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Stati Uniti

di Guylian Nemegeer, Enciclopedia dannunziana

D’Annunzio negli Stati Uniti: simbolo di rinascita letteraria e decadenza morale

D’Annunzio comincia ad affermarsi negli Stati Uniti nel 1893 con la pubblicazione a New York del volume Italian Lyrists of Today, un’antologia critica curata dall’intellettuale britannico George Arthur Greene, che contiene componimenti tratti da Canto novo, Intermezzo di rime e La chimera. Nell’introduzione Greene presenta d’Annunzio come il più famoso e il più meritevole esponente della rinascita della poesia italiana postunitaria. Secondo Greene, d’Annunzio non è solo il protagonista della letteratura italiana dell’epoca, ma ha persino il potenziale di diventare uno dei grandi nomi della letteratura mondiale (Greene 1893, p. XXIX). Nel profilo biografico che apre la sezione del volume dedicata all’opera dannunziana, Greene presenta l’autore al pubblico americano attraverso un autoritratto che era stato originariamente destinato al pubblico francese, e che d’Annunzio stesso aveva fornito al traduttore Georges Hérelle in una lettera del 14 novembre 1892. Tale autoritratto, che sottolinea l’influenza della pittura rinascimentale e di Giosuè Carducci sulla poetica dell’autore, viene poi diffuso presso i critici e il pubblico francesi da Amedée Pigeon, un amico di Hérelle, nell’articolo Gabriele D’Annunzio poète et romancier italien («Revue Hebdomadaire», 24 giugno 1893). La presenza dell’articolo francese nel volume del critico inglese attesta che la ricezione di d’Annunzio negli USA passa fin da subito attraverso un filtro europeo, in particolare un filtro inglese e francese.
In seguito, traduzioni integrali delle opere dannunziane appaiono a intervalli regolari sul mercato americano. Nel 1896, la casa editrice Herbert S. Stone & Company di Chicago pubblica la prima traduzione della prosa dannunziana, ovvero il volume
Episcopo & Company, tradotto da Myrta Leonora Jones. Questa traduzione è seguita da una serie di romanzi pubblicati da George H. Richmond a New York: The Triumph of Death (1897) e The Intruder (1898), tradotti da Arthur Hornblow, The Maidens of the Rocks (1898), tradotto da Annetta Halliday-Antona e Giuseppe Antona, e The Child of Pleasure (1898), tradotto da Georgina Harding. La mediazione francese si manifesta anche in queste opere. Per esempio, Jones, nell’introduzione al volume Episcopo & Company, in cui propone un ritratto di d’Annunzio e della sua opera ad uso del pubblico americano, esordisce accennando proprio all’aura che circonda d’Annunzio in Francia. Pertanto, leggendo tra le righe, si presume che la percezione francese di d’Annunzio possa avere influenzato in qualche misura la traduzione. L’intertesto francese si manifesta tuttavia anche in modi più sottili. Per esempio, Jones (1896, p. VI) presenta d’Annunzio come «the Romantic poet of the Italian Renaissance», la cui opera rappresenta «a fresh blossoming of that genius whose bright smile has so often warmed our hearts». Queste formule riprendono e traducono quelle usate nell’articolo “La Renaissance Latine. Gabriele D’Annunzio: Poèmes et Romans” (Revue des deux mondes), con cui il critico francese Eugène-Melchior De Vogüé aveva lodato d’Annunzio nel 1895 come protagonista della rinascita letteraria e culturale nelle nazioni neolatine in Europa.
Quindi, le prime traduzioni negli Stati Uniti sono motivate dal prestigio di d’Annunzio in Francia e dal suo ruolo di protagonista nel rinnovamento letterario della fin-de-siècle. Tuttavia, l’arrivo di d’Annunzio negli Stati Uniti porta con sé anche una componente più negativa, poiché, insieme ai valori della rinascita, l’opera dell’autore viene da subito inserita in un altro paradigma interpretativo, quello della decadenza. Questo paradigma si fonda sulla morbosità e la degenerazione che agli occhi degli USA attraversano la cultura sudeuropea e quella italiana in particolare, e si afferma all’interno di un dibattito autoreferenziale della cultura americana in cui la lettura dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi prodotti culturali diventa un modo per affermare quali valori devono essere recuperati o rifiutati dall’America stessa. Quindi, la figura di d’Annunzio va a inserirsi nella più ampia rappresentazione che negli Stati Uniti si fa degli italiani. L’autore vive in un periodo in cui due modalità di contatto tra l’Italia e gli Stati Uniti producono due interpretazioni divergenti dell’Italia. Da un lato, verso la fine dell’Ottocento, riallacciandosi al prestigio dei
grand tours aristocratici, un viaggio in Italia diventa un rito di passaggio fondamentale nella formazione estetica e culturale della borghesia americana. Dall’altro lato, tra il 1880 e il 1921, gli Stati Uniti sono tra le destinazioni principali dell’emigrazione italiana, in particolare tra le classi medio-basse e basse che perseguono il proprio sogno americano. Le due modalità di contatto generano un discorso ambivalente sull’Italia e sugli Italiani, oscillando tra immagini romantiche e idealizzate e visioni nativiste e dissacranti.
Il confronto con l’Italia e gli Italiani genera riflessioni sull’identità e la moralità statunitensi. In tal modo, la nazione italiana viene percepita come contro-immagine, come nazione che possiede aspetti rigeneranti e degeneranti sconosciuti in America. Da un lato, nell’immaginario pubblico, l’Italia rappresenta l’eredità classica e rinascimentale, la nazione popolata da individui dotati da sensibilità artistica e da creatività. Questa immagine è quella romantica e idealizzata: l’Italia come paese in cui il passato persiste nel presente e dove l’ozio rappresenta un’alternativa allettante alla moralità puritana e borghese degli Stati Uniti (e alla moralità vittoriana in Inghilterra) (Cosco 2003) . Questa rappresentazione emerge nella prima edizione in lingua inglese de
Il piacere, pubblicata come The Child of Pleasure in Inghilterra e negli Stati Uniti nel 1898. Il libro riprende il titolo (L’enfant de volupté) e la struttura della traduzione francese fatta da Hérelle, e contiene un’introduzione a cura di Arthur Symons, teorico inglese del decadentismo e del simbolismo. Qui Symons, ispirandosi alla teoria estetica di Walter Pater proposta in The Renaissance (1873), attinge ai topoi della contro-immagine romantica, rappresentando d’Annunzio come autore eccezionalmente italiano, la cui ammirazione per la bellezza delle sensazioni trascende i limiti della moralità e lo rende simile agli Italiani del Rinascimento: «The Italy of the Renaissance cultivated personalities as we cultivate orchids. […] To him, as to the men of the Renaissance, moral qualities are variable things, to be judged only by aesthetic rules» (Symons 1898, pp. VI-VIII).
Se l’introduzione a
The Child of Pleasure illustra chiaramente la presenza della contro-immagine romantica, il testo allude a una questione centrale nel discorso dei difensori della moralità borghese. Questi ultimi contrastano la visione romantica attraverso l’enfasi sugli elementi più cupi, ossia i vizi del Continente Antico, i quali sono però già identificabili nella rappresentazione romantica che emerge dall’introduzione di Arthur Symons. Infatti, la moralità italiana rinascimentale implica indolenza e dedizione ai piaceri sensuali. Questi vizi comportano immagini di povertà e di decadenza, di individui machiavellici e casanoviani (Simonini, 2015). Questa visione della moralità italiana era quella del potere, delle istituzioni statali, e la sua pervasività è evidente ad esempio nella storia editoriale di The Triumph of Death e The Child of Pleasure. Quest’ultimo diventa così sito di contestazione e nodo di articolazione sia della moralità dominante che della resistenza ad essa. Entrambi i romanzi risultano pesantemente censurati, perché Harding e Hornblow dovettero tagliare i passaggi a contenuto sessuale che avrebbero potuto offendere la moralità borghese. Infatti, le leggi sull’oscenità che furono imposte nel 1873 dal Congresso degli Stati Uniti grazie all’attivismo anti-vizio di Anthony Comstock (1844-1915), fondatore della New York Society for the Suppression of Vice, rendevano illegale qualsiasi uso dallo United States Postal Service per inviare oggetti considerati immorali come contraccettivi, giocattoli sessuali e libri a contenuto erotico. Nonostante la censura, Comstock intenterà comunque causa contro l’editore George H. Richmond nel 1897 perché giudica oscena la pubblicazione di The Triumph of Death (Nemegeer, Santi 2023, p. 279). In questo contesto, Il New York Times (NYT) del 16 aprile 1897 segnala che un magistrato repubblicano, Leroy B. Crane, avrebbe affermato a proposito del romanzo che «if a man were to put that book into the hands of my daughter, I should not wait for the law, I would shoot him» (NYT, “Offended at the Magistrate”, p. 5). Tuttavia, tale censura non limita la diffusione dell’opera dannunziana, anzi la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità e la polemica intorno al Trionfo aumenta significativamente la notorietà di d’Annunzio negli Stati Uniti.
Con l’aprirsi del nuovo millennio, le traduzioni dannunziane appaiono quasi in contemporanea alla pubblicazione originale in Italia. Infatti il mercato americano vede già nel 1900 la pubblicazione de
Il fuoco sotto il titolo The Flame of Life, tradotto da Kassandra Vivaria, e nel 1902 della Francesca da Rimini e La Gioconda, tradotte da Arthur Symons, e de La città morta, tradotta come The Dead City da Gaetano Ettore Raffaele Mantellini. Quindi, se d’Annunzio arriva dapprima come poeta, poi come prosatore, all’inizio del Novecento il pubblico americano lo conosce anche in quanto drammaturgo. Le traduzioni immediate di queste opere sono collegate a un motivo importante della notorietà di d’Annunzio negli USA, ossia la sua relazione decennale, tra il 1894 e il 1904, con l’attrice Eleonora Duse. La notorietà della Duse precede quella di d’Annunzio, poiché l’attrice aveva già effettuato due tournée negli Stati Uniti prima del 1902, ovvero nel 1893 e 1896, delle quali soprattutto il grande successo al botteghino della tournée del 1896 le aveva conferito uno status di celebrità (Londré 1985). Durante la successiva stagione teatrale europea, Duse incontra ancora un grande successo, con rappresentazioni a Berlino, Vienna e Trieste, dove porta in scena Francesca da Rimini e La Gioconda. Sulla scia del successo del tour europeo, Duse sceglie per il suo terzo tour americano un repertorio che consiste solamente in opere dannunziane: La Gioconda, La città morta e Francesca Da Rimini, ovvero le tre opere che sul mercato americano vengono pubblicate anche in volume nel 1902.
Le prime rappresentazioni a Boston e a New York nell’autunno del 1902 ricevono un’accoglienza tiepida dal pubblico e dai critici, e impostano il tono negativo delle recensioni per l’intero tour. Le critiche riguardano soprattutto il contenuto immorale delle opere, ovvero l’adulterio in La Gioconda e l’incesto in La città morta. Questi giudizi negativi non vengono solo espressi dalla critica letteraria, ma anche dai lettori meno specialistici. Si veda, tra i tanti esempi, una lettera all’editore del NYT (7 novembre 1902, “D’Annunzio’s Plays”, p. 8) in cui un lettore caratterizza La Gioconda come «the play of the degenerate Italian», permeata da «erotic nastiness». Inoltre, lo stesso lettore commenta con stupore il prezzo di un biglietto per un’esibizione della Duse, ovvero $3,50, e domanda indignato: «Should prices increase with repulsiveness?». Man mano che avanza il tour, la lettura critica in termini di decadenza e immoralità diventa sempre più insistente. Questo dato spinge i manager americani della Duse a pubblicare una giustificazione dell’intento delle opere dannunziane e del tour dell’attrice. Sulle pagine del New York Herald del 9 novembre 1902, si legge che la Duse considera il tour come parte di una missione per l’Italia, come mezzo per mostrare la vitalità e la rinascita della sua cultura all’indomani dell’unità (Londré 1985, p. 67). Tuttavia, le affermazioni della Duse in difesa dell’opera dannunziana non riescono a cambiare il tono della critica americana.

Un apprezzamento più positivo, seppur ancora ambiguo, si trova nel volume Living Dramatists (curato da Oscar Hermann, New York, 1905), il quale si propone di offrire agli studenti e agli appassionati del teatro un’introduzione ad alcuni dei massimi rappresentanti dell’arte drammatica nell’Ottocento, ovvero Pinero, Ibsen e d’Annunzio. Il capitolo su d’Annunzio è steso da J.M. Sheehan (1905, p. 117), il quale lo definisce il principale drammaturgo dell’Italia moderna. L’analisi dell’opera dannunziana avviene tramite un confronto con Shakespeare e Dante. Secondo Sheehan, Dante unisce l’essenza italiana a una percezione universale e una profonda comprensione della vita, mentre d’Annunzio rappresenta un genio totalmente greco-latino, privo della simpatia universale e dell’empatia profonda che si riscontra in Shakespeare. Secondo quanto riporta Sheehan, questo difetto di d’Annunzio ha anche corrotto l’arte della Duse: «For our part, we believe that Duse’s art has been permanently injured by the influence of d’Annunzio; she has forever lost her former sanity and universality» (p. 124). Quello che emerge dal capitolo di Sheehan, è un’ambigua attitudine di disgusto e ammirazione nei confronti di d’Annunzio. Sebbene Sheehan critichi il carattere dell’autore, descritto come «gruesome, morbid, absolutely disgusting» (p. 155), riconosce il suo valore letterario, che è particolarmente evidente nel suo dominio della lingua italiana, simile a quello di Dante. In chiusura del suo capitolo, nonostante le sue riserve morali, Sheehan esorta i suoi lettori a valorizzare il contributo di d’Annunzio al teatro italiano. Nonostante i gusti differenti del pubblico americano, la sua opera va considerata come l’indizio maggiore della rinascita culturale dell’Italia: «It is also well to note that if d’Annunzio is not altogether pleasing to foreigners, he has the good wishes and appreciation of a large body of his own countrymen. Their standards are not our standards, but our tastes should be broad, catholic and universal, and our sympathies as boundless as the unconfined seas. We should therefore accept what is given and hope that a new dawn of drama, coincident with the stirring of the springs of national life, is opening up for Italy in the person of Gabriele d’Annunzio» (p. 187).
Insomma, all’altezza del 1902, le traduzioni si inseriscono nel contesto della più ampia attenzione pubblicistica per la relazione tra d’Annunzio e Duse, una storia che continuerà ad affascinare i lettori americani, come si deduce da biografie come
The true story of Eleonora Duse’s love affair with d’Annunzio di Luigi Del Riccio (Kansas, 1924), Age cannot wither: the story of Duse and d’Annunzio di Bertita Harding (Philadelphia, 1947) e Wingless Victory: a biography of Gabriele d’Annunzio and Eleonora Duse di Frances Winwar (New York, 1956). L’attenzione per la loro vicenda amorosa inaugura una tendenza critica che si rivela poi molto persistente nel discorso americano su d’Annunzio. Infatti, i giornali e il pubblico americano seguono con passione e stupore il rapporto tra l’attrice e l’autore, facendo di quest’ultimo un protagonista nelle colonne di gossip dell’epoca. Ne consegue, da un lato, che a quel momento la fortuna critica di d’Annunzio comincia a prendere la forma di una massa amorfa di aneddoti e pettegolezzi (Fasoli 2018, p. 42). Dall’altro lato, il pubblico americano incontra sempre più spesso una lettura di d’Annunzio in termini di decadenza, come poeta vizioso, astuto e ossessionato dal sesso. Questa rappresentazione fa di lui l’incarnazione emblematica dell’immagine stereotipata dell’italiano come personaggio machiavellico e casanoviano. Infatti, nell’immaginario popolare americano, gli italiani venivano descritti come sporchi, ignoranti e sovversivi, tipicamente inclini alla violenza e all’immoralità (Guglielmo, Salerno 2012).
In chiusura di questa sezione occorre tuttavia sottolineare che, se l’avversione nei confronti di d’Annunzio si può in parte ricondurre al generale clima di odio nei confronti degli italiani a cavallo dei due secoli, l’autore fu allo stesso tempo un modello per le prime generazioni d’immigrati italiani in America in cerca di modelli di italianità (Scarlini 2008).

La fortuna politica di d’Annunzio dalla fin-de-siècle al secondo dopoguerra

L’approccio aneddotico e sensazionalistico ha anche chiare ripercussioni sulla ricezione politica di d’Annunzio a partire dagli anni ’20. Per capirlo, occorre prima sottolineare il ruolo politico dell’autore negli Stati Uniti a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento. Infatti, dal 1898, d’Annunzio collabora ad intervalli irregolari come commentatore politico sui giornali americani, soprattutto quelli della Hearst Corporation, un’importante società mediatica fondata da William Randolph Hearst nel 1887 (Santi 2022). Negli articoli pubblicati fino alla prima guerra mondiale su The New York Journal, North American Review e The New York American, d’Annunzio presenta l’attualità socio-politica dell’Italia ai lettori americani, commentando, per esempio, le rivolte popolari contro il governo italiano a Firenze nel maggio del 1898, la propria esperienza parlamentare, la politica estera della nazione a cavallo dei due secoli e l’importanza storica della guerra italo-turca (1911-1912) (Smith 1991). In questi contributi, d’Annunzio enfatizza il ruolo del militarismo, del potere navale e dell’espansione nella auspicata rinascita nazionale, profilandosi così come esponente di punta del nazionalismo e della destra italiana (Nemegeer, Santi 2023, pp. 269-271).
La presenza politica di d’Annunzio diventa più marcata durante la prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume. Prima dell’entrata dell’Italia in guerra, il
NYT riporta il 22 ottobre 1914, in un articolo dal titolo «German ban put on hostile poets», che il governo tedesco ha deciso di boicottare d’Annunzio e Maeterlinck, bandendo i loro scritti dalle biblioteche e dalle librerie. Benché il motivo ufficiale di questa misura fosse la presunta scarsa qualità della produzione letteraria dei due autori, l’articolo suggerisce che in realtà sia una conseguenza della marcata ostilità che i due poeti hanno mostrato nei confronti della Germania dallo scoppio della guerra.
Durante la guerra, i giornali americani seguono attentamente i discorsi pronunciati da d’Annunzio nel
maggio radioso del 1915, le sue imprese di guerra e i discorsi del 1919 durante la conferenza di pace a Versailles, momento in cui d’Annunzio si scaglia contro la politica del presidente Wilson e, creando il mito della vittoria mutilata, si mette a capo di una rivolta popolare che porta infine all’occupazione di Fiume nel settembre del 1919. I rapporti più diretti tra gli Stati Uniti e d’Annunzio durante il periodo precedente la conferenza di pace risalgono al biennio 1917-1918 quando gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania (4 aprile 1917) e all’Austria-Ungheria (7 dicembre 1917). In questo contesto, d’Annunzio fa direttamente appello agli Stati Uniti, esprimendo la sua opinione in merito al ruolo politico della nazione americana nella modernità. L’8 aprile 1917 il NYT pubblica una dichiarazione che d’Annunzio ha redatto per The Associated Press, una delle maggiori agenzie di stampa nel mondo, in cui il poeta-soldato celebra l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Il poeta-soldato ivi argomenta che, con la partecipazione al conflitto, gli Stati Uniti stanno finalmente realizzando la loro missione internazionale in quanto guardiani della libertà, come concepita nell’Ottocento da Abraham Lincoln (1809-1865). Inoltre, il 6 dicembre 1917, lo stesso giornale pubblica un’intervista di d’Annunzio con un suo corrispondente, Wythe Williams. In questa intervista, d’Annunzio si fa portavoce dell’Italia in vista della riunione del Congresso americano del giorno successivo, sottolineando l’urgenza dell’intervento americano contro l’imperialismo violento del nemico comune, l’impero austro-ungarico. In questi scritti, d’Annunzio sintonizza la sua retorica con l’autopromozione internazionale degli Stati Uniti. Infatti, nel 1917 il Presidente Wilson aveva creato il Committee on Public Information (CPI), ossia un ufficio di propaganda che provava a popolarizzare un’immagine degli USA come nazione che difende i valori della pace in tutto il mondo e come guardiani della libertà delle nazioni oppresse contro le potenze imperialiste (Rossini 1992, p. 76). In seguito ai suoi scritti del 1917, d’Annunzio diventa una figura di riferimento per la propaganda del CPI. Per esempio, nel giugno del 1918, Charles Merriam, alto commissario del CPI in Italia, invita d’Annunzio, a nome del governo statunitense, a stendere un’ode celebrativa dell’intervento americano, che viene poi pubblicata in Italia sul Corriere della sera del 4 luglio 1918.
Come anticipato, durante la conferenza di pace si manifesta una divergenza tra la politica di Wilson e le aspirazioni di d’Annunzio. Il presidente è costretto a negoziare (e soddisfare) gli interessi di Regno Unito, Francia, e Giappone, a scapito delle rivendicazioni territoriali dei paesi più deboli, tra cui l’Italia, a cui viene negata la maggior parte delle richieste, ad eccezione di Trento e Trieste. Gli Stati Uniti adottano il principio di nazionalità per definire i nuovi confini europei; tuttavia, lo stesso principio ispira le rivendicazioni dei nazionalisti italiani. Ciò porta d’Annunzio e la parte delusa dell’esercito e dell’opinione pubblica a reclamare Fiume come una legittima parte dell’Italia (Nemegeer, Santi 2023, pp. 275-277). La città di Fiume attira anche l’attenzione della stampa americana e diventa parte di un dibattito ideologico interno, soprattutto riguardo alla domanda se gli Stati Uniti abbiano il diritto di interferire nelle dispute europee. Per esempio, l’architetto americano Whitney Warren, tra i più ferventi sostenitori della riconquista italiana, raggiunge d’Annunzio a Fiume, dove promuove l’annessione della città all’Italia in veste di rappresentante del governo di Fiume presso il governo americano. Secondo Warren, la responsabilità della crisi ricade sugli Stati Uniti, sul presidente Wilson e la sua politica estera durante la conferenza di pace. In questo contesto, per Warren, d’Annunzio diventa il protagonista attraverso il quale denunciare l’ipocrisia americana e difendere il principio di nazionalità contro l’imperialismo (Santi 2022, pp. 362-363). Secondo d’Annunzio, gli Stati Uniti sotto la presidenza di Wilson hanno tradito il loro ruolo di nazione custode della libertà delle nazioni più deboli. L’influenza delle grandi potenze mondiali e i rapporti tra di esse sono una questione centrale anche durante l’occupazione di Fiume, quando d’Annunzio progetta di fondare la Lega di Fiume (gennaio 1920), un’alleanza di nazioni oppresse dall’imperialismo e in opposizione alla Lega delle Nazioni di Wilson.
In seguito, con la conclusione dell’impresa di Fiume, d’Annunzio si trasferisce a Gardone. Da lì, su invito di Hearst, partecipa come commentatore italiano alla Conferenza di Washington sul disarmo navale (1921-1922). Nel corso dei mesi durante cui si svolge la Conferenza, d’Annunzio si rivolge al pubblico americano attraverso sei articoli pubblicati sui giornali di Hearst. Sotto la guida di Warren G. Harding, gli Stati Uniti si distanziano dalla Lega delle Nazioni, e il Senato statunitense non ratifica il Trattato di Versailles, nonostante Wilson e i suoi delegati abbiano avuto un ruolo di rilievo a Versailles. In questo contesto si inseriscono gli articoli di d’Annunzio che auspicano un’alleanza anti-imperialista tra l’Italia e gli Stati Uniti, in cui quest’ultimi si oppongano al Trattato di Versailles, firmato da Wilson, contrastando il colonialismo europeo del Regno Unito e della Francia e difendendo l’Italia e le altre nazioni oppresse. Quindi tra il 1921 e il 1922, in seguito alla fine dell’era wilsoniana, d’Annunzio ribadisce l’importanza di un’alleanza tra Italia e Stati Uniti in nome della difesa della libertà contro l’asservimento a potenze straniere.
Dopo la Conferenza di Washington, il ruolo politico indipendente di d’Annunzio si esaurisce progressivamente, mentre negli anni successivi l’attenzione su di lui passa attraverso il filtro del discorso su Benito Mussolini e il Fascismo. Nei primi anni del Ventennio, il ritiro di d’Annunzio a Gardone incuriosisce la stampa americana, che si chiede se l’autore abbia abbandonato definitivamente la vita pubblica o se intenda ancora competere per il potere. Il 23 agosto 1925, il
NYT pubblica un articolo di Fitzhugh Lee Minnigerode, ex colonello dell’esercito americano e corrispondente politico in Europa di The Times Magazine, in cui osserva che la reclusione di d’Annunzio al Vittoriale genera un diffuso senso di confusione che ruota principalmente attorno a due domande: «Is d’Annunzio planning a gigantic political coup? Or is he merely deep in quiet literary labor?». In questa citazione occorre sottolineare l’uso dell’avverbio merely (meramente) in relazione all’attività letteraria, come se la letteratura fosse una parte minore e del tutto marginale della carriera di d’Annunzio. L’uso di questo avverbio rivela infatti un aspetto cruciale della fortuna statunitense dell’autore negli Stati Uniti verso la metà degli anni ’20. In quel periodo, nell’immaginario pubblico, l’autore letterario viene relegato in secondo piano a favore dell’uomo (politico), creando e consolidando l’idea che la sua esperienza come uomo pubblico sia di gran lunga più interessante delle sue opere letterarie. Nel porsi le domande menzionate sopra il giornalista mostra che le opinioni su d’Annunzio e su quali siano le sue intenzioni politiche sono in quel momento divergenti. Infatti, da un lato presenta come possibile uno scenario in cui d’Annunzio dopo l’impresa di Fiume ha perso il momentum e pertanto non ha ulteriori ambizioni politiche; dall’altro, suggerisce che, se d’Annunzio cercasse mai il potere governativo, scatenerebbe una battaglia epica tra due «giants» della politica.
Nell’agosto del 1925, tuttavia, le speculazioni da parte di Minnigerode in merito a uno scontro tra d’Annunzio e Mussolini sono già un’eccezione nel dibattito statunitense. Infatti la percezione del rapporto tra d’Annunzio e il Fascismo cambia radicalmente dopo la visita di Benito Mussolini al Vittoriale nel maggio del 1925. Da quel momento in avanti, la stampa americana comincia a raffigurare sempre più spesso d’Annunzio come fascista o a sottolineare la sua simpatia verso Mussolini. Ad esempio, in un articolo commemorativo su d’Annunzio pubblicato il giorno successivo alla morte dell’autore (ovvero il 2 marzo 1938), Arnaldo Cortesi, corrispondente del
NYT in Italia, lo ritrae come un fervente sostenitore del fascismo, focalizzando l’attenzione dei lettori soprattutto sul presunto sostegno a un’auspicata alleanza del regime fascista con la Germania nazista. Secondo quanto riferito da Cortesi, al ritorno di Mussolini dalla sua visita a Hitler nell’ottobre del 1936, d’Annunzio si sarebbe unito agli ampi elogi nazionali per il Duce e, durante una vivace manifestazione a Verona in onore di Mussolini, il poeta avrebbe espresso il suo sostegno all’alleanza abbracciando calorosamente il leader fascista sul binario della stazione.
Tale lettura dei rapporti di d’Annunzio con il Fascismo ha profondamente influenzato la percezione popolare dell’autore, dal momento che la condanna morale del Fascismo portava con sé la denigrazione di d’Annunzio. Nel trattare la politica dannunziana, le biografie e gli studi hanno spesso adottato lo stesso approccio aneddotico e sensazionalistico affermatosi nel racconto del rapporto d’Annunzio-Duse, contribuendo così a consolidare l’immagine di d’Annunzio come una figura degenerata e corrotta. L’esempio più emblematico in questo senso è il volume
Gabriele D’Annunzio: The Warrior Bard di Gerald Griffin, pacifista e antifascista. Il volume è pubblicato nel Regno Unito nel 1935 all’interno della propaganda antifascista, che aveva individuato in d’Annunzio il suo bersaglio preferito a partire dal 1925, e poi viene ripubblicato negli Stati Uniti nel 1970. Griffin si concentra principalmente sul periodo bellico e deride apertamente la figura di d’Annunzio. Il primo capitolo attesta già quanto Griffin ribadisca l’immagine corrotta associata al poeta. In questo capitolo Griffin si prefigge di analizzare lo stato mentale di d’Annunzio, ritraendolo non solo come un egoista disposto a sfruttare gli altri per il proprio vantaggio, ma anche come sessuomane che vive una vita improntata all’accoppiamento e allo sfruttamento delle donne. Nella sua discussione dell’Impresa di Fiume, invece, Griffin si focalizza sui rapporti tra d’Annunzio e il Fascismo riprendendo l’analisi di d’Annunzio come precursore diretto di Mussolini e come ideologo del Fascismo, proposta da Antonio Aniante nel volume Gabriel D’Annunzio: Saint-Jean du Fascisme, pubblicato a Parigi nel 1934. Ciò dimostra ancora una volta che la ricezione di d’Annunzio negli Stati Uniti è plasmata anche dall’importazione di resoconti stranieri, principalmente britannici e francesi, nel mercato americano, che rafforzano i preconcetti americani. Infatti, come Aniante, Griffin definisce d’Annunzio il San Giovanni Battista del Fascismo, e il suo giudizio su d’Annunzio come precursore non solo di Mussolini, ma anche di Hitler, è estremamente severo. Vale la pena riportare in questa sede un estratto in quanto è esemplare dell’approccio alla figura di d’Annunzio in questi anni: 

D’Annunzio will also go down to posterity as the Saint John the Baptist of Fascism. He blazed the trail for Mussolini by his daring raid on Fiume in defiance of the Entente–he made Fascism possible. His scattered legionaries were the nuclei of the men who marched on Rome. […] But the repercussions of the Fiume raid did not merely entail the emergence of Fascism. D’Annunzio was the precursor of Hitler (which makes me almost wish that d’Annunzio had never been born!), for he was the causa causae causati (p. 6).

Negli ultimi decenni è stato rivalutato il ruolo dell’impresa di Fiume nella genealogia del Fascismo. Una delle prime riconsiderazioni anglofone del ruolo storico dell’Impresa di Fiume e della sua connessione con il fascismo è The First Duce: D’Annunzio at Fiume di Michael Arthur Ledeen (1977). Ledeen nota nell’introduzione che d’Annunzio è spesso stato descritto come il San Giovanni Battista del Fascismo italiano, e sostiene che questa formula non è scorretta se viene intesa non in termini di connivenza, ma in termini di risonanza stilistica tra d’Annunzio e il Fascismo, ovvero come modo di fare politica di massa. Infatti, per quanto riguarda l’ideologia, Ledeen sottolinea le fondamentali differenze ideologiche tra d’Annunzio e il Fascismo, che emergono soprattutto dalla Costituzione di Fiume (Carta del Carnaro), redatta da d’Annunzio e De Ambris, e dall’impegno di d’Annunzio nell’organizzare la Lega di Fiume. Pertanto, Ledeen sostiene che è impossibile affermare che ci fosse una significativa continuità ideologica tra la Fiume di d’Annunzio e l’Italia di Mussolini. Tuttavia, nonostante questa rilettura dell’Impresa di Fiume, l’argomento di Ledeen non trova risonanza nell’immaginario pubblico. Questo risultato sembra essere dovuto al fatto che nella sua discussione dell’impresa di Fiume Ledeen propone una narrazione piuttosto aneddotica degli eventi, che monopolizza l’attenzione dei lettori e che ruota attorno alla continuità performativa tra d’Annunzio e Mussolini. Quello che rimane impresso nella memoria collettiva americana è proprio il profilo di d’Annunzio che emerge dal titolo: è Il Primo Duce, il precursore del Fascismo e di Mussolini. 

D’Annunzio post-1980: la rivalutazione letteraria e l’eredità politica

Lo stigma contro d’Annunzio in quanto fascista ha generato anche un disinteresse per le sue opere letterarie. Pertanto i lettori di lingua inglese si sono trovati costretti ad accontentarsi di traduzioni realizzate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con poche ristampe, fino al 1988, anno in cui viene pubblicato il volume Nocturne and Five Tales of Love and Death, tradotto da Raymond Rosenthal. Negli anni successivi vengono realizzate nuove traduzioni del romanzo Il fuoco, tradotto da Susan Bassnett (1991), del Notturno, tradotto da Stephen Sartarelli (2012), e de Il piacere, tradotto come Pleasure da Lara Gochin Raffaelli (2013). Inoltre, una traduzione dell’Innocente della stessa Gochin Raffaelli è in corso di pubblicazione. La disponibilità di queste nuove traduzioni svolge un ruolo cruciale nel rendere la prosa dannunziana più accessibile al pubblico americano ed è una conseguenza della reazione dell’accademia americana al disinteresse per d’Annunzio come letterato a partire dal Ventennio.
Contro l’oblio dell’opera di d’Annunzio, Paolo Valesio si fa nel 1992 promotore di una rivalutazione nella sua monografia
Gabriele D’Annunzio: The Dark Flame (Yale UP). Secondo Valesio, era giunto il momento di superare ciò che chiamava «the most flagrant [literary injustice] of the twentieth century in Italy and perhaps in all of Europe» (p. 1), ovvero la diffidenza e il disinteresse nei confronti di d’Annunzio e del suo lascito letterario dovuti alla sua associazione con il Fascismo. Valesio riteneva che un processo di rivalutazione non sarebbe stato possibile prima negli Stati Uniti poiché d’Annunzio era quasi del tutto sconosciuto (p. 2). Da un lato, le parole di Valesio fanno riferimento al persistente disinteresse dei decenni precedenti nei confronti di d’Annunzio negli Stati Uniti; dall’altro lato, suggeriscono che la sua monografia si colloca all’interno di un rinnovato interesse critico per l’opera dell’autore. Tale attenzione prende avvio verso la fine degli anni ’60 in Italia e dà i suoi frutti maggiori negli Stati Uniti verso la metà degli anni ’80. Tuttavia, occorre notare che già nel 1968 vede la luce la tesi di dottorato The Poet Armed: Wagner, D’Annunzio, Shaw di Nancy Rockmore Cirillo, che esplora la convinzione condivisa da queste tre figure secondo cui l’artista agisce come profeta del rinnovamento politico-sociale. Centrale nella sua tesi è l’idea che questi artisti abbiano trasformato la loro avversione per il capitalismo borghese in una visione profetica e rivoluzionaria dell’arte, posizionando l’artista come figura messianica capace di produrre un cambiamento sociale profondo. Per quanto riguarda d’Annunzio, Cirillo sottolinea in particolare la sua interpretazione del potere artistico, che andava oltre la mera creatività, per includere una più ampia capacità di trasformare e ricreare la società. Secondo Cirillo, d’Annunzio coniò il termine ‘sforzo lirico’ per descrivere questo potere, ovvero il potere creativo innato e intuitivo dell’artista che poteva essere sfruttato come uno strumento politico rivoluzionario.
In seguito, in particolare il cinquantesimo anniversario della morte di d’Annunzio nel 1988 offre un pretesto per un’intensa attività critica. Tra il 1987 e il 1988, la critica dannunziana si arricchisce delle seguenti iniziative critiche: un numero monografico, curato da Dino S. Cervigni, della rivista
Annali di Italianistica della Notre Dame University; la prima monografia in lingua inglese ad affrontare le principali opere letterarie di d’Annunzio, intitolata Gabriele D’Annunzio, di Charles Klopp (Ohio State University); un simposio internazionale presso la Harvard University, promosso da Philip Cordaro; e il convegno D’Annunzio a Yale, tenutosi tra il 26 marzo e il 29 marzo 1897 presso la Yale University, organizzato da Paolo Valesio e con la partecipazione di studiosi come Pietro Gibellini, Paolo Alatri, Annamaria Andreoli, Lucia Re, Barbara Spackman e Jeffrey Schnapp.
Di conseguenza, l’impegno critico di Valesio si inserisce in una tendenza più ampia della critica di cui la sua monografia del 1992 rappresenta un contributo centrale. Valesio delinea un ritratto di d’Annunzio che solleva interrogativi sul suo rapporto con il Fascismo e sulla sua posizione nella storia letteraria italiana ed europea. Da un lato, secondo lo studioso, d’Annunzio è stato il primo critico del Fascismo, un atteggiamento questo che sarebbe evidente nell’uso politico della figura del
miles patiens nel Notturno (1921), nel quale rappresenta il soldato italiano come vittima e come martire (Valesio 1992, p. 119). Secondo Valesio infatti la presenza di questa figura mostra che d’Annunzio, nel 1921, aveva una consapevolezza che il pensiero fascista non ha mai sviluppato, ovvero che l’Italia, a causa degli esiti della Grande Guerra e dello sviluppo dell’impresa di Fiume, aveva perso per sempre la possibilità di affermarsi come potenza imperialista. Pertanto, il poeta sviluppa un discorso sull’Italia come martire e vittima, rappresentando così un’alternativa nazionalistica ed elegiaca al Fascismo (147). La rilettura del rapporto tra d’Annunzio e il Fascismo è in seguito oggetto di critiche da parte di Jared Becker nella sua monografia Nationalism and Culture: Gabriele D’Annunzio and Italy after the Risorgimento (1994). Quest’ultimo sostiene che la critica commette un errore nel suggerire che il contributo all’ultranazionalismo fascista da parte di d’Annunzio si sia limitato a uno stile politico, in quanto d’Annunzio aveva promosso un programma politico di socialismo nazionalista che combinava elementi di destra e di sinistra e che avrebbe costituito la base ideologica del regime (p. 3).
Dall’altro lato, Valesio considera d’Annunzio come figura centrale nella storia del modernismo letterario. Più precisamente, sviluppa questa sua teoria a partire dall’assunto che l’atteggiamento critico nei confronti di d’Annunzio dopo la seconda guerra mondiale aveva preso forma all’interno di un processo di definizione identitaria che selezionava quali fatti del passato recente ricordare oppure dimenticare. In questo contesto, la critica aveva fornito una lettura parziale di d’Annunzio come
dandy decadente che con le sue avventure militari incarnava la figura dell’artista fascista. In altre parole l’autore aveva rappresentato così tutto ciò che la cultura del secondo dopoguerra intendeva respingere. In questa rappresentazione, Valesio afferma, la critica aveva offuscato un’altra parte significativa della poetica dannunziana, ovvero la sua associazione con i pionieri del modernismo letterario quali Baudelaire, Rimbaud e Whitman, e la sua partecipazione ad una cultura cosmopolita a livello internazionale. Infatti secondo Valesio, d’Annunzio non è stato solo uno dei più grandi scrittori europei moderni, ma anche il poeta che attraverso la propria interpretazione del simbolismo ha inaugurato il modernismo letterario in Italia. La posizione di d’Annunzio nella genealogia del modernismo è ancora oggetto di dibattito, ma l’accademia (nord)americana e anglofona in generale ha il merito di aver adottato approcci meno restrittivi al modernismo nel campo dell’italianistica che permettono di immaginare un modernismo italiano che passa attraverso d’Annunzio. Infatti studi come quelli di Barbara Spackman (1989), Luca Somigli e Mario Moroni (2004), Michael Syrimis (2012), Andrea Mirabile (2014) e il numero monografico della rivista Forum Italicum, intitolato “Reawakening Beauty: Gabriele d’Annunzio’s Seduction of the Senses” (2017), curato da Lara Gochin Raffaelli e Michael Subialka, hanno messo in evidenza la posizione dell’autore tra decadentismo e modernismo e il suo contributo in una cultura transmediale e transnazionale.
Il più recente tentativo di inserire d’Annunzio in una cultura cosmopolita e internazionale è il volume collettaneo intitolato
Gabriele D’Annunzio and World Literature. Multilingualism, Translation and Reception (2023). Il volume è il risultato di uno sforzo collaborativo tra accademici del Regno Unito e gli Stati Uniti, curato da Elisa Segnini (Università di Glasgow) e Michael Subialka (UC Davis), con la partecipazione di studiosi provenienti da varie parti del mondo. Il libro rivaluta la posizione di d’Annunzio come protagonista nella letteratura mondiale, esaminando il suo utilizzo di fonti straniere, il ruolo del multilinguismo e del translinguismo nel corpus autoriale, e le controverse interpretazioni che i suoi testi hanno assunto in contesti diversi, tra cui l’Europa, il Giappone, l’Argentina, gli Stati Uniti e l’Egitto.
Benché gli studi accademici stiano rivalutando la poetica e l’eredità di d’Annunzio, come ho detto, l’accesso diretto del pubblico anglofono alle opere dannunziane è ancora limitato. Per questo motivo, il pubblico medio americano può basarsi principalmente su biografie e articoli di giornali per conoscere d’Annunzio. In questi scritti, l’autore letterario continua ad essere messo in secondo piano. Partendo dal presupposto che la rilevanza della vita di d’Annunzio superi di gran lunga la sua esperienza letteraria, spesso presentata come arcaizzante e fuori moda, l’attenzione si concentra principalmente sull’uomo e sull’attivista politico. Per quanto riguarda l’uomo, la chiave di lettura rimane quella della decadenza, del degenerato e del sessuomane, mentre per l’uomo politico, il discorso riguarda l’ultranazionalismo e i rapporti con il Fascismo. La pubblicazione più importante in questo senso è la biografia
The Pike (2013) della storica inglese Lucy Hughes-Hallett che ha il merito di aver reintrodotto d’Annunzio al pubblico inglese, americano e persino mondiale. Hughes-Hallett si concentra principalmente sull’uomo-d’Annunzio, il suo carattere e le sue azioni politiche. Ciò che emerge dal libro è la classica immagine anglosassone di d’Annunzio come un sessuomane il cui estetismo è sostanzialmente un estetismo fascista.
La biografia di Hughes-Hallett ha riscosso un notevole successo presso il pubblico e la critica americani, tuttavia ciò non esclude la presenza di alcune voci più critiche. Per esempio, nel
Sunday Book Review del NYT del primo settembre 2019, Sheri E. Berman, professoressa di scienze politiche presso il Barnard College della Columbia University, recensisce la biografia di Hughes-Hallett, criticandola per non essere riuscita ad approfondire gli aspetti politici dell’opera di d’Annunzio e della sua epoca. La recensione di Berman si apre con un accenno al contesto storico dell’Europa nella seconda parte dell’Ottocento, momento in cui si assiste a una trasformazione sia economica che politica per l’influenza del capitalismo e l’entrata delle masse nella vita politica. In questo contesto, osserva Berman, tanti intellettuali cercano rifugio nel nazionalismo alla ricerca di identità e scopo. D’Annunzio partecipa a questo movimento coltivando una forma di ultranazionalismo che esprime disgusto per il mondo moderno, il desiderio di un’era più eroica e di una rinascita dell’arte e della bellezza. Anziché soffermarsi accuratamente su questi elementi, Berman prosegue, Hughes-Hallett si focalizza invece sulla vita personale di d’Annunzio, enfatizzando i suoi numerosi affari sessuali, debiti, l’uso di droghe e la sua fascinazione per l’arredamento delle case: «He comes off less as Übermensch than as Real Housewife of Rome» (p. 19). Secondo Berman, la prospettiva avanzata da Hughes-Hallett, ossia che d’Annunzio sia l’inventore del Fascismo, non è completamente supportata storicamente. d’Annunzio è piuttosto una delle numerose figure coinvolte in quel filone della cultura e della riflessione socio-politica primonovecentesca che precede l’avvento del Fascismo in Europa. Il Fascismo come ideologia diventa attraente in tutta Europa, non solo in Italia, presentandosi come una forza credibile per risolvere i problemi urgenti di un’epoca segnata dal caos, divisioni sociali, devastazione economica e disordini politici dopo la prima guerra mondiale.
Per concludere, negli ultimi decenni l’accademia americana ha intensamente rivalutato la natura e rilevanza letteraria di d’Annunzio, nonché la dimensione europea e persino mondiale dei suoi scritti. Questa rivalutazione accademica e letteraria di d’Annunzio non raggiunge però il pubblico non specialistico. I contenuti a cui quest’ultimo ha più facilmente accesso continuano infatti ad offuscare il letterato, privilegiando un ritratto parziale dell’uomo pubblico e della sua attività politica. Tutto ciò dimostra, a mio avviso, che esiste un’importante opportunità nel mercato librario americano (e quello anglofono in generale) per un volume che offra un’approfondita contestualizzazione e lettura, fuori dagli stereotipi e censure ideologiche (ma con occhio critico), del ruolo e dell’influenza di d’Annunzio all’interno del panorama letterario, culturale e politico del suo tempo.

 

Bibliografia essenziale

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