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Ca Ce Ci Cl Co

Cinema

di Raffaella Canovi, Enciclopedia dannunziana

Il primo incontro fra Gabriele d’Annunzio e il cinema avvenne a Milano nel 1909 nel laboratorio del cinereporter milanese Luca Comerio; il poeta-sperimentatore si informò in merito alle potenzialità del cinematografo chiedendo di realizzare un frammento della favola di Dafne: un braccio della ninfa che si tramuta in ramo, in vista della realizzazione di un film (mai realizzato) dedicato alle Metamorfosi di Ovidio.
In quell’anno d’Annunzio aveva firmato con la SAFFI-Comerio un contratto che prevedeva sei soggetti di film di dieci-quindici minuti ognuno e la supervisione della loro messa in scena, dietro un corrispettivo di 12.000 lire (poco meno di € 60.000,00) più una percentuale sugli incassi. Inutile dire che mai nessun soggetto cinematografico venne consegnato dal poeta, che anzi fu condannato l’anno successivo dal tribunale di Milano a restituire quanto ricevuto come anticipo, restituzione che non avvenne dato che riparò in Francia.
Così d’Annunzio stesso narra del suo incontro con la settima arte:

Or è parecchi anni, a Milano, fui attratto dalla nuova invenzione che mi pareva potesse promuovere una nuova estetica del movimento. Passai più ore in una fabbrica di films per studiare la tecnica e specie per rendermi conto del partito che avrei potuto trarre da quegli accorgimenti che a gente del mestiere chiama “trucchi”. Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento essenziale fosse il “meraviglioso”. Le Metamorfosi di Ovidio! Ecco un vero soggetto cinematografico. […] Volli sperimentare la favola di Dafne non feci se non un braccio: il braccio che dalla punta delle dita comincia a fogliare sinché muta in un ramo folto di alloro […]. Mi ricordo sempre della grande commozione ch’ebbi alla prova.

Il cinema aveva quindi colpito il poeta che ne intuiva le potenzialità; significativo l’articolo apparso sul «Corriere della Sera», sotto forma di intervista, il 28 febbraio 1914 e successivamente rielaborato con il titolo Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione.
D’Annunzio probabilmente si era avvicinato al cinema condotto dalla sua inesauribile curiosità nei confronti delle novità e per comprendere quanto esso potesse avvicinarsi all’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) di matrice wagneriana. Si ricordi come l’ultima produzione teatrale dannunziana fosse molto ‘fisica’ strettamente legata al corpo, alla danza; d’Annunzio si muoveva nell’inebriante atmosfera parigina dove i balletti russi imperversavano:

La recente industria del cinematografo – che pretende rinovellare l’arte antica della Pantomima e potrebbe forse promuovere una novissima estetica del movimento deve essere considerata come un’ausiliaria provvidenziale di quegli artisti coraggiosi e severi che, nella ignobile decadenza del Teatro d’oggi, aspirano a distruggere per riedificare.

Per d’Annunzio il cinema poteva divenire lo strumento in grado di dare vita al sogno, alla visione, “visione storica del terzo secolo”, così infatti recitava il sottotitolo del celebre film Cabiria. Il cinema era come un miracolo che poteva rendere nuovamente fertile la scena teatrale, in quel momento, secondo il poeta, divenuta come sterile: «Che i poeti seguano il mio esempio, attribuendo al cinematografo una virtù di liberazione e di distruzione. L’arte del teatro ha bisogno di essere vendicata.»
In realtà agli albori del cinema la maggior parte degli intellettuali preferiva non accostarsi alla “settima arte”, considerata ancora quasi un fenomeno da baraccone, infatti, prima dell’apertura di sale stabili, era esclusivamente ambulante.
D’Annunzio fu il primo intellettuale che aderì fattivamente ad un’arte ancora in formazione e da molti considerata «uno spreco di intelligenza», come Paul Valéry, oppure come la «fine della civiltà», secondo Anatole France. L’esempio dannunziano, seguito da numerosi intellettuali (fra i quali Guillaume Apollinaire e Romain Rolland) ebbe grande rilevanza dando inizio alla storia dei rapporti fra cinema e cultura.
Proprio Rolland si “ispirò” a d’Annunzio quando nel 1921, dovendo realizzare Revolte des machines, si rivolse al pittore Frans Masereel con queste parole: «Voi, caro Frans studiate il mio scartafaccio. Ve lo invierò perché lo illustriate, o meglio, lo animiate». L’espressione «animatore» era stata coniata proprio da d’Annunzio.

Gabriele d’Annunzio e Ricciotto Canudo

Se d’Annunzio è stato il primo intellettuale italiano ad accostarsi senza eccessivi pregiudizi al cinema, Ricciotto Canudo fu il primo teorico dell’arte cinematografica: fu lui a coniare il termine “settima arte”.
I due si frequentarono a partire dal 1908 circa e si ha traccia di Canudo addirittura a Fiume nel 1920. La reciproca conoscenza derivò probabilmente dall’avere frequentato gli stessi ambienti letterari; Canudo non taceva la sua ammirazione per il poeta, basti ricordare i due saggi a lui dedicati (1906 e 1911) e le frequenti citazioni in L’usine aux images.
Dannunziano nella scrittura e nella vita: Canudo era interventista, aviatore, drammaturgo e amante della Francia, della sua lingua e dei suoi autori (amico di Maurice Barrés, al quale d’Annunzio aveva dedicato Le martyre de Saint Sébastien); Apollinaire lo aveva soprannominato le barisien.
Non è possibile sapere, al momento attuale almeno, se d’Annunzio avesse anticipato a Canudo i suoi vari progetti cinematografici, ma certamente ambedue avevano intravisto nella cosiddetta “arte veloce” grandi possibilità artistiche ed espressive, per entrambi possedeva una particolare caratteristica: il meraviglioso.

Influenza dannunziana nel cinema

Come aveva influenzato le lettere, la musica e la moda, come aveva saputo far sognare i propri sogni, d’Annunzio incise con il suo stile e con le sue eroine letterarie – eteree, languide, efebiche, raffinate e spregiudicate – il cinema: le sue “femmine” erano miti da raggiungere.
Il poeta ispirò un filone del cinema muto italiano, quello detto dannunziano-borghese. Nacque così una produzione cinematografica i cui soggetti si rifacevano ai suoi celebri romanzi, quali L’innocente e Il piacere e ai suoi protagonisti, anche maschili, quali Tullio Hermil e Andrea Sperelli, i cui corrispettivi nel cinema erano gli attori – fra gli altri – Febo Mari, Luigi Serventi e Alberto Colli.
Una produzione cinematografica caratterizzata da sensualità, lusso e superomismo; si trattava di film con i quali d’Annunzio non aveva nulla a che vedere salvo, appunto, i richiami agli atteggiamenti, alle pose, alle esagerazioni dei vari personaggi, ai contenuti più esteriori del dannunzianesimo. Si citano alcuni esempi: Tigre reale, di Giovanni Pastrone con soggetto tratto da Giovanni Verga, Nemesis, di Carmine Gallone e sempre di Pastrone Il fuoco, uno dei capolavori di questo cinema di stampo decadente-dannunziano. Il titolo fa pensare immediatamente al celebre romanzo di Gabriele d’Annunzio, ma in realtà si tratta di un soggetto originale, non si sa se di Pastrone stesso, comunque di qualcuno che aveva un debole per il mondo dannunziano; si trattava inoltre di una persona che aveva ben compreso come tutto ciò che riguardava il poeta, o che pareva riguardarlo, sarebbe stata una sicura fonte di successo e denaro.
Il nome del divo poeta era pertanto una sorta di strumento pubblicitario, ma non solo: d’Annunzio, l’autore moderno per eccellenza, la sua immagine, erano come uno specchio nel quale il pubblico si rifletteva, l’espediente che la neo-industria cinematografica utilizzava per imporsi culturalmente e nobilitarsi.
Le passioni, gli amori folli, gli scenari dannunziani entrarono nel cinema quali rappresentazioni di un desiderio di una vita più alta, più grande, lontana dalla mediocre quotidianità piccolo borghese.
Luigi Bianconi nei suoi studi ha sottolineato come il cinema italiano debba a d’Annunzio «un’anima malata di sensualismo, una tradizione rettorica e necessariamente caduca», ma contemporaneamente «nostra e originale.»
È doveroso sottolineare già da ora la notevole mole di film tratti dalle opere dannunziane, per comprendere come la fama e i temi dannunziani avessero colpito la settima arte e come il neonato cinema italiano gli dovesse molto, non solo in termini di soggetti ma anche di influenze in film non tratti direttamente dalle sue opere.
Il cinema era dunque nella mente di d’Annunzio raffigurazione del meraviglioso, del sogno. In realtà rimase un linguaggio irraggiungibile, solo una rappresentazione potenziale. Probabilmente fin dal suo primo incontro con la settima arte, nello studio di Comerio, il poeta aveva compreso le difficoltà che si sarebbero dovute affrontare, e riteneva troppo alti i costi – in termini di pazienza e costanza – per dedicarvisi con impegno quale sceneggiatore; più semplice sarebbe stato cedere i diritti di sfruttamento cinematografico delle sue opere.
Il rapporto di d’Annunzio con il cinema sarebbe stato altalenante: da un lato era affascinato dalle sue possibilità, dall’illusione scenica, interessato a sperimentare lo sperimentabile, dall’altro lo guardava con una certa superiorità da intellettuale e con un nemmeno tanto celato disprezzo per questo prodotto definibile industriale. Un giorno affermò infatti: «Io stesso – per quella famosa carne rossa che deve eccitare il coraggio dei miei cani corsieri – ho lasciato cincischiare in alcuni dei miei drammi più noti.»
In realtà il poeta si impose di fatto come figura moderna di autore, come un imprenditore culturale che viveva il rapporto con il cinema come formale e giuridico, deciso a utilizzare il nuovo mezzo di comunicazione di massa. Seppur entusiasta da un punto di vista che si potrebbe definire progettuale, all’atto pratico egli non era effettivamente preparato alla novità del cinema e alle istanze inedite che esso poneva con assoluta cogenza: queste – poste su di un’ideale bilancia – superavano probabilmente gli aspetti positivi, tanto da indurre il poeta ad affermare: «I fabbricanti ad ogni tentativo insolito oppongono l’esecrabile “gusto del pubblico”. Il gusto del pubblico riduce oggi il cinematografo a un’industria più o meno grossolana, in concorrenza con il teatro.»
D’Annunzio coprì, probabilmente per primo, il ruolo dell’autore cinematografico sia come soggettista sia come pubblicitario: la sua fama aveva infatti condotto Pastrone a “cedere” la paternità di Cabiria al celebre poeta, che così donò all’intera industria cinematografica un blasone che prima essa non possedeva, contribuendo al suo sviluppo.
L’apporto dannunziano al cinema fu più imprenditoriale che artistico: cedette i diritti per la trasposizione cinematografica delle sue opere, ma ben poco venne creato appositamente per la settima arte, dalla quale si limitò ad attingere quel denaro indispensabile per il dispendioso vivere inimitabile.
Forse solo nel 1917 – quando era divenuto il poeta-soldato – l’idea di dedicarsi alla scrittura di un soggetto non gli dovette dispiacere se il 21 aprile scrisse al figlio Gabriellino, che più e più volte lo aveva pregato di assisterlo nella sua carriera prima teatrale, poi cinematografica:

Mio caro Gabriellino,
ti ho telegrafato che sono dispostissimo a inventare i due soggetti, se le proposte sono serie e se v’è garanzia che le condizioni saranno mantenute.
Cerca di informarti intorno al «genere» preferito dai due mercatanti, e intorno ai loro mezzi di esecuzione.
Purtroppo non sappiamo né chi fossero i «mercatanti» né se, e come, la trattativa proseguì.

D’Annunzio aveva certamente inteso come si stesse passando dalla scena teatrale allo schermo cinematografico, aveva visto come l’immagine stesse sostituendosi alla parola, aveva intuito come in qualche modo dovesse adeguarsi a tutto ciò, ma restava pur sempre il poeta sublime ed egocentrico, dispendioso e geniale, intrigato dalla ‘novità’ che decideva di mettere a profitto per i propri scopi. Non deve essere dimenticato come d’Annunzio fosse – e sarebbe per sempre stato – l’artifex della parola: tutto si conteneva e si alimentava attraverso il logos, in quel momento inconciliabile con il cinema, limitato dalla mancanza del sonoro. Al di là della fascinazione irradiata dalla novità, non era possibile una profonda comunione di sentire tra il poeta, letterato pur sempre inscrivibile nelle categorie estetiche tardo-ottocentesche, e la settima arte. Altrimenti forse d’Annunzio avrebbe prestato maggiore attenzione agli innumerevoli canti delle sirene cinematografiche, alle quali invece rispose solo sporadicamente e quasi sempre ‘donando’ loro testi già pubblicati, lasciandole appunto «cincischiare».
Un rapporto quello con il cinema segnato da vari contratti firmati e pochi onorati. D’Annunzio fu contattato da diverse case di produzione anche straniere direttamente o indirettamente mediante l’amico-segretario Tom Antongini e i figli Gabriellino e Veniero.
Tramite Antongini, nel 1920 l’americano Wilbur H. Williams avrebbe investito 800.000 lire per un documentario da girarsi durante l’occupazione di Fiume, ma il Comandante non ne avrebbe avuto tempo (o voglia), perché troppo impegnato nella gestione della città.

Il Poeta avrebbe scritto per loro, entro tre mesi dal contratto, un film fiumano. Per «film fiumano» essi intendevano un soggetto drammatico qualsiasi che avesse per sfondo la città e la vita di Fiume in quei mesi di passione. Alle “riprese” fiumane avrebbero provveduto essi stessi senza nemmeno il Comandante se ne accorgesse. Il che, tra parentesi, era attuabilissimo; il Comandante, ogni giorno, passava in rivista legionari ed arditi, riceveva deputazioni, visitava posto avanzati, percorreva la città in automobile e a piedi, presenziava a esercitazioni militari, commemorava solennemente date e avvenimenti, parlava alla fola dalla ringhiera del Palazzo del Governo. Nulla quindi di più facile del lavoro degli operatori, i quali non avrebbero avuto che da seguire il Poeta nella sua multiforme attività per lo spazio di qualche settimana. Quanto al lavoro personale del Poeta, esso si sarebbe ridotto al riassunto in venti o trenta pagine, di un soggetto passionale qualsiasi, a sua scelta.

Se all’inizio d’Annunzio si dichiarò disposto ad accettare, arrivando a firmare un contratto, una volta che i produttori tornarono negli Stati Uniti, non scrisse una sola riga.
Alla fine degli anni Venti Veniero aveva invece proposto ad alcuni finanziatori, sempre statunitensi, la riduzione in film de La Pisanelle, ma questa volta furono proprio i finanziatori a tirarsi indietro.
Nel 1920 il soggetto de L’uomo che rubò la Gioconda fu al centro delle attività sia di Veniero sia di Gabriellino, ancora una volta con produttori americani, fra i quali David Wark Griffith, ma anche in questa circostanza senza alcun esito.
Anche Leopoldo Barduzzi si adoperò come tramite tra d’Annunzio e Samuel Goldsmith nel 1921.
Proposte al poeta giunsero da un non identificabile produttore tedesco, che scappò di fronte alle esose richieste dannunziane, dalla Curtis Brown di Londra-Parigi-New York molto interessata al Fuoco ma non così tanto da sborsare diecimila dollari.
Interessante invece il ruolo ricoperto dal poeta nel 1922 quando – in qualità di presidente del comitato montenegrino – finanziò il film Non c’è resurrezione senza morte, interpreti Giorgio Fini ed Elena Sagro, pseudonimo coniato dal poeta stesso per Maria Antonietta Bartoli Avveduti, ovvero la celebre “la piacente”, protagonista dell’omonimo carme.
Fra il 1931 e il 1932 d’Annunzio rifiutò diverse collaborazioni. Prima fra tutte quella riguardante il film Il Decennale per i quadri di Quarto e di Fiume, oltre a quella relativa a un documentario sonoro da girarsi al Vittoriale: nel 1931 l’avvocato Alfredo Felici aveva trattato quest’ultimo progetto direttamente con l’Istituto LUCE e il poeta aveva firmato un contratto il 7 aprile per una cifra complessiva di Lire 100.000 (pari a circa € 120.000,00), 50.000 alla firma e 50.000 dopo le riprese, per poi modificarla in tre milioni. L’Istituto abbandonò l’idea, sarebbe stato il Comandante a ripensarci domandando sempre a Felici di riprendere le trattative con il barone Alessandro Sardi, presidente dell’Istituto: il vate desiderava dall’Istituto LUCE un contratto più concreto, fermo restando ovviamente la clausola dell’esborso immediato di 50.000 Lire. Da parte sua, si sarebbe impegnato per cinque mesi a

non cedere ad altri i diritti derivanti dalla contrattazione del film e si obbliga di proporre l’affare su nuove basi, organiche ed economiche, da lui studiate in detto periodo di tempo per dare al lavoro una forma degna e nobile.

Felici temeva che il poeta potesse divenire insolvente dopo l’anticipo e ch’egli, in quanto procuratore generale, ne risentisse.
Secondo il parere del commissario Giovanni Rizzo, il Comandante si era ricreduto in merito all’affaire del documentario sonoro perché aveva intravisto la possibilità di dare vita a un nuovo organismo finanziario da affiancare ad altri già in essere (come ad esempio L’Oleandro). L’idea era tuttavia destinata a rimanere senza esito.

Una scrittura cinematografica

D’Annunzio era cinematografico già nel suo modo di narrare. Si pensi alle “inquadrature” letterarie dannunziane: i protagonisti letterari e teatrali, i loro stati d’animo, vengono descritti attraverso il passaggio dal piano sequenza al “totale” e al “primo piano”, in modo di far percepire al lettore o allo spettatore a teatro la variazione dell’intensità del sentimento.
Il teatro dannunziano, già a partire dal 1904 con la Figlia di Iorio, era stato concepito come una sceneggiatura cinematografica, con un allontanamento o avvicinamento della “macchina da presa” sul volto degli interpreti o su alcuni oggetti.
Come sottolinea Isgrò, la visione cinematografica del “romanzo scenico” è prorompente nelle scene di massa.

Proprio nei grandi spazi vuoti dei teatri maggiori come il Costanzi e l’Argentina di Roma, D’Annunzio affiderà ai diversi specialisti della scena la sua visione unitaria del dramma, per poi mettere in atto il suo metodo “cinematografico” del rappresentare.

Tre sono le opere teatrali che sono definibili in un certo senso come “cinematografiche”.
La prima è Francesca da Rimini (prima rappresentazione 1901, Teatro Costanzi, Roma): l’opera si caratterizza per la particolarissima scenografia contraddistinta da loggiati, terrazzi e soppalchi, tutti praticabili e disposti a diverse quote, sostenuti da arcate e pilastri, con scale di accesso che costringono lo spettatore a seguire l’azione scenica compiendo uno sforzo visivo e acustico; l’imaginifico autore aveva infatti deciso di ribaltare la logica teatrale di porre l’azione scenica il più possibile vicino alla platea. Come ha evidenziato Isgrò

il criterio cinematografico porta l’artista ad esigere un punto di osservazione ravvicinatissimo rispetto a quanto soltanto l’occhio della “cinepresa” può restituire ad una platea così lontana.

La seconda è La figlia di Jorio (prima rappresentazione 1904, Teatro Lirico, Milano): si caratterizza per la spettacolarizzazione delle masse (che siano mietitori, o lamentatrici, oppure processionanti), amplificata attraverso riti e suoni che creano suggestioni teatrali vicine a quelle di un set cinematografico. D’Annunzio “impose” – ad esempio – primi piani sui mietitori ubriachi che si affacciano dall’esterno verso l’interno, la cui forza probabilmente non raggiunge la distante platea, ma proprio tale approccio – così prossimo al dettaglio e alla profondità di campo – ci rivela la libertà dannunziana dai canoni scenici.
La terza è La Nave (prima rappresentazione 1908, Teatro Argentina, Roma): da più critici è stata definita come l’opera che meglio incarna l’idea dannunziana di cinema; la protagonista Basiola è come inquadrata in primo piano da una macchina da presa invisibile. Quest’opera possedeva un’impostazione decisamente filmica; è sufficiente leggere quanto Ugo Ricci scriveva in merito su “La Stampa”:

In essa già si avverte chiaramente il predominio trionfante dell’azione sull’espressione. La vocifera azione verbale, se apprezzata alla lettura delle menti raffinate dei letterati, non ha sulla scena per la sua astrusità semassiologica, altro valore che per gli spettatori plaudenti, che quello di un rombo sonoro, facilmente sostituibile col fragore della ruota di legno piena di sassi, che dietro le quinte simula il suono. Non era questa che una forma transitoria: vedremo presto il tipo puro. La dignità ed il mistero mitico entreranno col poeta nel cono di luce evocatrice di immagini.

La Nave e le sue divinazioni sarebbero state infatti il primo soggetto dannunziano sceneggiato (da Arrigo Frusta per la casa di produzione Ambrosio nel 1911), poi ripreso nel 1919 da Gabriellino d’Annunzio – con la consulenza del padre – in una edizione memorabile, con riprese di primi piani e uso delle masse.

D’Annunzio sceneggiatore

Le sceneggiature opera di Gabriele d’Annunzio, o a lui attribuite, furono in totale quattro: Cabiria (che sarà esaminata successivamente), La crociata degli innocenti, La rosa di Cipro e L’uomo che rubò la Gioconda.
La rosa di Cipro, nata come libretto d’opera da sottoporre a Giacomo Puccini, era stata composta il 10 luglio 1912, sarebbe poi divenuta la prima bozza della Pisanelle (1913).
La crociata degli innocenti – composta nel 1913 – nata anch’essa come libretto d’opera ancora una volta per Puccini, che non trovò evidentemente di suo gradimento nemmeno quest’opera dannunziana, venne pubblicata prima sull’Eroica di Ettore Cozzani nel 1915 e quindi in volume nel 1920. Il film venne diretto nel 1917 diretto da Alessandro Blasetti e altri due aiuto-registi.
L’uomo che rubò la Gioconda invece fu composto a Fiume il 30 giugno 1920 quale soggetto cinematografico, poi destinato al quotidiano parigino “Excelsior” e pubblicato nel 1932 dalla rivista francese “Ambassade”.
Fiume sarebbe stata protagonista nel Progetto per un film fiumano poco sopra già citato. Sempre legate alla città di luce, le didascalie composte dal suo Comandante per il documentario presentato dalla Monopolio Internazionale di Roma Il paradiso all’ombra delle spade, ovvero Fiume d’Italia durante l’occupazione dei Legionari.
La più grande avventura dannunziana, Fiume, fu dunque l’ennesimo palcoscenico dell’istrionico poeta-soldato divenuto Comandante. Luca Comerio, l’operatore milanese che aveva ‘iniziato’ il poeta al cinema, lo seguì a Fiume documentando l’impresa per conto di Senatore Borletti.
Le pellicole impressionate dovevano essere molte, infatti il capitano Nino Vaudano, legionario fiumano torinese, venne cooptato come corriere tra la città olocausta e la mecca del cinema italiana, ovvero Torino, per consegnare le bobine a Gabriellino d’Annunzio. Potrebbe trattarsi proprio del citato documentario Il paradiso all’ombra delle spade, ovvero Fiume d’Italia durante l’occupazione dei Legionari.
Altre didascalie – secondo Zangrando – da attribuire al poeta sono quelle per La nostra marina da guerra opera per la vittoria e la gloria d’Italia di L. Roatto e G. Rossetto del 1916 e Dal Polo all’equatore del 1920.
Fra i progetti non portati a termine dal poeta: le citate Metamorfosi da Ovidio, alle quali pensava già dal 1909, e la riduzione cinematografica de Le martyre de Saint Sébastien (1916).
Non videro la luce nemmeno le sette azioni cinematografiche di una cinquantina di quadri che Gabriellino d’Annunzio, assieme a un amico, nel settembre del 1912 era deciso a far realizzare traendole dalle Canzoni della gesta d’oltremare.
Questo stesso progetto fu ripreso dall’avvocato Eugenio Coselschi, che il 17 marzo 1913 domandò al poeta il permesso di ridurre La Canzone del Sangue per una società cinematografica genovese proprio allora in procinto di essere costituita; si trattava della Genova-film. Il poeta probabilmente, non intendendo rispondere negativamente all’amico Coselschi, aveva a lungo esitato prima promettendo la cessione dei diritti, poi disinteressandosene, forse anche perché nello stesso periodo stava trattando con Giovanni Pastrone e Carlo Sciamenengo per Cabiria.
Un capitolo a parte invece per la sopracitata Pisanelle (1913-1920). Il 25 marzo 1913 d’Annunzio aveva ceduto i diritti di questa tragedia, esordita solo tredici giorni prima allo Châtelet di Parigi, a Gustavo Lombardo; sconosciuta la cifra pattuita e purtroppo sconosciuto anche il film, che parrebbe essere stato realizzato ma poi scomparso nel nulla.

Film tratti da opere dannunziane

La maggior parte dei film tratti da opere dannunziane sono purtroppo andati perduti, oppure giacciono in archivi o in fondi inaccessibili. Di seguito un elenco schematico:
La Nave – 1911, soggetto di Gabriele d’Annunzio, sceneggiatura di Arrigo Frusta, produzione Ambrosio, Torino. Il film venne proiettato per la prima volta il 22 giugno 1912 a Milano. Ebbe una seconda edizione nel 1919-20 con la regia di Gabriellino d’Annunzio e Mario Roncoroni, con Ida Rubinstein fra gli interpreti. Per diversi critici è il film migliore fra quelli dannunziani, forse anche grazie ai molteplici consigli che il poeta elargì al figlio assistendo, presumibilmente ad alcune riprese a Venezia.
Sogno di un tramonto d’autunno – 1911, con soggetto di Gabriele d’Annunzio, sceneggiatura di Arrigo Frusta, produzione Ambrosio, Torino.
La fiaccola sotto il moggio – 1911, soggetto di Gabriele d’Annunzio, sceneggiatura di Arrigo Frusta. Ebbe una seconda edizione per la Ambrosio nel 1917.
La Gioconda – 1911, soggetto di Gabriele d’Annunzio, sceneggiatura di Arrigo Frusta, produzione Ambrosio, Torino. Ebbe una seconda edizione per la Ambrosio nel 1917.
Interessante ricordare come nel 1915 negli Stati Uniti d’America fu realizzato dalla Fox un film dal titolo The Devil’s Daughter con protagonista la prima vamp dello schermo Theda Bara tratto proprio da La Gioconda (traduzione di Joseph H. Trant) adattata da Garfield Thompson con la regia di Frank Powell.
L’innocente – 1912, soggetto di Gabriele d’Annunzio, sceneggiatura di Arrigo Frusta, regia di Edoardo Bencivenga.
La Crociata degli Innocenti – 1916, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Alessandro Boutet e Gino Rosselli, poi Alberto Traversi, produzione Musical Film, Milano, poi Pax Film. Le riprese a metà lavorazione si bloccarono, con cambio di casa di produzione, regia e operatore. Questo soggetto era stato inviato in precedenza in visione a Pastrone perché lo valutasse, ma fu Renzo Sonzogno a mettere sotto contratto d’Annunzio 12 maggio 1914; il contratto prevedeva altri cinque soggetti al prezzo di 50.000 lire ognuno oltre a quello della Crociata. Quest’ultimo fu l’unico dei cinque soggetti pattuiti che d’Annunzio consegnò a Sonzogno, con il quale sorsero divergenze sfociate in azioni legali fino alla rescissione del contratto.
La morte del duca d’Ofena (tratto dalle Novelle della Pescara) – 1916, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Alfredo Robert ed Emilio Graziani Walter, produzione Walter, Milano e Generale Film; girato per la maggior parte in esterni in Abruzzo.
Trionfo della Morte – 1916, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di M. Gargiulo. Ebbe una edizione nel 1920 con la regia di G. Ravel, produzione Flegrea, Roma.
Forse che sì forse che no – 1916, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Mario Gargiulo, produzione Flegrea, Roma. Ebbe una edizione nel 1920 con la regia di G. Ravel, produzione Medusa.
Giovanni Episcopo – 1916, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Mario Gargiulo, produzione Flegrea, Roma.
Il ferro – 1917, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Ugo Falena, Tespi-Film, Roma.
Il Piacere – 1917, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Amleto Palermi, produzione Lombardo-Teatro.
La Leda senza cigno – 1917, soggetto di Gabriele d’Annunzio, regia di Giulio Antamoro, produzione Polifilm, Napoli.
Il paradiso all’ombra delle spade. Fiume durante l’occupazione dei legionari – 1920, titoli autografi di Gabriele d’Annunzio, produzione Monopolio Internazionale di Roma.
Diversi furono dunque i film tratti dalle opere dannunziane, eppure il loro autore non li vide: solo a Fiume – per caso – il Comandante assistette alla proiezione della Leda senza cigno e, secondo Antongini, pare si fosse «sbellicato dalle risa» data la «maniera fanciullesca e caricaturale» con la quale la sua opera era stata trasposta sulla pellicola.
Meritano un approfondimento due titoli: Cabiria e La figlia di Iorio.

Cabiria

Celebre la collaborazione dannunziana per il più famoso film muto e primo colossal della storia del cinema uscito nelle sale il 18 aprile 1914 a Torino: Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone; questa pellicola ebbe anche un altro primato, ovvero essere la prima proiettata alla Casa Bianca di Washington. Il film italiano influenzò inoltre il regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense David Wark Griffith.
Pastrone, desideroso di superare la società cinematografica rivale Ambrosio, decise di sottrarle d’Annunzio (il poeta aveva firmato con loro un contratto per sei film) convincendolo ad assumersi la paternità dell’intero soggetto del film, mentre in realtà il poeta riscrisse le sole didascalie e ne ideò il titolo definitivo Cabiria, ovvero “nata dal fuoco”, imponendolo al posto del previsto Il romanzo delle fiamme o Cartagine in fiamme: fu – ovviamente – un successo. D’Annunzio, abile promotore di se stesso e delle sue opere, il 28 febbraio 1914 chiese d’essere intervistato dal “Corriere della Sera”: annunciò la sua collaborazione al film, definendolo «una vastissima tela». Colpisce subito la sorta di mitizzazione praticamente immediata del ruolo di d’Annunzio all’interno del film: la rivista napoletana “Film” alla vigilia della prima di Cabiria annunciava come il poeta avesse curato personalmente i più minimi particolari

giungendo persino a stabilire i tessuti speciali, oltre che le fogge ed i colori di ciascuna classe di costumi […] persino nella réclame la Itala ha inteso di conservare un altissimo e purissimo sentimento di arte che il nome di D’Annunzio imponeva.

E questo celebre nome, che nel 1913 accettò l’incarico dalla Itala Film per la cifra favolosa all’epoca di cinquantamila lire (pari a circa € 235.000,00), attrasse il pubblico e conferì alla storia immaginata da Pastrone una nobiltà che molto probabilmente non avrebbe posseduto. In realtà, sempre nel 1913, il poeta stipulò con la Itala Film anche un secondo contratto per un altro soggetto inedito che non venne mai steso.
Oltre al titolo, d’Annunzio modificò i nomi di diversi personaggi e “trasfigurò” le didascalie di Pastrone in linguaggio dannunziano, come è possibile verificare leggendo il libretto del film pubblicato dalla Itala e inserito nell’edizione nazionale delle opere di Gabriele D’Annunzio, che eppure così commentò, in maniera poco lusinghiera, il colossal in una lettere indirizzata a Treves nel 1914:

Cabiria è quello che il buon Pascarella chiamerebbe una boiata: è un saggio ironico di arte per la folla avida e melensa.

Nel 1931 Pastrone ricontattò tramite lettera il poeta per domandargli l’autorizzazione a utilizzare le preziose didascalie in un rifacimento del film, oltre all’inserimento al termine della stessa pellicola del celebre ritratto opera di Romaine Brooks. Gli comunicò inoltre un’altra modifica, abbastanza delicata a dire il vero, che avrebbe riguardato la struttura narrativa e materiale del film: il supporto fotografico si era deperito e pertanto erano indispensabili alcuni ritocchi.

La figlia di Iorio

L’enorme successo della tragedia pastorale La figlia di Iorio contagiò anche il cinema: tra il 1911 e il 1916 furono realizzate due trasposizioni cinematografiche per mano della Ambrosio di Torino, la seconda delle quali in collaborazione con la Caesar Film di Roma.
Nella prima trasposizione – con la regia di Edoardo Bencivenga – Mila era interpretata da Antonietta Calderari. Il film fu lanciato in pompa magna e riscosse un buon successo al botteghino, tanto che già cinque anni dopo si pensò a una riedizione utilizzando nuove tecniche che permettevano giochi scenici più efficaci e con protagoniste tre stelle del cinema muto: la contessa Irene Saffo (Mila), Mario Bonnard (Aligi) e Giovanna Scotto (Vienda).
Per quest’ultima versione furono chiamati a collaborare Edoardo Scarfoglio per la sceneggiatura e Francesco Paolo Michetti per la scenografia. Non è purtroppo verificabile se i due abbiano effettivamente partecipato alla realizzazione del film.
Per quanto riguarda d’Annunzio, questi in realtà poco s’interessò di tali passaggi della sua opera al cinematografo, limitandosi a incassare il denaro derivante dalla cessione dei diritti.
Nel 1934 fu invece il figlio Gabriellino, desideroso di dar vita a una nuova Mila, a esporre il suo progetto al padre che ne rimase entusiasta:

Tu sai che La figlia ha una specie di resurrezione fiammante sul teatro e che il popolo è rapito nella poesia popolare, come non mai.
Il cinema anche una volta si sostituisce alla ribalta annosa. Non discuto, in questo caso. Ma confermo i miei disegni che tu conosci. Il cinema deve dare agli spettatori le visioni fantastiche, le catastrofi liriche, le più ardite meraviglie […]. So che oggi i trucchi sono innumerevoli: e penso che nei trucchi appunto sia la potenza vera e inimitabile del Cine.
Per La figlia t’ingegnerai; ché io ti eleggo Direttore Artistico ed eleggo Maestro dei commenti musicali Ottorino Respighi.

A inizio marzo di quell’anno il commissario Giovanni Rizzo abbandonava momentaneamente il suo incarico di “controllore” per recarsi a Milano per conto del poeta:

1) versare il denaro alla Banca, 2) prendere accordi con Mondadori perché si accogliesse “a metà” il desiderio del poeta, che aveva cioè ottenuto 50 mila Lire (per la riproduzione di manoscritti, e altro ancora), 3) affidato a Enrico Allievi (condirettore della Banca Commerciale) le pratiche relative il collocamento del film Figlia di Iorio ceduta da D’Annunzio, per dispetto ad alcuni lestofanti «filmai» di Roma, per sole 300 mila Lire, rinunziando a tutti gli altri diritti.

D’Annunzio confidava nelle nuove leggi emesse in quel periodo a sostegno e difesa della poco florida condizione della cinematografia italiana. Aveva comunque già allertato Rizzo: in caso di difficoltà tecniche Rizzo avrebbe dovuto trattare la cosa direttamente con Benito Mussolini. Il commissario aveva comunque ricevuto rassicurazioni in merito al buon esito della trattativa.
Rizzo si era poi recato a Torino da Paolo Giordani della società Gine che di fronte alla richiesta del Comandante di Lire 300.000 (in precedenza aveva preteso un milione) ne offrì 200.000.
Nulla di fatto, e così nel gennaio del 1935 Gabriele contattava l’amico marchese Paolucci di Calboli:

Il prefetto Giovanni Rizzo ti reca un contratto che già da tempo fu studiato e proposto dalla Società Pittaluga.
Sono molto lieto di affidarlo alle tue mani […].
Non dispero che ti piaccia un giorno trovare il cammino del Vittoriale dove sarai nobilissimamente accolto.

L’Archivio Centrale dello Stato di Roma conserva una copia del contratto con l’Istituto LUCE nel quale il poeta cedeva il soggetto de La figlia di Iorio. D’Annunzio si rimetteva al marchese Paolucci per determinare la percentuale sopra le proiezioni, mentre l’Istituto LUCE gli avrebbe dovuto versare in acconto, all’atto della firma, le ormai famose 300.000 Lire. Il Comandante siglava spiritosamente «lo scrivano e scrittore».
Nonostante il film avesse ottenuto l’appoggio – e l’apporto finanziario – da parte del Ministero delle Corporazioni, il progetto non si realizzò. Le reali motivazioni sono tuttora ignote: probabilmente il vate sospese le trattative sperando di trovare in un momento successivo un finanziatore che elargisse maggior denaro oppure continuava a nutrire dubbi sulla resa finale, timoroso che la propria opera non potesse essere degnamente rappresentata in un film.
Infine, nel secondo dopoguerra d’Annunzio ispirò Pendolin, uno dei sei episodi del film del 1954 di Lionello De Felice Cent’anni d’amore.

Due grandi cineasti

Due importanti registi italiani si misurarono con le opere dannunziane: Alberto Lattuada e Luchino Visconti
Per la Lux Film di Roma Lattuada diresse nel 1947 il realistico e crudo Il delitto di Giovanni Episcopo con protagonista Aldo Fabrizi, che appare anche fra gli sceneggiatori assieme – fra gli altri – a Federico Fellini. Altri interpreti: Alberto Sordi, Yvonne Sanson e Ave Ninchi.
L’ultima pellicola diretta dal maestro Visconti nel 1976 fu L’innocente con Giancarlo Giannini, Laura Antonelli e Massimo Girotti, una co-produzione Rizzoli Film (Roma), Les Films Jacques Leitienne (Parigi), Societé Imp.Ex.Ci. (Nizza), Francoriz Production S.A. (Parigi). Visconti appariva anche fra gli sceneggiatori.

Gabriele d’Annunzio spettatore

D’Annunzio assisteva a proiezioni assieme ad amici e collaboratori all’interno del Vittoriale, nello Schifamondo, adattato dall’architetto Gian Carlo Maroni a cinematografo privato; per conoscere i suoi gusti e giudizi su attori e registi, è sufficiente leggere una pagina di Antongini:

Fra tutti i film che gli furono mostrati, oltre a quelli di Charlie Chaplin che (senza giungere alla braminica ignoranza del Gandhi) egli conosceva soltanto di fama, e che giudicò (dopo aver visto la Febbre dell’oro e Il circo) un artista d’eccezione, quelli che lo colpirono e lo interessarono furono Metropolis e Sigfrido, della Ufa, e un film russo tolto da una novella di Gorki dal titolo: Madre.
Metropolis lo colpì talmente, soprattutto dal punto di vista della tecnica, che volle gli fosse proiettato due volte; e a dimostrazione della impressione che quel film gli aveva fatto, a seduta ultimata ci inviò dalla biblioteca, ove s’era ritirato a riposare prima di coricarsi, un breve biglietto sul quale aveva scritto: “Dò la buona notte a tutti! Sono nel buio, fra l’Automa e la Bontà. Ariel!”
Si divertì moltissimo alle ingegnose interpretazioni di Douglas Fairbanks e si sbellicò dalle risa, come un fanciullo, a quella di Harold Lloyd nel noto film che nella riduzione italiana porta il titolo Preferisco l’ascensore.

Gabriele d’Annunzio in pellicola
Gabriele d’Annunzio apparve di persona in alcuni film, ovvero nel citato Il paradiso all’ombra delle spade e in molte “attualità” inserite anche in film di montaggio sulla guerra e sul fascismo, come ad esempio nel documentario Allarmi, siam fascisti!
La figura del vate appare quale protagonista in diverse pellicole.
La prima è l’ungherese Agyu es harang (Cannone e campagna) di Imre Pinter, prodotto dalla Korona Film nel 1915; il poeta – interpretato da Nyárai Antal – è rappresentato assieme alla famiglia reale italiana con intenti caricaturali: seduto, calvo, attorniato da una donna e da un altro personaggio. L’ambientazione era prettamente dannunziana: sale stipate di scanni pesanti e di antiche armature, riempite di fiori e lampade. Probabile scopo del film era propagandare la guerra contro l’Italia, in quel periodo non particolarmente sentita: era stato infatti sovvenzionato dal governo austro-ungarico e indirizzato ai soldati magiari, che si rifiutavano di combattere contro gli italiani.
La seconda pellicola è del 1986 e il suo titolo è D’Annunzio con la regia di Sergio Nasca. Narra la storia d’amore fra Gabriele ed Elvira Leoni, ovvero Barbara, interpretata da Stefania Sandrelli, mentre d’Annunzio ha il volto di Robert Powell, il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli.
Nel 2020 Sergio Castellitto ne Il cattivo poeta di Gianluca Jodice dà vita a un Comandante anziano, prossimo alla morte; il film racconta, approssimativamente, l’ultimo anno di vita del recluso sul Garda.
Paolo Pierobon nel 2021 in Qui rido io di Mario Martone interpreta, infine, il poeta nell’anno 1904, durante la querelle – che giungerà fino in tribunale – sorta con Eduardo Scarpetta e la sua parodia Il figlio di Iorio.
Con l’ascesa al potere de regime fascista, l’attività dannunziana riguardante la settima arte va progressivamente scemando, scompare praticamente e non solo per le stratosferiche somme pretese dal poeta. Si reputa molto improbabile che Mussolini potesse lasciare nelle mani del Comandante uno strumento di comunicazione così rilevante, nonostante il duce si fosse interessato con un certo ritardo al cinema quale mezzo di propaganda culturale. Da aggiungersi anche una certa riluttanza da parte dello stesso poeta a dedicarsi al cinema; nemmeno il sorgere di teatri di posa come la Pisorno e la stessa Cinecittà (sebbene ciò fosse accaduto negli ultimissimi anni della sua vita) accesero in lui un vero interesse.

Sappi che io ho costruito con miei criteri d’ingrandimento e di annobilimento – nella nuova casa che sotto il nome di schifamondo si distingue dal Vittoriale – una vasta sala del “cinematografo”, attratto da certe possibilità espressive di quella che in su’ principi mi piacque chiamare arte muta. E ti dichiaro subito che appunto io abomino il cinematografo sonoro, ed ho in uggia le didascalie letterarie che credono commentare il colore e il movimento delle imagini silenziose. Questo mi serve a spiegarti come io ti sia grato del privilegio che tu mi accordi nelle mie ricerche dandomi il modo di conoscere tutte le “pellicole” e di fare la scelta a me conveniente. Che il mio gusto non sia per nulla pervertito t’è significato dal fatto che intorno allo Schermo giganteggiano gli Schiavi (così detti dai mercatanti che divulgano i gessi) e nel fondo ondeggia e palpita immobile l’Aurora: quella medìcea. Ti comunicherò più tardi il mio studio; e forse ti parrà ingegnosa la mia maniera nell’accordare l’imagine labile ai più eroici rilievi dell’arte scultoria.

Attraverso questa sorta di lettera-testamento diretta il 15 febbraio 1938 al ministro Dino Alfieri (che gli aveva messo a disposizione numerose pellicole) d’Annunzio inserisce il cinema fra le forme d’arte e di spettacolo interartistiche, tornando ancora una volta all’ideale wagneriano dell’opera d’arte totale, sottraendogli così la sua autonomia; un cinema promotore di un programma certamente originale e innovatore, al quale purtroppo la morte gli impedirà di partecipare.
Lo straordinario comunicatore Gabriele d’Annunzio non poteva esimersi dall’attraversare anche la settima arte, anche il cinema, ma lo fece da grande autore, e probabilmente proprio questa sua condizione di importante intellettuale aveva reso possibile il ruolo di “teorico” e interprete dello spettacolo. La sua celebrità gli aveva aperto quasi tutte le porte dell’Italia umbertina: prima verso l’editoria di massa grazie a Casa Treves, quindi l’incontro con il teatro, si pensi a Eleonora Duse, ma non solo (Sarah Bernhardt, Ida Rubinstein e tutti i maggiori capocomici italiani), infine, appunto, il cinema, seppur con mille contraddizioni, data anche la particolare personalità dannunziana. Un uomo dotato di innata e inesauribile curiosità, perennemente orientato verso ciò che era nuovo, verso ciò che potesse stupirlo e contemporaneamente far accrescere la bellezza della quale egli era sempre alla ricerca.

 

Bigliografia

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