e composita. Un invito per il maestro livornese ad approfondirne i caratteri rendendoli allo spettatore mediante l’elemento sinfonico, sapientemente intervallato con quello recitativo.
Pur supportati da reciproca dedizione, che portò Mascagni ad apostrofare la tragedia «o nostra Parisina, fiore di passione e di poesia» (Mascagni 1914, p. 24), gli endecasillabi cantati (Gillo 2020, p. 73) della Parisina dannunziana non godettero agli esordi della sperata fortuna. Dopo la prima alla Scala, si qualificano come rilevanti le rappresentazioni del 1914 di Livorno, di Buenos Aires e di San Paolo del Brasile, oltre a quella del 1916 al Politeama di Genova. Negli anni a seguire gli eventi bellici non portarono alla Parisina altre affermazioni sui palchi dei teatri italiani e stranieri. Almeno fino al 1921, quando il 16 dicembre andò in scena al Teatro Argentina di Roma, con Alda Borelli nel ruolo di Parisina e Ruggero Ruggeri in quello di Ugo. La rappresentazione romana ebbe un favorevole riscontro di critica e di pubblico, con replica al Teatro Lirico di Milano e articoli elogiativi di Silvio d’Amico su «L’Idea nazionale» e di Renato Simoni sul «Corriere della Sera», rispettivamente in data 17 dicembre 1921 e 15 febbraio 1922. Ma fu causa di nuove divergenze fra il Poeta e il musicista, al punto che si decise di procrastinare una nuova recita già fissata in calendario. Un attrito fra artisti, come tanti ne nascono per questioni formali e stilistiche, destinato tuttavia a dissolversi nel 1938: cinque mesi dopo la morte del Poeta, Mascagni ricevette mandato dall’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) di dirigere una versione della Parisina in quattro atti. Registrata negli Studi torinesi, la tragedia lirica ‘reintegrata’ con il Quarto atto fu radiotrasmessa sabato 20 agosto 1938 sul secondo programma, e replicata lunedì 22 agosto sul primo programma («Radiocorriere», a. XIV, 1938, 34, p. 7). L’inclusione del Quarto atto, soppresso da Mascagni dopo la première scaligera per ridurne l’eccessiva durata, rese così giustizia, pur con accorciamenti e ritocchi, alle iniziali intenzioni del Poeta, da poco scomparso.

 

Bibliografia essenziale

Edizione critica di riferimento:

Gabriele d’Annunzio, Parisina, in Tragedie, sogni e misteri, I, a cura di Annamaria Andreoli, con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori «Meridiani», 2013, pp. XI-CCLXXVII e pp. 685-764.

Edizioni apparse in vita:

Gabriele d’Annunzio, Parisina. Tragedia lirica musicata da Pietro Mascagni, Milano, Casa musicale Lorenzo Sonzogno, 1913 (editio princeps).
Gabriele d’Annunzio, Parisina, in Teatro d’annunziano, Settembre 1927 – Aprile 1928, Milano, Libreria milanese, 1928, pp. 121-131.
Gabriele d’Annunzio, I Malatesti. Tre tragedie. Seconda tragedia. Parisina. La Crociata degli innocenti, Cabiria, Istituto Nazionale per l’edizione di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio, stampata presso l’Officina Bodoni di Hans Mardersteig di Verona ed edita da Arnoldo Mondadori, 1933.

Edizioni commentate:

Gabriele d’Annunzio-Pietro Mascagni, Parisina. Tragedia lirica in 4 atti. Scritti di Andrea Gavazzeni, Roma, Teatro dell’Opera, 1978.
Gabriele d’Annunzio, Parisina secondo il manoscritto ferrarese della Biblioteca Comunale Ariostea, a cura di Francesca Mellone e Giuseppe Muscardini, Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, 2000.
Gabriele d’Annunzio, Tutti i romanzi, novelle, poesie, teatro, introduzione di Giordano Bruno Guerri, a cura di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva, Roma, Newton Compton Edizioni, 2011, pp. 3157-3209.
Gabriele d’Annunzio, Parisina, in Tragedie, sogni e misteri, I, a cura di Annamaria Andreoli, con la collaborazione di Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori «Meridiani», 2013, pp. 685-764.
Aldo Simeone, Parisina di Gabriele D’Annunzio. Vivere l’eternità in un’ora diurna, in un’ora notturna, Tesi di dottorato di Ricerca, Corso di Studi Italianistici dell’Università di Pisa, Relatori prof. Piero Floriani e prof. Angela Guidotti, Pisa, Università di Pisa, 2008.

Bibliografia secondaria:

Gabriele d’Annunzio, Il silenzio di Ferrara, «Nuova Antologia», 670, 1899, pp. 205-206.
Gabriele d’Annunzio, Il piacere, Roma, Il Vittoriale degli Italiani, 1939, p. 221.
Gabriele d’Annunzio, Tutte le opere. Taccuini, XIX, Milano, Mondadori, 1965, p. 253.
Gabriele d’Annunzio, Marfisa e la vecchiezza, nel Secondo amante di Lucrezia Buti, in Tutte le opere. Prose di ricerca, II, Milano, Mondadori, 1968, pp. 205-208.
Gabriele d’Annunzio, Notturno, a cura di Gianni Turchetta, Milano, Mondadori, 1995, p. 106.
Elena Bianchini Braglia, Roberta Iotti, Madama Parisina, la protagonista del peccaminoso scandalo estense nella storia e nella letteratura, Modena, Terre e identità, 2007.
Giannetto Bisi, Cronachetta artistica, “Parisina” di Gaetano Previati, «Emporium», 227, novembre 1913, p. 397.
Carlo Botteghi, Parisina. Il dramma musicale di Gabriele d’Annunzio e Pietro Mascagni, «Rassegna Musicale Curci», L, 3, 1997, pp. 21-24.
George Gordon Byron, The Siege of Corinth. Parisina, London, Printed for John Murray, 1816.
George Gordon Byron, Parisina, Traduzione del Cav. Andrea Maffei, Milano, Giacomo Gnocchi Editore, 1853.
Aldo Capasso, Il mito di Parisina, Roma, Edizioni Aternine, 1968.
Luciano Chiappini, Gli Estensi. Mille anni di Storia, Ferrara, Corbo Editore, 2001.
Alfonso Cipolla, Il presagio di “Parisina” nei Trionfi di Schifanoia «Rassegna dannunziana», dicembre 1992, fascicolo n. 22, pp. 37- 40.
Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1967.
Cronache teatrali di Giovanni Pozza (1886-1913), a cura di Gian Antonio Cibotto, Vicenza, Neri Pozza, 1971.
Cesare Da L’Olmo, Ugo e Parisina. Tragedia in quattro atti di Cesare Da L’Olmo, con disegni di Augusto Calabi, Firenze, Bemporad, 1912.
Gherardo Gherardini, Parisina 1913-2013. Il connubio D’Annunzio Mascagni, «Sipario», 767/768, 2013, pp. 71-73.
Pier Giuseppe Gillo, Versi lirici in endecasillabi nel melodramma italiano, (secoli XVII-XIX), in L’endecasillabo cantato. Dalla metrica alla voce, a cura di Paolo Bravi e Teresa Proto, Udine, Nota/Valter Colle, 2020.
Giacomo Leopardi, Appressamento della morte, in Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, I, pp. 260-265, vv. 100-102.
Elena Valentina Maiolini, Vita interiore e ambiente teatrale: sulle didascalie di d’Annunzio, «Sinestesie», 2022, 24, Numero speciale monografico: D’Annunzio e l’innovazione drammaturgica, a cura di Lorenzo Resio, pp. 295-305.
Filippo Tommaso Marinetti, Zang tumb tumb, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1914.
Pietro Mascagni, Com’è nata “Parisina”, «La lettura», rivista mensile del «Corriere della sera», 1, 1914, pp. 15-24.
Lavinia Mazzucchetti, Ugo e Parisina nella Cantica giovanile di Giacomo Leopardi, «Rivista d’Italia», dicembre 1912, pp. 961-972.
Mss. B.C.A. Cl. II, 434. Parisina, manoscritto autografo di Gabriele d’Annunzio conservato presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (B.C.A), dove è inserita la lettera  del 15 ottobre 1903 a Giuseppe Agnelli.
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Cesare Orselli, Parisina: libretto per…, «Sinestesie», 2022, 24, Numero speciale monografico: D’Annunzio e l’innovazione drammaturgica, a cura di Lorenzo Resio, pp. 149-163.
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Felice Romani, Parisina. Melodramma in tre atti. Poesie di Felice Romani. Musica del Maestro Gaetano Donizzetti, Napoli, a spese dell’editore, 1833.
Tito Rosina, Attraverso le Città del silenzio di Gabriele d’Annunzio, Fonti e interpretazioni, Messina, Casa Editrice Giuseppe Principato, 1931.
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Antonio Somma, Parisina. Tragedia, Venezia, Giuseppe Antonelli, 1835.

Domenico Tumiati, Parisina, Bologna, Zanichelli, 1902.

 

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