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Teneo te Africa

di Federica Massia, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Teneo te Africa costituisce di fatto l’ultima opera pubblicata in vita da Gabriele d’Annunzio, nell’agosto 1936, nonché l’ultima espressione di quell’attivo protagonismo nelle vicende storiche e politiche del suo tempo che caratterizza molti episodi della lunga vicenda biografica e letteraria dannunziana. Il volume raccoglie una serie di interventi scritti da d’Annunzio – ormai da oltre un decennio isolato al Vittoriale – a sostegno della politica coloniale fascista, nati dietro sollecitazione diretta dello stesso capo del governo. Nel 1935, infatti, Mussolini era ormai risoluto ad avviare una imponente campagna militare in Etiopia, in grado di consolidare il consenso popolare al governo e al contempo riscattare il ruolo dell’Italia sul piano internazionale. In questa prospettiva, era indispensabile per lui trovare il modo di aggirare gli accordi della Società delle Nazioni (cui apparteneva la stessa Abissinia) e fare fronte allo strapotere coloniale della Gran Bretagna; l’unico modo per farlo, in questo momento, sembrava quello di cercare il sostegno della Francia di Pierre Laval (prima Ministro degli Esteri e poi Presidente del Consiglio francese), che proprio tra la primavera e l’estate 1935 pareva offrire all’Italia concrete possibilità di dialogo.
In questa complicata partita di scacchi, Mussolini si rivolgeva dunque al carisma e al prestigio del più autorevole poeta vivente. Se in un primo momento d’Annunzio non aveva taciuto le proprie perplessità nei confronti di un’impresa che gli appariva puramente coloniale, presto aveva riconosciuto all’impresa africana il carattere di una guerra «nazionale, anzi latina»: in gioco non erano soltanto le sorti dell’Italia imperialista, ma il ruolo della nazione italiana nel concerto delle potenze internazionali e l’opposizione a un sistema mondiale dominato dal modello anglosassone. Così, a più di vent’anni dalle canzoni di
Merope (1912) con cui aveva sostenuto la guerra di Libia, nell’estate del 1935 d’Annunzio si accingeva a celebrare la «seconda gesta d’Oltremare».
La richiesta di Mussolini, in effetti, offriva al poeta-soldato l’occasione di dare corpo a una sua antica ambizione politica e ideologica: sin dagli anni Novanta – e poi più concretamente con la prima guerra mondiale – d’Annunzio aveva coltivato l’aspirazione a una nuova «alliance latine» tra Francia e Italia, in grado di riaffermare il dominio della cultura latina in Europa. Inoltre, nel particolare contesto della metà degli anni Trenta, alle ragioni della sintonia di d’Annunzio con il Duce – «cordiale avversario» di sempre – si deve aggiungere non solo il riaccendersi del vecchio odio fiumano contro l’Inghilterra, ma anche la sincera avversione per la «frenetica Lamagna», guidata dal «feroce pagliaccio», dall’ignobile «marrano Adolf Hitler». Pertanto, la notte del 20
giugno 1935 il poeta rispondeva con entusiasmo alla richiesta di Mussolini: «Da questa notte sono il tuo luogotenente pronto agli ordini più perigliosi. […] Questa è per me una gran veglia. Il gallo canta. Le Alpi sembrano cancellate dalla luce di un’alba ideale».
Dunque
Teneo te Africa raccoglie la testimonianza di un impegno concreto e di primissimo piano da parte d’Annunzio nel quadro dei delicati equilibri geopolitici del tempo. Il primo e più corposo testo della raccolta (Aux bons chevaliers latins de France e d’Italie), infatti, nacque non tanto con intenti letterari, ma come vero e proprio strumento politico: composto in francese nell’agosto 1935, ai primi di settembre fu fatto recapitare nientemeno che nelle mani del Presidente della Repubblica francese, Albert Lebrun, avvolto in un’elegante cartella di seta e velluto decorata dal disegno di un gallo carolingio. La prima edizione (171 esemplari numerati fuori commercio, impressi nelle Officine del Vittoriale degli Italiani) sarebbe uscita solo nell’ottobre 1935, a invasione dell’Etiopia avviata. Qui, l’inclusione dell’Ode pour la résurrection latine (1914) che aveva aperto anche i Canti della guerra latina metteva in diretto contatto le due opere, dimostrando al contempo la coerenza della posizione ideologica dannunziana.
Il libello scritto per il Presidente francese – da cui d’Annunzio avrebbe estratto e tradotto in italiano i passi politicamente più rilevanti (
Lealtà passa tutto e Oberdan) – non rappresenta comunque l’unico intervento del poeta sulla questione di Etiopia. Sin dal luglio 1935, infatti, aveva fatto uscire sui quotidiani vari scritti di carattere propagandistico (per lo più in forma di lettere indirizzate a Mussolini o a vecchi compagni d’armi), man mano pubblicati anche in volume presso la stamperia del Vittoriale. Alle grandi e lussuose edizioni in facsimile di autografo, d’Annunzio si preoccupò da subito di affiancare volumetti in piccolo formato destinati agli zaini dei soldati in Africa, dimostrando una volta di più il risvolto diretto e concreto della sua attività letteraria in questa fase.
I testi così pubblicati tra 1935 e 1936, con l’aggiunta di alcuni scritti usciti unicamente sui giornali e di due messaggi inviati rispettivamente al Re d’Italia e a Mussolini, figurano come parte di un’opera più ampia intitolata
Teneo te Africa e pubblicata nell’agosto 1936, nell’ambito dell’Edizione nazionale dell’Opera omnia dannunziana. Il titolo della raccolta complessiva riprende un’espressione di Corrado Brando, protagonista della tragedia in prosa Più che l’amore (1906), mediocre rappresentante della classe borghese romana che aspira a compiere il proprio destino superomistico con l’eroica colonizzazione dell’Africa. In effetti, le vicende di Più che l’amore vengono molte volte rievocate nei testi della raccolta, facendo di Brando un precursore della conquista del Continente nero, profeta di quella «parola romana da rendere alfine italica». L’esclamazione «Teneo te Africa», infatti, ripete le parole pronunciate, secondo Svetonio, da Giulio Cesare, appena approdato e subito inciampato sul suolo africano: con l’arguto motto di spirito, il condottiero romano sarebbe riuscito a volgere un goffo e malaugurante incidente in solenne annuncio di vittoria e grandezza. In trasparenza, il titolo suggerisce cioè la concezione dell’impresa di Etiopia come necessario e molto atteso riscatto dell’umiliante sconfitta di Adua di quarant’anni prima, nella definitiva riconquista della «quarta sponda» affacciata sul mare nostrum romano. Come già in Più che l’amore e nelle Canzoni della gesta d’Oltremare, anche nelle prose dedicate alla campagna d’Abissinia la terra africana, vivificata dalle memorie romane, offre lo sfondo esotico e selvaggio per una nuova epopea moderna: gli anonimi soldati italiani diventano eroici protagonisti di una crociata di liberazione dei confini già propri del mondo classico dalla barbarie indigena, attingendo al consueto paradigma ideologico del colonialismo europeo. Esotismo e nazionalismo si fondono così nella celebrazione di una guerra che per d’Annunzio viene a rappresentare l’occasione decisiva per ripristinare finalmente il dominio della cultura latina, dando vita a quel nuovo Rinascimento già auspicato molte volte in occasione del primo conflitto mondiale. 

Contenuto e struttura 

Il primo testo della raccolta, interamente scritto in francese, si compone di due parti distinte: la prima intitolata Pour lealté maintenir – Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie – La conquête studieuse d’une plus grande patrie; la seconda Contra barbaros adversum externas gentes ac vergiliano modo in barbaricam stoliditatem constans perpetua fortis invicta voluntas. Come scrive l’autore stesso a Mussolini, la prima sezione è «lirica e storica» (capitoli I-VIII), mentre la seconda affronta la questione più propriamente politica (capitoli IX-X). Per la composizione della prima e più corposa parte, infatti, d’Annunzio si serve in gran parte del materiale di Le Dit du Sourd et Muet (risalente al 1929 ma ancora inedito nel 1935), ossia quella particolarissima opera in francese falso-antico in cui l’autore sovrapponeva memorie autobiografiche in parte reali e in parte fantastiche. Oltre a rispondere a una funzione scopertamente autocelebrativa, queste pagine dovevano servire – secondo quanto spiega lo stesso d’Annunzio al suo dubbioso committente – a dimostrare il suo «lungo amore per la terra di Francia» e la sua perfetta padronanza della lingua francese, legittimando così la seguente presa di posizione politica e l’esortazione ai capi di stato francesi. Nella seconda parte, infatti, rielaborando le idee già espresse in Ode pour la résurrection latine e Aveux de l’Ingrat, d’Annunzio manifesta l’auspicio di una nuova alleanza tra le nazioni latine. A causa dei violenti accenni polemici contro l’imperialismo della Gran Bretagna, la pubblicazione di questo scritto venne a lungo procrastinata dalle autorità governative italiane, nel tentativo di non compromettere i fragili equilibri politici e diplomatici di quei mesi. Evidentemente risentito per l’inattesa censura, nel settembre 1935 d’Annunzio tradusse e pubblicò sul «Popolo di Brescia» due stralci di quel messaggio (rispettivamente dal cap. IX e dal cap. III), col titolo Lealtà passa tutto e con verità fa frutto e Guglielmo Oberdan e le due gesta, poi inclusi in Teneo te Africa subito dopo lo scritto francese. Il primo, rievocando alcuni episodi di vicinanza tra Italia e Francia nel corso della Grande Guerra, auspica l’unione delle «due patrie latine» in «una sola patria più grande», a sostegno reciproco l’una dell’altra e alla guida di «tutti gli insorti di tutte le stirpi»: la guerra etiope si configura così come parte di una «nuova crociata di tutte le nazioni defraudate dei loro diritti», «di tutti gli uomini liberi e giusti contro la nazione usurpatrice e accumulatrice d’ogni ricchezza», ossia il «vorace» e «ingordo» impero britannico che «non è mai sazio». In Guglielmo Oberdan e le due gesta, invece, d’Annunzio rievoca gli anni di studio a Roma e la propria precoce passione per la filologia romanza, immaginando di aver incontrato nei corridoi dell’Università il patriota irredentista Guglielmo Oberdan, sentito come fratello dal Comandante fiumano.
Segue
Al legionario «volontario per la guerra d’Africa» Agostino Lazzarotto, lettera indirizzata al segretario federale di Vicenza e pubblicata sul «Popolo d’Italia» il 10 luglio 1935. Qui d’Annunzio esprime pieno entusiasmo per la campagna d’Etiopia, ritenuta necessaria per riscattare l’Italia dalle umiliazioni di Dogali (1887) e Adua (1896); semmai il poeta, ormai «vecchio e invalido», si rammarica non poter più partecipare in prima persona alla guerra. Si tratta di un tema ricorrente nella raccolta, che contrappunta il dominante registro eroico con una tonalità malinconica e più personale.
Composto poco prima dell’effettivo inizio delle operazioni militari in Etiopia,
Ai combattenti italiani oltremare nel segno perenne di Roma si rivolge direttamente ai soldati impegnati nella seconda campagna d’Africa. Nei primi capitoli il poeta si richiama alle opere già scritte su argomenti analoghi, dalle «Canzoni di gloria libica» alla «Vocazione d’oltremare» di Corrado Brando. Poi, dopo aver ricordato la sopraffazione e l’isolamento subiti dall’Italia alla fine della Grande Guerra (in buona parte rielaborando il discorso L’Italia alla colonna e la Vittoria col bavaglio, vietato dal governo nel maggio 1919), d’Annunzio dichiara apertamente come la Società delle Nazioni non rappresenti gli interessi e i bisogni degli italiani, favorendo piuttosto quel «gozzo gargantuesco, mascella pantagruelica, sacco senza fondo, ghiottornia disgustosa» dell’Inghilterra e il suo tentativo di «vietarci ogni grandezza, serrarci ogni via di sviluppo e di respiro, limitare la nostra libertà politica […], escluderci dalla gara europea e mondiale». A causa dell’eccessiva intransigenza di queste affermazioni, l’intervento non venne in realtà pubblicato, suscitando nuovamente lo sdegno dell’autore.
Il messaggio
Alla maestà di Vittorio Emanuele III Re d’Italia risale al 4 novembre 1935, quando ormai l’invasione dell’Etiopia era iniziata, l’Italia fascista aveva proclamato il suo Impero e la Società delle Nazioni aveva condannato l’aggressore. Pertanto nelle parole di d’Annunzio, oltre alla consueta invettiva contro la Gran Bretagna, si rileva anche l’amara delusione nei confronti della Francia, ormai sempre meno disposta ad appoggiare l’azione e gli interessi italiani.
Segue
Non dolet Arria dixit, inviato a Mussolini il 9 dicembre 1935 e pubblicato su molti giornali il giorno seguente. A distanza di un mese dalle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni, il regime fascista aveva istituito la «giornata della fede» (18 dicembre 1935), chiedendo alla popolazione di contribuire alle spese militari donando i propri ori e le proprie fedi nuziali. Nel suo messaggio al capo dello Stato, d’Annunzio dichiara il proprio amore per l’Italia e offre il proprio esempio a tutti gli italiani, donando le sue medaglie al valor militare e soprattutto la croce di guerra ricevuta dall’Inghilterra e la moneta d’oro avuta in omaggio dallo stesso Mussolini.
Nel messaggio scritto nel gennaio 1936
Al comandante del battaglione 315° senior Ennio Giovesi il poeta torna a esprimere la propria sofferenza per l’impossibilità di prendere parte alla nuova impresa eroica accanto ai vecchi compagni d’arme. Proprio qui, inoltre, si trova condensata in poche righe la più efficace espressione del pensiero dannunziano sulla guerra d’Etiopia: 

I miei legionarii di Fiume partono tutti per l’Africa bilingue. In sul principio io soleva placare l’eccesso dell’ardore persuadendoli come quella non fosse guerra nazionale ma soltanto coloniale. Oggi la grigia imbecillità inghilese e la immonda cupidigia e l’ingiustizia testarda mi eccitano a dichiararla nazionale, anzi latina, anzi romana.

A causa dell’esplicita ammissione degli antichi dubbi sull’operazione militare fascista, anche questo messaggio venne censurato dalle autorità governative, con conseguente risentimento dell’autore.
Ciononostante, a distanza di poche settimane d’Annunzio compose quello che forse è il testo più apertamente celebrativo del regime fascista e del suo Duce, ormai riconosciuto come «compagno d’arme e d’ala, “sodalis unanimis”» e persino, con sintagma pascoliano, «fratello minore e maggiore». In
Adua, infatti, il Comandante riconosce a Mussolini il merito di aver saputo «infondere nella nostra gente per troppo tempo inerte la volontà di questo compimento»: così, nel 1° marzo 1936, l’anniversario della sconfitta di Adua rappresenta «l’orgoglio di averla rivendicata con una vittoria piena» e diventa occasione per ricordare il valore dei soldati italiani morti eroicamente in battaglia. Lo scritto fu pubblicato con grande risalto sul «Messaggero» del 1° marzo, espungendo tuttavia l’invettiva contro il ministro inglese Anthony Eden, bersaglio privilegiato della derisione dannunziana.
Almeno in parte extra-vagante appare il messaggio
A Toshio Kido, appassionato lettore dannunziano che il 30 marzo 1936 era giunto in visita al Vittoriale e aveva offerto al poeta una lettera e un dono da parte di Chōkō Ikuta, traduttore del Trionfo della morte in Giappone. Pubblicato sulla «Lettura» del 1° maggio, lo scritto offre testimonianza del duraturo gusto dannunziano per l’arte e per la cultura giapponese (rievocando anche le giapponeserie ammirate dal poeta nella «bottega d’arte governata da Maria Beretta» a Roma), ma anche del suo apprezzamento per la politica imperialista ed espansionista del Giappone degli anni Trenta. L’esaltazione della reciproca amicizia e stima tra i due paesi sembra qui assumere un significato non solo culturale, ma più concretamente politico, auspicando il sostegno giapponese alla «riconquista necessaria dell’Etiopia romana».
Con l’occupazione di Addis Abeba del 5 maggio 1936, d’Annunzio celebra il compimento della conquista dell’Etiopia scrivendo due messaggi colmi d’entusiasmo:
Al comandante dell’Arma «Fedelissima» dei Carabinieri Reali, rivolto a Riccardo Mòizo, già esaltato nella Canzone di Diana come eroe della guerra di Libia e qui riconosciuto nuovamente vittorioso nella seconda gesta d’oltremare; Il profeta in patria e la più grande Italia, indirizzato a Gian Carlo Maroni, architetto del Vittoriale e «fedele compagno» rivano, ma in realtà dedicato alla lode di Vittorio Emanuele di Savoia Imperatore d’Etiopia e di Mussolini «Africano maggiore».
Al Re d’Italia Imperatore d’Etiopia
e A Benito Mussolini sono rivolti anche i due «colombigrammi» (messaggi spediti tramite colombi viaggiatori) scritti in occasione del diciottesimo anniversario del volo dannunziano su Vienna.
In posizione finale si trova
Alla podestà di Fausto Lechi in Brescia per i bresciani morti nella conquista d’Africa e per i legionari della seconda Divisione «28 ottobre», vale a dire il messaggio letto in Municipio da Gian Carlo Maroni nel pomeriggio del 17 agosto 1936, scritto da d’Annunzio in onore dei soldati bresciani caduti in Etiopia e dei reduci rientrati proprio quel giorno in patria.
Se l’edizione del 1936 si concludeva con il tono trionfale dei «colombigrammi» al Re e al Duce, a partire dall’edizione delle
Prose di ricerca del 1950 viene spostato in chiusura proprio il messaggio al podestà bresciano, prima collocato in terzultima posizione dopo Il profeta in patria e la più grande Italia. L’edizione mondadoriana del dopoguerra, cioè, sembra seguire un criterio più fedelmente cronologico, per cui anche il messaggio a Ennio Giovesi – che prima seguiva quello indirizzato ad Agostino Lazzarotto, con cui era già accoppiato nel volumetto A un legionario e a un fante stampato al Vittoriale – viene inserito fra i due messaggi a Mussolini (Non Dolet Arria Dixit e Adua). A differenziare l’edizione 1950 da quella originale, infine, è anche l’eliminazione dell’Ode pour la résurrection latine e l’aggiunta (sin dall’edizione del 1941) di Alla Maestà di Vittorio Emanuele III, portando così le prose da quindici a sedici.

Stile e interpretazioni

Nell’analisi di Teneo te Africa occorre rilevare innanzitutto una certa sproporzione tra lo scritto Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie e gli altri testi della raccolta, in primo luogo a livello quantitativo, dal momento che le pagine in francese occupano quasi la metà dell’intera opera. Inoltre, mentre la seconda parte del testo francese (Contra barbaros) appare più vicina, nei contenuti e nello stile, agli altri testi della raccolta, la prima mantiene una certa autonomia nei confronti dell’organismo complessivo di Teneo te Africa, configurandosi come opera di carattere più scopertamente lirico e letterario per le ragioni genetiche già spiegate. Lo stesso d’Annunzio doveva rendersi conto del carattere ibrido dell’operetta francese e del conseguente «problema tecnico di divulgazione», poiché già nel 1935, nell’inviarlo a Mussolini, scriveva: «non è un articolo né un discorso; è un vero e proprio libello: magari una specie di novum libellum catulliano».
A proposito della commistione di stili e linguaggi, si osserva una presenza piuttosto importante di citazioni letterarie all’interno della raccolta. Frequenti e diffuse, come ovvio, sono le riprese dalle precedenti poesie di guerra dannunziane, dalle canzoni della «Prima gesta d’Oltremare» (per esempio
La canzone della Diana o La canzone di Mario Bianco citate nel messaggio a Riccardo Mòizo) ai Canti della guerra latina, e soprattutto quell’Ode pour la résurrection latine estesamente citata in Contra barbaros e poi inserita per intero in apertura dell’edizione del 1936. Più interessanti invece le citazioni di altri autori, concentrate soprattutto in alcuni testi. In Contra barbaros, per esempio, si trova il celebre endecasillabo petrarchesco «Italia, Italia, oltra le belle bella», accompagnato da una complementare esclamazione di François de Malherbe («Il n’est rien de si beau / comme la France est belle»), ma vengono citati anche alcuni versi di Algernoon Swinburne da The Eve of Revolution e A Watch in the Night. Se i riferimenti italiani e francesi appaiono del tutto coerenti e prevedibili nel contesto, i versi inglesi si spiegano col fatto che proprio Swinburne aveva seguito con fervore le vicende del nostro Risorgimento, sostenendo la causa dell’indipendenza italiana. Pertanto la sua voce doveva servire a d’Annunzio come ulteriore e autorevole condanna dell’attuale governo britannico, che al contrario cercava di limitare la potenza e la libertà dell’Italia. Per lo stesso motivo Swinburne è chiamato in causa anche in Non Dolet Arria Dixit, dove si leggono molti versi da A Marching Song e soprattutto da “Non dolet”, dove il poeta inglese – come qui fa lo stesso d’Annunzio – impiegava la nota vicenda di Arria (moglie del senatore romano Cecina Peto che si trafisse con un pugnale per incoraggiare il marito a fare altrettanto) quale simbolo di sacrificio e amore di patria, scrivendo «it does not hurt, Italia».
Del tutto fuori dal sistema dell’opera – ma non dallo sconfinato sistema-d’Annunzio, autore giovanissimo dell’
Outa giapponese del 1885 (poi inclusa nella Chimera) – si collocano i curiosi epigrammi citati nel messaggio A Toshio Kido, identificati dall’autore come «mottetti senza musica» e presentati come haiku di provenienza italiana (più precisamente senese uno e piemontese l’altro).
Strettamente legato all’occasione da cui nascono i testi della raccolta è poi l’impiego di altre lingue accanto all’italiano: non solo il francese, presente in proporzioni quasi paragonabili e vera e propria seconda lingua del poeta, ma anche il francese antico impiegato in alcuni passi di
Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie, evidente eredità dell’esercizio stilistico compiuto per il «fableau» del Dit du sord et muet. Coerente all’impostazione ideologica dell’opera è anche la presenza rilevante del latino, non solo scelto per il titolo della raccolta, ma impiegato anche per estesi passi all’interno dei testi. Nel messaggio Ai combattenti italiani oltremare, d’Annunzio afferma che «parlare latino bisogna» e che anche «le nostre armi parlano il più robusto e aguzzo latino», soffermandosi poi sul significato dell’esclamazione di Corrado Brando e del proverbio «Semper aliquid novi Africa affert», che si vanta di avere personalmente «ritrovato a studio di rarità», offrendolo ora ai soldati italiani.
Ultima lingua ricorrente nella raccolta – e unica estranea alla radice latina – è l’inglese, impiegato sia nelle già commentate citazioni da Swinburne, sia nel lungo brano estratto dal discorso pronunciato da d’Annunzio in occasione del conferimento della
military cross da parte del Re d’Inghilterra (Non dolet Arria dixit).
Al di là dei tratti di plurilinguismo e della particolarità del primo testo della raccolta, si può dire che nell’opera prevalga quello stile retorico e magniloquente ampiamente sperimentato da d’Annunzio nel lungo corso della sua produzione politica in poesia e in prosa, dalle
Odi navali e L’Armata d’Italia, alle canzoni di Merope e Asterope, ai discorsi e interventi nati in occasione della prima guerra mondiale e dell’impresa fiumana. La sintassi, prevalentemente semplice, appare mossa da frequenti esclamative e interrogative retoriche e si fonda soprattutto sull’impiego di strutture parallelistiche e anaforiche. In alcuni casi, la presenza di questo genere di ripetizioni va ricondotta al consueto ricorso a espedienti retorici biblici e forme della religiosità cristiana, in linea con l’idea di una guerra santa. Per fare un solo esempio eclatante si possono leggere le parole celebrative rivolte a Mussolini in Adua

Sii lodato tu che riesci a infondere nella nostra gente per troppo tempo inerte la volontà di questo compimento. Sii lodato tu che tanti secoli senza gloria guerriera compisci con la composta bellezza di questo assalto e di questo acquisto. Per te oggi la nazione trae un respiro dal profondo. E tutto è vivo, tutto respira. Tutto ha un anelito fatale.

L’artificiosità che contraddistingue questo genere di prosa, senz’altro un po’ indigesta all’orecchio moderno, corrisponde in realtà, come si diceva, a una certa sincerità sentimentale e ideologica da parte dell’autore. L’intervento dannunziano a sostegno della campagna fascista in Etiopia, cioè, non rappresenta una scelta servile o opportunistica, ma la conseguenza autentica di una parte della sua personalità e l’espressione di una sua personale visione politica. È noto infatti che i rapporti tra d’Annunzio e Mussolini furono tutt’altro che semplici, specie nei reciproci ruoli di forza. Sin dall’inizio Mussolini mostrò un certo timore nei confronti di d’Annunzio, riconoscendo in lui, se non proprio un concorrente o un nemico, certo un elemento da neutralizzare e tenere sotto controllo: da cui l’isolamento del poeta nella gabbia dorata del Vittoriale (sotto lo sguardo di Giovanni Rizzo), l’imponente Edizione nazionale delle sue opere e l’accondiscendenza nei confronti delle sue più disparate e insistenti richieste. Da parte sua, per quanto rabbonito dai favoritismi ricevuti, d’Annunzio provava per Mussolini una sincera antipatia, considerandolo un mediocre parvenu che non aveva saputo onorare la sua opera e la sua visione politica nel primo dopoguerra. Anche nei confronti della campagna africana, come si è accennato, d’Annunzio nutrì in un primo momento evidenti riserve, considerandola un’iniziativa minore di carattere meramente imperialista. Solo in un secondo momento l’opposizione del governo di Londra lo portò a cambiare opinione, riaccendendo la sua antica avversione nei confronti dell’Inghilterra e il mai sopito spirito nazionalista. In questa prospettiva, l’adesione dannunziana alla guerra d’Etiopia appare perfettamente coerente con la sua precedente esperienza biografico-letteraria, con il suo pensiero politico di sempre e con il suo modo di intendere i rapporti tra le nazioni e il ruolo storico di alcune di esse. La rivalutazione dell’amico-nemico a capo dello stato, perciò, si spiega semmai con il riconoscimento dei propri ideali nel suo operato politico del 1935-1936: finalmente Mussolini si dimostrava un patriota e un uomo d’azione in grado di guidare la rinascita politica e morale dell’Italia, nel segno del suo glorioso passato e del suo «nobile sangue latino». Per questo in occasione della guerra d’Etiopia d’Annunzio scelse – per la prima (e unica) volta – di accogliere l’invito del Duce ad appoggiare l’azione politica del regime, senza in nessun modo tradire i propri ideali.
Il sostegno di d’Annunzio, del resto, si inserisce anche nel quadro dello straordinario successo ed entusiasmo suscitato dalla campagna militare di Mussolini. Anche se la conquista dell’Etiopia si sarebbe rivelata nei fatti effimera e di scarso rilievo, la propaganda fascista fu in grado di presentare l’evento come la conquista di quel «posto al sole» a lungo cercato dai governi precedenti (dalla disfatta di Adua alla guerra di Libia) e la definitiva affermazione della potenza imperiale italiana. Per questo la campagna africana ottenne un consenso ampio e trasversale da parte dell’opinione pubblica, suscitando un comune moto di orgoglio nazionale in fascisti e non, nelle masse come nelle
élites. Sotto questo profilo, dunque, il favore di d’Annunzio può forse essere visto anche come l’ultimo episodio di quella sua innata capacità di percepire e interpretare l’opinione pubblica e il sentimento popolare.
Purtroppo,
Teneo te Africa rappresentò anche la testimonianza dell’ultimo scacco subito dal poeta sul piano politico. Non solo il suo messaggio alla «sorella latina» rimase pressoché inascoltato e non si realizzò l’auspicata alleanza tra Italia e Francia, ma proprio la guerra d’Etiopia determinò una frattura definitiva tra i due paesi e l’isolamento internazionale dell’Italia, di fatto spingendo Mussolini tra le braccia di Hitler. Quale sia il significato dell’ultimo incontro col Duce alla stazione di Verona, il 30 settembre 1937, non è storicamente accertabile: che si trattasse di un estremo tentativo di metterlo in guardia nei confronti della Germania nazista o invece della definitiva accettazione di quella alleanza, certo è che la morte sopraggiunta pochi mesi dopo impedì a d’Annunzio di assistere alle amare conseguenze di quelle scelte e allo scoppio della seconda guerra mondiale.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni apparse in vita

Gabriele d’Annunzio, Teneo te Africa. La seconda delle gesta d’oltremare, Milano-Verona, Mondadori (Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio), 1936.

Edizioni commentate

Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori (I classici contemporanei italiani), 1947-1950, 3 voll.
Gabriele d’Annunzio,
Prose di ricerca, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori (I meridiani), 2005, 2 voll.

Bibliografia secondaria

Paolo Alatri, Ideologia e politica in d’Annunzio, in D’Annunzio a Yale, Atti del Convegno (Yale University, 26-29 marzo 1987), a cura di Paolo Valesio, Milano, Garzanti, 1989, pp. 23-34. 
Simona Costa
, D’Annunzio, Roma, Salerno Editrice, 2012. 
Simona Costa,
Tra esotismo e nazionalismo: il dannunziano amore di terre lontane, «La modernità letteraria», 2013, 6, pp. 33-45.
Renzo De Felice, Emilio Mariano (a cura di),
Carteggio D’Annunzio-Mussolini: 1918-1938, Milano, Mondadori, 1971.
Renzo De Felice, 
D’Annunzio politico: 1918-1938, Roma, Laterza, 1978. 
Renzo De Felice, Pietro Gibellini (a cura di), 
D’Annunzio politico, Atti del Convegno, Il Vittoriale, 9-10 ottobre 1985, Milano, Garzanti, 1987. 
Angelo Del Boca,
Gli Italiani in Africa orientale, 3 voll., Milano, Mondadori, 1992.
Pietro Di Pietro,
Teneo te Africa: La seconda gesta d’oltremare. D’Annunzio e la retorica dell’impero, «Humanities», III, gennaio 2014, 5, pp. 48-55.
Giovanna Tomasello,
L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Palermo, Sellerio, 2004.

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