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Tor Tos

Toscana

di Simona Costa Enciclopedia dannunziana

«O Toscana, o Toscana, / dolce tu sei ne’ tuoi orti / che lo spino ti chiude / e il cipresso ti guarda; / dolce sei nelle tue colline / che il ruscello ti riga / e l’ulivo t’inghirlanda», recitano i versi alcionici del Ditirambo I, in omaggio alla regione dal poeta più a lungo frequentata e da lui riconosciuta determinante per la propria formazione linguistica e culturale. Città e paesaggi di questa terra torneranno ritmicamente nella sua opera, legati non solo alle memorie dell’irreversibile “intoscanimento” del collegiale abruzzese ma anche all’esplosione lirica, teatrale e narrativa degli anni 1898-1910, segnati inoltre dal vitalismo di passioni tempestose.
Nelle
Città del silenzio trova spazio una ghirlanda di città toscane che, oltre a Prato e Pisa (cfr. D’Annunzio e Prato e D’Annunzio tra Pisa e la Versilia), comprende Lucca, con la sua Ilaria del Carretto: la Lucca che nel Forse che sì Paolo Tarsis vorrebbe sorvolare con Isabella che lo trascinerà invece verso l’inferno di Volterra (d’Annunzio 1989, II, p. 711); quella «dolce Lucca dalla cintura verde» ricordata anche nel Compagno dagli occhi senza cigli (d’Annunzio 2005, I, p. 1480) in sintonia con il culto napoleonico, in quanto legata alla figura di Elisa Bonaparte Baciocchi.
E poi la «città di crucci, aspra Pistoia», con le sue sanguinose discordie interne tra Panciatichi e Cancellieri, con Cino e Vanni Fucci, ma anche con i misteriosi sorrisi tremanti nelle opere d’arte della sua Cattedrale: dalla pala d’altare attribuita a Lorenzo di Credi, con la leonardesca Madonna in veste azzurra con maniche rosse, al cenotafio del cardinal Forteguerri, con la figura della Speranza le cui labbra paiono le medesime «a cui Leonardo insegnerà poi il sorriso misterioso e divino», come si legge in un appunto del
Taccuino XXIII, sotto la data del novembre 1898.
Annotazioni di taccuino sono sottese anche ad altre
città del silenzio toscane. Al Taccuino XLIV del 1902 si rifanno i sonetti su Arezzo, le cui bellicose memorie storiche sono messe a tacere dalla voce dell’arte: da Piero della Francesca, con la sua Leggenda della Croce in San Francesco e la sua grecizzante Maddalena nel Duomo; ai celebri vasi aretini di fattura greca; a Santa Maria della Pieve e alla Loggia aggiunta a Santa Maria delle Grazie da Benedetto da Maiano; fino ai versi di Guittone e di Petrarca.
Ai quattro sonetti su Arezzo seguono i tre su Cortona, nobilitata dalla leggendaria identificazione dell’eroe locale, Nanos, con Odisseo; dall’aver dato i natali a Luca Signorelli; dal ritrovamento ottocentesco di un bronzeo lampadario etrusco e, ancor più, dalla potenziale nascita di un novello italo eroe da quelle terre in cui il contadino arando recupera memorie di antiche battaglie.
Più in generale il Casentino è tra i luoghi elettivi di d’Annunzio, al di là della passione per Giuseppina Giorgi Mancini (Giusini/Amaranta del
Solus ad solam) che lo fece pur brevemente gravitare verso la tenuta del di lei marito a Giovi (Arezzo). Se tra luglio e agosto del 1907 i due amanti si trovarono a Salsomaggiore, nella prima metà di ottobre lui fu  infatti ospite dei Mancini nella loro maestosa villa settecentesca di Giovi. Al conte Lorenzo Mancini sono dedicati, alla data del 14 ottobre 1907, i nove sonetti in chiusura del Secondo amante di Lucrezia Buti, riallacciandosi circolarmente alla fittizia data di apertura della favilla nell’ottobre 1907 e all’indicazione La Mirabella, ovvero il belvedere della villa I Palazzetti del conte.
A fine luglio 1908 Gabriele fu a Vallombrosa, al Grand Hôtel di Saltino, mentre lei era a Giovi;  da qui furono organizzate in agosto  insieme una visita al santuario della Verna e, seguendo l’attrazione francescana sulla via della contigua Umbria, una brevissima fuga a Perugia e Assisi, già meta nel 1897 di un pellegrinaggio con Eleonora Duse. Senza contare una furtiva entrata notturna di Gabriele nella villa Mancini.
Ma al Casentino era già legata altra precedente e importante stagione dannunziana. «Mi cerco e mi ricerco in questo Casentino di passione e di preghiera […] Se nato non fossi nella terra d’Abruzzi, vorrei esser nato qui nella terra della Verna e di Michelangiolo», proclama infatti lo scrittore nella prosa
L’Ommorto e il centauro (nel Secondo amante), riandando al suo soggiorno dell’estate 1902 a Romena e al tempo delle «metamorfosi immortali» di Alcyone.
Il 18 giugno 1902, come si legge in una lettera  a Emilio Treves, d’Annunzio aveva visitato in Casentino a Pratovecchio il medievale castello di Romena: castello in rovina ma presso il quale affittò una «piccola villa abitabile» del conte Goretto Goretti de’ Flamini e sulla cui piazza d’Armi farà quindi erigere una tenda. Il 3 luglio annunciava a Giuseppe Treves la sua imminente partenza per Romena a cavallo, traversando di notte i monti della Consuma per giungere all’alba al Castello già dei conti Guidi e del dantesco falsario Mastro Adamo.
In quella fecondissima stagione, accanto a lui era Eleonora Duse che dimorava presso la romanica Pieve di San Pietro. Da qui giungono a  Firenze, a Benigno Palmerio, suo basilare referente negli anni della Capponcina, richieste di generi alimentari e di libri (
Della composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo; la Guida illustrata del Casentino di Carlo Beni; il Manuale di geografia antica di William L. Bevan) che il Vittoriale conserva segnati. In quei due mesi, tra luglio e agosto, furono stese moltissime liriche di Alcyone, come solo in parte dice l’indicazione di luogo e data apposta ai manoscritti autografi di più testi: una felicità creativa ulteriormente testimoniata nelle lettere a Emilio Treves e Angelo Conti.
Anche i sonetti su Carrara e le sue cave di marmo trovano il loro corrispettivo nelle annotazioni dei taccuini (XXVIII e XXIX del 1899), ma il fascino di quelle montagne marmifere dilaniate dalle mine era già presente al Lucio Settala della
Gioconda (1898) e, nelle intenzioni dello scrittore, doveva riaffiorare nella terza e mai scritta parte del Fuoco, se nella lettera a Georges Hérelle del 18 dicembre 1899 diceva di volervi ambientare la morte di un grande scultore sotto l’esplosione di una mina gigantesca.
Il
Taccuino XXVIII sotto la data «Carrara, 20 luglio 1899» annota: «Visita alle Cave nella mattina, accompagnato. Tornerò domani, solo», mentre alla data del 21 luglio 1899 troviamo una lunga e dettagliata descrizione delle cave e specie del lavoro degli operai, chiusa dal rimando al Dizionario di arti e mestieri di Porena e Gargiolli, ma proseguita in avvio al successivo Taccuino XXIX.
Il 25 luglio, appena tornato alla Capponcina dopo la visita a Eleonora Duse a Marina di Pisa, scriveva all’amico Giovanni Cucchiari di avere ancora «gli occhi pieni del gran fulgore marmoreo» e proseguiva: «Nessuna commozione eguaglia, nella mia memoria, quella che provai salendo i bianchi ravaneti: fuorché, forse, l’orrore sacro onde fui preso in Grecia davanti alle Fedriadi». L’antico e affezionato compagno di collegio Giovanni Cucchiari, ricordato nel
Compagno col nome di Gian da Luni, era tornato infatti a Carrara per seguire la tradizione familiare di gestione delle cave, divenendo in seguito anche sindaco della città.
Lo scoppio di una mina nella cava è invece registrato nel
Taccuino XXXIX del 1900, ricollegabile a una lettera dal Secco Motrone del 20 luglio 1900 a Cucchiari, dove si esulta per l’invito e si chiede di avvisarlo del giorno stabilito per lo scoppio, prospettando di venire forse accompagnato da persona (probabilmente Eleonora Duse) cui aveva parlato «con lirico fervore» della sua precedente visita alle cave.
Infine il
Taccuino LI annota, sotto la data del 14 luglio 1907, un discorso in cui si parla di «sforzo titanico» e di «materia prometea, strappata dalla potenza umana al grembo dell’Antica Madre». L’occasione del discorso è l’esplosione di una potentissima mina quale narrataci da Lorenzo Viani (cfr. D’Annunzio tra Pisa e la Versilia) e datata appunto al 14 luglio in una tarda e malinconica lettera  del 7 maggio 1937 delle figlie di Cucchiari (morto nel 1919) al Comandante.
Anche stavolta d’Annunzio aveva aderito con entusiasmo all’invito sempre di Cucchiari che in data 8 giugno 1907 gli aveva proposto di esser lui stesso a dar fuoco alla mina tramite un bottone elettrico (Cappellini 1999, p. 90 e pp. 97-98). Cosa però che sembra poi non gli fosse toccata, se il giornalista Luigi Campolonghi ce lo descrive distratto nei colloqui con Clemente Origo e Umberto Cagni (Sereni 1999, p. 104).
Comunque da Settignano, nel luglio 1907, preannunciando all’amico Cucchiari la sua partenza «con una mortifera automobile di novanta cavalli sabato nel pomeriggio» e l’arrivo a Carrara la mattina seguente, dopo una sosta a Viareggio, in tempo per la partenza del treno, dichiarava: «Non ti so dire con che ansia io mi prepari allo spettacolo, memore del lontano giorno» (d’Annunzio 1949, pp. 11-12).
Ma tra queste città è la funerea Volterra, cui è dedicato un solo sonetto aperto sui fantasmi evocati dagli ipogei etruschi, ad acquistare ulteriore protagonismo sulla pagina dannunziana, divenendo nel
Forse che sì la città di Dite in cui si consuma la discesa agli inferi dei protagonisti, attossicati da passioni libidinose e incestuose come dai velenosi fumi delle mofete e contaminati dalla follia sprigionata dal manicomio lì presente.
Nelle lettere a Emilio Treves da Marina di Pisa di fine ottobre 1909, in piena tempesta finanziaria, d’Annunzio comunicava anche la necessità di una visita di ventiquattr’ore a Volterra per alcune scene del romanzo, compreso quella, progettata ma poi mutata, del suicidio di Vana dalle Balze, simili a bolge dantesche. Arrivò il 26 ottobre all’Albergo Nazionale di Volterra, in compagnia di Nathalie de Goloubeff, preannunciato da un telegramma di Corrado Ricci (autore tra l’altro di una monografia su Volterra del 1905) al direttore del Museo Etrusco, Ezio Solaini, cui recò e dedicò il volume di
Elettra, in cui era fermata la sua «prima visione» della città, risalente al 1897.
Il fedele Palmerio che gli aveva inviato a Marina di Pisa una raccomandata per un’urgente questione economica, riceveva in risposta il 26 ottobre 1909 da Volterra un telegramma: «Non so che fare; mi rassegno. Volterra è meravigliosa. Ti abbraccio. Gabriele» (Palmerio 1938, p 141). Il 30 ottobre, di ritorno a Marina di Pisa, d’Annunzio scriveva a Emilio Treves di aver rivisto Volterra «con nuova meraviglia»: una città di pietra etrusca sempre battuta dal vento, sopra una dantesca voragine infernale, segnata dal dolore (la prigione del Mastio) e dalla follia (il Frenocomio di San Girolamo).
Frutto del quanto mai creativo «pellegrinaggio» sono tre taccuini (LVII, LVIII e LIX) che si profilano a brogliaccio scenografico del romanzo, inizialmente comprensivo anche di San Gimignano, come ci dicono gli appunti del
Taccuino LIII in cui sotto l’indicazione “Forse che sì forse che no” è fermata la gita del 14 luglio 1908 con Amaranta (Giuseppina Mancini) e Moriccica (Bianca Franci): la visita alla Collegiata, alla cappella di Santa Fina con gli affreschi del Ghirlandaio; la sensuale salita alla torre; fino alla scena tumultuosa (riaccennata nel Solus ad solam) con le ingiurie del marito a Giuseppina e la rivelazione all’altro che non ne è il primo amante.
Nel
Forse che sì San Gimignano non troverà posto, ma dopo Mantova, che con il suo Palazzo Ducale apre il Libro primo per lasciare poi teatralmente spazio all’antitetico aerodromo di Montichiari, il Libro secondo si apre su Volterra, sullo scorcio di palazzo Inghirami dove si erge maestoso il secolare leccione già fotografato in un appunto del Taccuino LIX. Nella dialettica scenografia su cui poggia la struttura romanzesca (come per Mantova/Montichiari), Volterra, sfondo d’elezione per inquadrarvi Vana e Aldo, tormentati da passione e gelosia, si alterna alla marina pisana rievocata dalla memoria alcionica (i cammelli di San Rossore, il Gombo, il Serchio) e in cui Paolo e Isabella vivono il loro amore in interlocuzione con la natura.
Nel paesaggio di Volterra, funzionale allo sviluppo drammatico, al tormento amoroso di Vana fa da controcanto la badia diroccata attinta alle note del
Taccuino LVIII, con il «muro lebbroso» e gli elci «monchi, storpii, simili ai mendicanti infermi» che Vana nella sua immaginaria visita avvertirà in sé introiettati. Un ulteriore correlativo oggettivo all’angoscia di Vana – o aggetto “analogo”, secondo il Pater letto da Conti e d’Annunzio – è la Deposizione del Rosso Fiorentino, trasferita nelle sale di Palazzo Inghirami dove non è mai stata: lo scrittore l’aveva ammirata alla Pinacoteca nel suo soggiorno e descritta in avvio al Taccuino LVII. E anche qui, nel viluppo dei corpi e nell’accensione dei rossi che gridano la passione, Vana, ambigua «vergine oscura» dal «viso olivigno», trova una novella identificazione: nel «giovinetto bruno come l’oliva, che regge lo scalèo con le sue braccia nude e guarda il crine della Maddalena attorto come un groppo di rettili decapitati» (d’Annunzio 1989, II, pp. 545, 644, 766).
Il ritorno in macchina dei due amanti verso Volterra, traversando un paesaggio arido non privo di storia letteraria e qui descritto con l’ausilio delle
Relazioni di Giovanni Targioni Tozzetti, apre dunque al viaggio agli inferi compiuto da ciascun personaggio. Città di Dite, ma anche città della follia è Volterra con il suo Frenocomio al cui direttore, Luigi Scabia, noto per le sue terapie innovative tese a fare del manicomio uno spazio aperto gestito dal lavoro dei pazienti, d’Annunzio, che lo stimava, non solo donò alcuni foglietti di taccuino con appunti sulla città, ma affidò nel romanzo la cura di Isabella. A ritmare ossessivamente, in un progressivo crescendo, l’affiorare sempre più pervasivo della follia che, mutuata da Giusini, travolgerà Isabella, sono figure emblematiche prese dal vivo: la donna dal grembiule rigato; Viviano, il demente dal sorriso impietrito, ospite di Attinia, la custode della badia, e a cui si riferisce la corrispondenza con il dottor Scabia sull’affidamento familiare da lui messo in uso (Pescetti 1943, p. 52).
L’amore si consuma su inquietanti risvolti ctoni, come suggerisce il viaggio equestre agli inferi riprodotto nelle urne degli ipogei del Museo di Volterra. Le Balze si assimilano alle dantesche «meschite vermiglie» e vi sono trasposte, ad uccidere la cagna Assra, le letali mofete di Castelnuovo descritte da Targioni Tozzetti. A chiudere il Libro secondo, con la partenza da Volterra, è significativamente la sosta ai Lagoni di Castelnuovo: sulfureo, ribollente e rugghiante scenario attinto alle note di taccuino (
Taccuino LVII), ma ancor più a Targioni Tozzetti e ai versi danteschi, consentendo l’immersione dei quattro infetti protagonisti in una bufera infernale da cui usciranno trasportando il corpo svenuto di Vana, presagio di morte.
È certo dunque l’inferno dantesco a comporre l’immagine di Volterra quale luogo di maledizione e dannazione, sulle demoniache orme di una Isabella Inghirami la cui figura suscitò le ire della storica famiglia, proclive ad un’azione giudiziaria contro il romanzo. D’Annunzio, a placare lo sdegnato Michelangelo Inghirami, chiese la (riuscita) intercessione degli amici volterrani come Solaini, Scabia e Arnaldo dello Sbarba, e indirizzò all’Inghirami una lettera di «esaltazione della magnanima stirpe» pubblicata da vari giornali.
Ma, oltre a Dante, molteplici, anche in questo caso, sono i referenti culturali individuati per questo scenario: dai già citati Targioni Tozzetti e Corrado Ricci al Bourget di
Sensations d’Italie fino ai vari e antichi volumi di storia della città e alle sue Guide che il provvido Ezio Solaini gli seppe fornire (Pescetti 1943, pp. 22-23 e pp. 28-32).
Nell’usuale interconnessione tra materiale librario e visione diretta, la gita  a Volterra di fine ottobre 1909, mentre stava ruinando, al pari dell’antica Badia volterrana, l’intera costruzione mitopoietica del signore della Capponcina, può anche velarsi di sottese risonanze emotive.  L’adesione a un paesaggio apocalittico si contrappone, nella chiave drammaturgica di questo romanzo/non romanzo dai contrastanti scenari, alla visione della marina pisana di memoria alcionica, prescelta a ultimo rifugio dello scrittore. Qui, di ritorno da Volterra, portò a termine il
Forse che sì, in preda a un’ebrezza non sequestrabile da alcun usciere e deciso ad andare «fino al fondo senza interruzione, foggiando una materia incandescente», come scriveva a Emilio Treves nella lettera del 30 ottobre.
Nel Libro terzo del
Forse che sì,  Paolo Tarsis, lasciatasi alle spalle Volterra, viveva gli ultimi atti drammatici della sua passione amorosa sullo scenario urbano fiorentino, fino a rimaner coinvolto dalla follia di Isabella, come già Gabriele da quella di Giusini. La catarsi di Paolo nel “folle” volo dal Lazio alla Sardegna potrebbe fors’anche presagire altre sfide mortali: i voli bellici poi del suo autore, riappropriatosi del palcoscenico della storia. Sta di fatto che il Forse che sì chiude definitivamente la lunga e fecondissima stagione toscana di d’Annunzio, che tuttavia ne serberà intatta e nostalgica la memoria, fin nelle pagine ultime del Libro segreto (cfr. D’Annunzio tra Pisa e la Versilia), in cui dall’alto, come il suo Paolo Tarsis in volo sull’Ardea, ripasserà un’ultima volta su un paesaggio che racchiude la sua dileguata vita.

Bibliografia essenziale

Bibliografia primaria

Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965.
Gabriele d’Annunzio
, Versi d’amore e di gloria, I e II, ed. diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982-1984.
Gabriele d’Annunzio,
Prose di romanzi, II, ed. diretta da Ezio Raimondi, a cura di Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1989.
Gabriele d’Annunzio
, Prose di ricerca, I e II, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005.
Gabriele d’Annunzio,
Carteggio col «dottor Mistico» [Angelo Conti], con una notizia di Ermindo Campana, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1939, fasc. 1603, pp. 10-32.
Gabriele d’Annunzio,
Lettere ad un amico di collegio [Giovanni Cucchiari], «Nuova Antologia», gennaio 1949, fasc. 1777, pp. 3-12.
Gabriele d’Annunzio,
Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, con la collab. di Katia Berardi e Barbara Di Serio, Milano, Garzanti, 1999.
Gabriele d’Annunzio,
Carteggio con Benigno Palmerio, Torino, Aragno, 2003.
Carteggio D’Annunzio-Hérelle (1891-1931)
, a cura di Mario Cimini, Lanciano, Carabba, 2004.

Bibliografia secondaria

Benigno Palmerio, Con d’Annunzio alla Capponcina (1898-1910), Firenze, Vallecchi, 1938, poi, a cura di Marco Marchi, ivi, 1995 e Firenze, Le Lettere, 2009.
Luigi Pescetti,
D’Annunzio e Volterra, Milano, Mondadori, 1943.
Guglielmo Gatti,
Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1956.
Salvato Cappelli,
L’amante matta [Giuseppina Giorgi Mancini], Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1979.
Paolo Alatri,
Gabriele d’Annunzio, Torino, UTET, 1983.
Milva Maria Cappellini,
D’Annunzio e Prato. Documenti e lettere ritrovate, Firenze, Carlo Zella Editore, 1999.
D’Annunzio e la scoperta della Versilia
, Catalogo della mostra Marina di Pietrasanta 27 maggio-5 settembre 1999, a cura di Annamaria Andreoli, Firenze, Maschietto e Musolino, 1999 (con interventi di Cesare Garboli, Annamaria Andreoli, Carlo Cresti, Rossana Bossaglia, Umberto Sereni).
Terre, città e paesi nella vita e nell’arte di Gabriele d’Annunzio
, II-III, La Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria e la Francia, a cura di Silvia Capecchi, XXIV Convegno internazionale Firenze-Pisa, 7-10 maggio 1997, Pescara, Ediars, 1999 (con, in particolare, l’intervento di Raffaella Castagnola su San Gimignano, Pisa e Volterra).

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