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Sogno d’un tramonto d’autunno

di Edoardo Ripari, Enciclopedia dannunziana

Genesi e vicenda editoriale

Scritto in prosa in poche settimane e terminato tra il mese di settembre e il 6 ottobre del 1897 (ne fa fede l’ultima pagina del ms. ARC. 14 XVI 89 conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma), dopo il Sogno d’un mattino di primavera il Sogno d’un tramonto d’autunno doveva rappresentare, nel progetto dell’autore, il secondo tempo di una tetralogia mai compiuta dei cicli stagionali, comprendente il Sogno d’un meriggio d’estate (il cui abbozzo, conservato nell’APV, è stato pubblicato da Annamaria Andreoli nel 1982) e il Sogno d’una notte d’inverno (di cui invece non restano tracce).
Poco è possibile aggiungere sulle date di composizione, ma è utile osservare come gran parte del materiale dei Taccuini del 1896 e della prima parte del 1897, pur essendo confluita nel romanzo-saggio Il fuoco del 1900, viene utilizzata da d’Annunzio anche per il secondo Sogno, attraverso modalità che, oltre a recuperare elementi per il paesaggio e le architetture veneziane, risemantizzano gli appunti in una direzione politica che sarà centrale nell’atto unico e insistono su una simbologia autunnale che sarà cara anche al primo capitolo dell’incompiuta trilogia del melograno.
Il carteggio tra d’Annunzio e i fratelli Treves testimonia una vicenda editoriale assai complessa. Anzitutto si ha la sensazione che l’atto unico, che non conosce anticipi in rivista e rimane inedito fino alla stampa, abbia un ruolo all’apparenza marginale per l’autore, concentrato sul più ambizioso romanzo e impegnato nell’agone che lo porterà ad assumere di «deputato della bellezza». Le lettere di Gabriele nascondono piuttosto l’ambizioso entusiasmo di completare il prima possibile l’intero ciclo stagionale, di fronte al quale le singole tappe, nel processo che le porterà alla pubblicazione, appaiono piuttosto il tentativo di ricucire i rapporti con Eleonora Duse (sacrificata a vantaggio della rivale Sarah Bernhardt per l’interpretazione della Ville morte) e ricevere dagli editori i prestiti necessari al suo stile di vita necessariamente lussuoso.
Il 14 agosto 1897, Gabriele scrive a Emilio Treves inviandogli un esemplare del primo Sogno perché se ne progetti l’edizione all’interno del ciclo I Sogni delle Stagioni. Posta la parola τέλος sul manoscritto del Tramonto a inizio ottobre, occorre attendere ancora prima che il poeta torni a parlare del secondo episodio del ciclo; l’11 gennaio 1898, in partenza per Parigi, garantisce che Mattino e Tramonto sono pronti, presentando come prossima la composizione dei due atti mancati; il 2 marzo, pubblicata da Treves La città morta, Gabriele dichiara che ha ripreso il lavoro per terminare Il fuoco e promette di concludere entro l’anno la tetralogia; il 30 aprile seguente si dice vicino alla conclusione del romanzo e torna a proporre a Emilio i due Sogni già composti; ma lo scrittore sembra subito dopo aver preso una decisione: il Tramonto non uscirà in un volume a sé, ma solo all’interno dell’intero ciclo stagionale; lo stesso ribadirà a Giuseppe il successivo 2 settembre, ma di lì a breve ha nuovamente cambiato idea: «Sembra che la pubblicazione del Sogno sia risoluta. Rimanderò domani le prove di stampa definitive». La questione è dunque complessa ed è possibile procedere a una ricostruzione almeno verosimile: a settembre del ’98 i Treves hanno pronte le bozze del Tramonto, inviato all’autore, il quale propone però di attendere dicembre, quando sarà completata l’intera tetralogia, pur mantenendo l’impaginato già impostato; a dicembre però il poeta è lontano dall’adempiere alla promessa e il progetto sfuma. I Treves, non potendo più attendere, pubblicano come atto appartenente ai Sogni delle stagioni il Sogno d’un tramonto d’autunno in poche copie datate 1898 (siamo riusciti a trovarne solo una, conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, inventario 99 000649173, collocazione MAGL. 6.9.450), poi, con postdatazione al 1899, esce la più ampia tiratura del «secondo migliaio». Stando alla bibliografia del De Medici (1928, p. 108) del resto, alcuni esemplari in edizione di lusso uscirono senza data, a riprova della loro stampa a cavallo tra ’98 e ’99.

Le ricezione e le rappresentazioni

Di fronte alle incomprensioni di lettori e spettatori contemporanei, d’Annunzio (dopo le critiche negative ricevute dalla Ville morte), chiede ad Angelo Conti di preparare il pubblico del Tramonto indicando di valorizzare determinati elementi dell’opera:

Scrivi dunque, per Tribuna, una prosa calma e sobria, toccando l’essenza della tragedia greca (nella quale costantemente, dai Persi alle Baccanti, l’azione è sempre extra, è sempre raccontata, rappresentata dalla parola, dal ritmo). Analogia per il procedimento usato da Eschilo nella scena di Cassandra e quello usato da me in questo Sogno (progressione dell’ansietà). Ritrovamento della paracatàloge (recitativo, declamazione accompagnata da musica) nel monologo iniziale di Gradeniga. Apparizione della Danza, nella evoluzione delle Spie. Importanza del ritmo nella evoluzione delle frasi. Esaminare il racconto di Orsèola, ad esempio. Analogia fra la favola di Pantea e quella di Elena Greca (in entrambe la guerra scoppia per un fatto sessuale, in entrambe la fatalità sanguinaria del desiderio trascina gli uomini alla distruzione). Sentimento musicale che circola per tutta l’opera, dal primo all’ultimo grido. (Il grido, l’elevazione della voce istintiva, è alle origini del Canto) (d’Annunzio 1939, p. 26).

Solo Enrico Corradini (1898, pp. 1-2) tuttavia, certo favorevole al teatro dannunziano, ne coglie la volontà di accostare l’anima moderna allo «spirito eternamente vivo degli antichi» con la capacità di «vedere e mostrare» la «natura essenziale del dramma immutata da Eschilo allo Shakespeare», consistente in «tre massimi fondamenti: la sapienza della vita, l’eloquenza e la poesia».
In direzioni assai diverse muovono però gli altri critici: così il recensore della «Gazzetta letteraria», forse Alessandro Fiaschi (1897, pp. 3-4), lamenta l’assenza di un’anima nei personaggi di una pièce che la bellezza estetica non riscatta dall’esteriorità, Dino Mantovani— il primo a parlare di «poema tragico» per il Tramonto — loda, in una recensione del 1898 ripubblicata in Mantovani 1903, pp. 3-4, la «fantasia prettamente poetica» in cui però si ravvisa l’assenza «di ogni somiglianza, di contenuto e di forma, con la verità conosciuta», Lorenzo Ferri (1898, pp. 607-608)— che ha il merito di cogliere le qualità sensoriali della nuova opera dannunziana, in grado di far convergere «parole», «colore» e «suono» — lamenta il predominio di una «violenza impura e rovente». Solo Raffaele Barbiera (1898, pp. 606-607) si spinge a una lettura più approfondita e imparziale, capace di cogliere l’unicità drammaturgica del Tramonto, di controbattere alle consuete accuse di assenza di azione rilevando anzi come essa sia «duplice: quella che si vede e quella che non si vede».
Sul palco le sorti dell’atto unico sono anche peggiori: se La città morta è la prima tragedia composta da Gabriele d’Annunzio, se il Sogno d’un mattino di primavera è la prima ad essere rappresentata, il Sogno d’un tramonto d’autunno non condivide alcun primato, a parte quello tutto negativo di approdare in teatro ben sette anni dopo la pubblicazione a stampa, ossia il 2 dicembre 1905, e in un teatro piuttosto periferico: il Rossini di Livorno. Né il pubblico presente, nonostante il contemporaneo e duraturo successo della Figlia di Iorio che di fatto ha consentito alla compagnia di Fumagalli di allestire l’atto unico, accorre numeroso allo spettacolo, certo deluso dall’assenza di Eleonora Duse, sostituita, nel ruolo della protagonista Gradeniga, da Teresa Franchini.
I critici contemporanei, che generalmente non apprezzano le scelte drammaturgiche di d’Annunzio, non mancano tuttavia di rilevare i pregi letterari dell’opera, che a loro parere sono però sminuiti dalla regia. Niente, ad ogni modo, sembra riscattare lo spettacolo dall’assenza di vere qualità teatrali e lo stesso allestimento, dai più ritenuto mirabile anche in virtù delle trovate luminotecniche, viene percepito come artificio extra-teatrale.
I responsi sembrano migliorare tuttavia dopo la prima: al Teatro Paganini di Genova, la sera del 14 dicembre, il Sogno ha un ottimo successo, e al Mercadante di Napoli le attrici vengono «più volte evocate alla ribalta fra generali applausi». A scrivere è Riccardo Forster, che per primo apprezza la dimensione virtuale e fantasmatica delle dramatis personae, interpretando la pièce come «fantasmagoria allucinata» (in Valentini 1993, p. 202).
Scomparso dai teatri per oltre un lustro, il Sogno d’un tramonto d’autunno sarebbe tornato in scena a Roma nel 1911. Gabriele è già in esilio in Francia e alla richiesta del «Giornale d’Italia» del 6 marzo di una sua presenza in città, lo scrittore risponde brevemente: «Sono lietissimo dell’annunzio che Ella mi dà e farò sogni sforzo per venire a Roma dove ho lasciato il mio cuore. Le scriverò fra giorni lungamente. Pensi che nel Tramonto la musica è necessaria. Mi ricordi alla interprete ammirabile», ossia Irma Gramatica (in Granatella 1993, p. 614).
Non si hanno notizie ulteriori, ma certo, a confermare la scarsa eco della rappresentazione, è significativo che non siano rimasti manifesti e foto di scena.

Contenuto e struttura

Se il Mattino, pur mantenendo la forma di atto unico, guardava espressamente alla tragedia classica con la suddivisione in cinque scene, il Tramonto presenta la vicenda della vedova Dogaressa Gradeniga e della sua gelosia per le bella meretrice Pantèa, colpevole di averle sottratto il giovane amante, senza soluzione di continuità. Eppure la lettura attenta del testo consente di individuare un andamento, un respiro che istintivamente porta chi legge a immaginare una pausa psicologica forte in alcuni momenti chiave della pièce. Del resto, riprendendo il testo per l’Edizione Nazionale del ’31 rappresentante l’ultima volontà dell’autore, lo stesso d’Annunzio ha voluto conferire a questo ritmo interno, a queste pause implicite, una forma grafica precisa, ricorrendo all’introduzione di un ampio spazio bianco che divide il finale di una «scena», o forse meglio parlare di una sequenza, dall’inizio di un’altra, ripresa nella pagina successiva. Il fenomeno è rispettato anche nelle edizioni dei Sogni delle stagioni e del Sogno d’un tramonto d’autunno del 1939, ma viene meno nell’edizione di Tragedie, Sogni e Misteri del 1964 curata da Egidio Bianchetti e da questo momento in tutte le successive (compreso il «Meridiano» a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti), sino all’edizione critica, curata da chi scrive per l’Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio, che ripristina la scansione autoriale.

1a sequenza: la Dogaressa vedova Gradeniga attende con ansia furiosa che le sue spie tornino nel suo palazzo lungo il Brenta, dove lei vive da tempo in un forzato auto-esilio, per recarle notizie del suo giovane amante, sottrattole dalla bella meretrice Pantèa che lo tiene ammaliato con sé nel suo Bucentoro. Dall’alto di una torretta a spirale, non visibile, Pentella osserva e riferisce quanto avviene nel mondo esterno. Gradeniga percepisce i segni dell’età (ne è simbolo anche un ricorrente specchio, che per Pantèa è testimonianza di bellezza straordinaria) e la forza struggente della sua malattia erotica che la divora dall’interno. Si sente morire e pur di rivedere l’amato promette con inaudita prodigalità tutti i suoi beni a chi riuscirà ad accontentare la sua richiesta. Intanto dai navigli giunge musica di festa, in contrasto con lo stato d’animo dominante e con i colori del morente autunno, simbolicamente rappresentato dai fiori e dalla vegetazione del giardino di dominio Gradenigo. Nel languore vespertino, in un continuo monologo raramente interrotto dalle parole accondiscendenti di Pentella, Gradeniga rievoca il suo amato, la calda sensualità della loro relazione, il fuoco dei baci e dei morsi che vampirescamente lei lasciava sul corpo del giovane. La decisione, infine, di far giungere a palazzo una Maga schiavona affinché, con una fattura (consistente nel fabbricare una statua di cera aggiungendovi il crisma della vittima, coprendola di aghi e lasciandola lentamente sciogliere al fuoco), provochi la morte del Doge, così che i due amanti possano godere liberi e indisturbati. Intanto Pentella, ancora dalla spira, annuncia che alcune spie sono di ritorno e che la Maga è con loro, portata con la forza — con un rovesciamento della simbologia cristica — a dorso di un mulo.

2a sequenza: con la Maga, giungono le spie Barbara, Ordella, Lucrezia, Orsèola e Caterina, che confessano d’aver visto il giovane amante con Pantèa sul Bucentoro cantare e danzare in atteggiamenti erotici che accendono di furia la gelosia di Gradeniga, sempre più decisa a provocare la morte della meretrice-sirena. La Schiavona è pronta, mancano però i capelli di Pantèa perché il rituale possa avere la sua piena efficacia, nonostante l’angelo del giorno, Anhoel, lasci ben sperare. All’arrivo delle spie Nerissa e Iacobella, quest’ultima reca finalmente una ciocca della foltissima capigliatura bionda della meretrice: l’oscuro rituale ha inizio. Composta la figura di cera, tutte la infilzano con aghi crinali al suono di formule magiche, mentre Gradeniga si lancia in folli gesti di prodigalità donando gioielli e terre alle sue obbedienti emissarie.

3a sequenza: il rituale sta per concludersi. Gradeniga ordina che si accendano le luci: è notte e nel giardino si odono grida improvvise. Sono quella di Barbara e Ordella, che risalgono a palazzo per annunciare la catastrofe; e Pentella, dalla spira, conferma: i patrizi veneti, eroticamente attirati come per incanto da Pantèa, hanno aggredito il Bucentoro, pieno di incensi e profumi, e il giovane amante conteso li ha affrontati con coraggio, ma invano. Un incendio ha distrutto la nave e probabilmente nessuno si è salvato. Il potere politico in declino di una Venezia ormai decadente si rivela in grado soltanto di seguire i suoi istinti più bassi e di sperperare le sue ricchezze fino all’autodistruzione.

Le fonti 

Avantesti mentali

Come ogni opera di d’Annunzio, anche il Tramonto si costruisce su un’ingente numero di fonti, dirette e indirette, antiche e contemporanee, italiane e straniere. Senza contare che lo stesso avantesto mentale del poeta gioca un ruolo di primo piano: l’Allegoria dell’autunno, che sarà riversata nel Fuoco pressoché nella sua interezza, contiene già i nuclei simbolici che apparentano l’atto unico al romanzo, secondo l’idea di una Venezia (nel primo certamente scorta solo da lontano) come «sogno di bellezza infinito», «purpurea, dorata, opulenta ed espressiva come la pompa della terra sotto l’ultima fiamma del sole» (d’Annunzio 2005, p. 2195); vas voluptatis pronta a «farsi fecondare, lei di marmo apollineo, dalla forza dionisiaca del dio» che qui mostra tutta la sua potenza distruttiva di incendio e passioni omicide (Giacon 2015, pp. 117-118). Oltre ai ricordati Taccuini (in modo particolare l’VIII, il XV e il XVI) e agli Altri taccuini (in prevalenza il 2 e il 3), scorgiamo in embrione la figura di Pantèa nella Pamphila del Poema paradisiaco; né ci sembra trascurabile l’apporto dell’Intermezzo così come il poeta lo ha rivisto nel 1893 conferendogli un clima algolagnico di sadismo e lussuria: pensiamo solo alla Godoleva nella sezione delle Adultere, un personaggio che prelude davvero alla meretrice del Tramonto, anche per la fusione di eros e fuoco. Così in Qualis artifex pereo gli elementi del fuoco e del rogo si legano a un tema caro a parnassianesimo e decadentismo: quello dei potenti malfamati e incendiari (da Nerone a Enobarbo e oltre), già modelli flaubertiani di magnificenza e crudeltà secondo un gusto sfarzoso e scenografico che, attraverso Gradeniga, sarà anche del Tramonto. I motivi qui in primo piano sono in realtà sparsi un po’ ovunque nell’Intermezzo (pensiamo, per limitarci a un esempio, a Erotica-Heroica II), ma è la donna del Preludio a svolgere una funzione archetipale, anticipando elementi sia di Gradeniga sia di Pantèa (De Michelis 1960, pp. 186-187). Lo stesso De Michelis, ibid., ha insistito poi sui poemetti La tredicesima fatica e Il sangue delle vergini, in cui ha scorto una fusione totale tra eros e fiamma, mentre un’ultima apparizione di Pantèa prima della sua nascita effettiva si può cogliere nella Gorgon, IV della Chimera.

Le fonti non letterarie 

Sin dalle prime recensioni, i critici furono colpiti dallo scarto tra l’indefinitezza storica e ambientale del Mattino e la sensazione che il Tramonto al contrario, pur non potendo definirsi dramma storico, fosse intriso di un colore locale e temporale storicamente esatti, sia pure nella loro sfuggente ambiguità, sin quasi al documento. Pensiamo, con Zanetti 2013, p. 1072, ai nomi dei personaggi, per cui il poeta attinge ora al Pompeo Molmenti della Storia di Venezia nella vita privata (1880) e della Dogaressa di Venezia (1884), ora a Fabio Mutinelli degli Annali urbani di Venezia e del Lessico veneto (1851). Né manca il ricorso a semplici baedeker, come la Guida artistica e storica di Venezia e delle isole circonvicine di Pietro Salvatico e Vincenzo Lazari (1852), che d’Annunzio usa per la ricostruzione del palazzo di Gradeniga. Al fianco degli storici però, fonte altresì per ricreare usi, costumi e abbigliamenti veneziani, ecco un testo all’apparenza stravagante: L’Italie Hier. Note de voyage, 1855-1856 (1894) di Jules ed Edmond de Goncourt, in cui ritrova l’abito che indossa la spia Lucrezia alla sua prima apparizione, «vestita d’una veste fulva, detta rovana».
Lungi tuttavia dalla volontà di ricreare un esatto ambiente storico, d’Annunzio mostra al contrario di utilizzare le più svariate fonti per uno scopo ben diverso: la sua lotta «contro il male del tempo» lo spinge infatti a recuperare e a mettere sulla stessa linea spazio-temporale, quasi sempre senza alcuna gerarchia cronologica, oggetti, situazioni, personaggi, abiti delle più disparate epoche storiche. Con la scomparsa nel XIV secolo dell’ultimo doge Gradenigo, una dogaressa Gradeniga non sarebbe mai potuta esistere sul finire del Settecento, epoca cin sui la pièce è idealmente ambientata; né avrebbe senso, se non in questo prospettiva, che i personaggi del Tramonto cantino arie composte un secolo prima (si pensi solo ad Alessandro Stradella e alle altre fonti musicali rintracciate da Ivanos Ciani), o che certe abitudini risultino vive addirittura due secoli prima: così quella di andare in gondola, ricavata da una stampa del volume di Giacomo Franco Habiti d’huomini et donne venetiane che d’Annunzio ha ripreso dall’importante studio di Arturo Graf Attraverso il Cinquecento (1888), dal quale pure ricostruire la scena del convito accompagnato da canti, musiche e danze nel Bucintoro. Lo stesso personaggio di Pantèa, del resto, calca molti aspetti di Veronica Franco, prostituta gentildonna e poetessa cui il Graf dedica un ampio capitolo.
Gli stessi Molmenti e Mutinelli del resto (di quest’ultimo in particolare il Costume veneziano sino al secolo decimosettimo, 1831), parlando di una Venezia ancora più antica e carica di superstizioni, offrono più di uno spunto per l’ideazione del personaggio della Maga schiavona, per il quale d’Annunzio ha attinto altresì a una fonte ben più peregrina: il Libro di novelle antiche tratte da diversi testi del buon secolo della lingua contenente la breve novella Come uno famiglio d’uno Cardinale tenne a sua posta una giovana di Schiavonia. Si aggiunga a ciò il ricorso (o meglio la vera e propria compulsazione) di un libro francese contemporaneo in cui la scena dell’envoûtement della pièce trova tutti gli elementi necessari: L’extériorsation de la sensibilité: étude expérimentale et historique (1895) in cui l’autore, Albert de Rochas d’Aiglun (1887-1914), va alla ricerca di una risposta all’ardua questione delle forze psichiche e delle loro applicazioni, compresa quella del maleficio.
La scena conclusiva della tragedia, infine, riscrive spesso molto da vicino un episodio delle «guerre di ponte» di cui parla Mutinelli nel Lessico veneto, richiamando in modo particolare la «guerra» del 1574 di cui fu spettatore lo stesso Enrico III.
Aneddoti minori (quelli di Tristano Cibelletto e della sirena, per esempio, tratti dall’Anello di sette gemme o Venezia e la sua storia, considerazioni e fantasie di Luigi Carrer, 1838), riportandoci a una dimensione temporale sfumata ai limiti del fiabesco o comunque appartenente alla tradizione popolare, avvalorano l’ipotesi che anche il Tramonto, scandito non da eventi storici o da circostanze esteriori ma da scarti psichico-emozionali e sequenze di stati d’animo, rappresenti un teatro fondato sull’idea che persistano dei grandi archetipi oscurati dall’«errore del tempo», cui I sogni delle stagioni, come indica il frontespizio, si contrappongono idealmente.

Le fonti letterarie e mitologiche 

Se nel Mattino la componente erotica del Midsummer Day shakespeariano si associava a quella onirica allo scopo di far emergere il sommerso di Isabella, l’io profondo in cui dominano istinti e desideri inconfessabili (Gibellini 2023, pp. XCII-XCIII), nel Tramonto il legame con quel modello drammaturgico si spinge altrove, abbracciando aspetti politici che portano il poeta a guardare oltre le fairy-tales. Non meno interessato a dimensioni archetipiche ai imiti dell’antropologia, Gabriele ora le cerca associate a componenti storico-sociali che sia l’Anthony and Cleopatra sia l’Othello possono meglio garantire. Ed ecco che la scena V dell’atto II dell’Anthony and Cleopatra funge da esempio tra i più efficaci di prodigalità di una donna di potere innamorata (Zanetti 2013, p. 1078); nell’Othello le imprecazioni del moro di Venezia nella parte conclusiva della scena III dell’atto III sono pressoché le stesse che Gradeniga rivolge a Pantèa, o meglio alla visione della meretrice nuda davanti a una folla in delirio; poco più avanti Gradeniga decide in effetti per la morte di Pantèa: «Ella deve morire, ella deve morire». Ed ecco di nuovo far capolino Shakespeare col suo Othello, atto V, scena II.
Diverso è l’apporto che dà alla tragedia Charles Algernon Swinburne con i suoi Poems and Ballads (che d’Annunzio legge nella traduzione francese di Gabriel Mouray del 1891): più che una fonte vera e propria, il poeta inglese è fatto oggetto continuo di escussioni di elementi che vengono dissimulati e disseminati in più luoghi del Tramonto.
Dietro le figure di Pantèa a Gradeniga si cela un simbolismo complementare per cui lo scrittore ha fatto tesoro delle sue conoscenze in ambito mitologico e antropologico: pensiamo soprattutto ad Angelo De Gubernatis e al suo La Mythologie des plants, ou Les légendes du règne végétal (1878) — alla base altresì del simbolismo floreale e vegetale nella lunga descrizione incipitaria del giardino di Gradeniga —e a Paul Decharme, autore della Mythologie de la Grèce antique (1879). Le loro riflessioni sull’albero di melograno e il suo frutto, come pure quelle su Demetra, Persefone e Afrodite, hanno avuto davvero per d’Annunzio un valore fondativo di mitologemi e narrazioni che, prima ancora di toccare da vicino un romanzo come Il fuoco (cfr. Giacon 2015, p. 219), hanno rappresentato una chiave compositiva importante per il Tramonto. La bellissima meretrice-sirena, lungi dall’essere banale esempio di superfemmina come pure voleva Gargiulo 1912, p. 333, rappresenta la libera e innocente crudeltà di una natura divinizzata, creatrice senza creato, di cui ella è riflesso e incarnazione (Pan-thea), un’Afrodite ambita da tutti che attira a sé ogni amante, ogni essere vivente, come la sirena cui ha rubato il segreto. La Dogaressa è invece la maturità, rappresentata dai frutti che cospargono la terra rendendola bionda e grassa della loro polpa disciolta, consapevole del prossimo disfacimento fisico. Così vogliono le leggi di Demetra e Proserpina, così voleva il mito, qui favola crudele e perversa per chi non ne accetta la profonda verità e ricorre alla sterile vendetta. Ecco allora che il giovane innominato nasconde la simbologia di Adone, conteso da Afrodite e Proserpina.
Ma dietro Pantèa c’è di più e giustamente Zanetti 2013, p. 165 ha scorto le profonde affinità del personaggio con la Chrysis del romanzo best seller Aphrodite (1896) di Pierre Louÿs, ambientato in una Alessandria che pure può essere vista quale corrispettivo della Venezia-anadiomene dannunziana.

Stile e interpretazioni

Apparentato solo esteriormente con i drames statiques di Maurice Maeterlinck (d’Annunzio come si è visto, attraverso la mediazione di Angelo Conti ed Enrico Corradini, ha voluto legare il suo atto unico alla tragedia antica), il Sogno d’un tramonto d’autunno, dopo decenni di disattenzione da parte della critica letteraria, ha raggiunto solo recentemente una più giusta collocazione all’interno del teatro dannunziano ed europeo. Troppo concentrati a rilevarne la scarsità di elementi propriamente teatrali e la prevalenza di una liricità tutta letteraria (esaltata da una prosa in parte ritmica che si serve della paracatalogé), i lettori e gli spettatori contemporanei compresero, almeno in minima parte, che l’apparente semplicità dell’atto unico nascondeva una complessità più profonda nella duplice dimensione del visto e del non visto, del rappresentato e del raccontato (vi insisterà con più efficacia Luigi Tonelli 1913, pp. 191-192), non in grado tuttavia, a detta dei più, di animare una scena caratterizzata essenzialmente dalla staticità del monologo.
A partire dal secondo dopoguerra, la critica si è divisa in direzioni opposte e parimenti parziali, tra sostenitori al limite dell’apologia e detrattori pronti alla denigrazione. Pochi i più riflessivi e imparziali. A lungo, complici Luigi Russo ma anche un lettore fine come De Michelis, il Tramonto è stato fatto rientrare nelle categorie deteriori del colorismo e del paesaggismo, smentite definitivamente solo decenni più tardi, mentre la cultura marxista, capofila il Salinari, tutto riconduceva a un presunto superomismo qui di fatto assente.
Spicca tra tutti il saggio di Aldo Capasso, che in «Dramma» e «poema drammatico» del 1964 ebbe la felice intuizione di collocare il secondo Sogno fra i poemi lirico-drammatici, superava al contempo la prospettiva di Silvio d’Amico, che prendendo le mosse da un punto di vista strettamente drammaturgico tornava a lamentare come di consueto l’eccessiva staticità di questa e di altre proposte teatrali dannunziane, e valorizzava finalmente l’efficacia della componente psicologica con cui lo scrittore era in grado di rivelare una «profonda intuizione dell’animo femminile» (Capasso 1964, pp. 60-61).
Con Angela Guidotti si apre una nuova stagione critica sul Tramonto: dopo un’attenta analisi strutturale che coinvolge il ruolo delle didascalie intese quali indicazioni di poetica, strumento primario di rottura col dramma naturalista e volontà di infrangere alcune categorie temporali allo scopo di rinnovare a fondo il genere tragico, la studiosa attribuisce a d’Annunzio, invocata l’autorità di György Lukács e Walter Benjamin, un concezione essenzialmente estetica, e conseguentemente statica dei conflitti tragici (Guidotti 1978, p. 31). A spiccare tra i due Sogni sarebbe del resto il Tramonto, con il passaggio a una scrittura che restituisce sensazioni di opprimente decadenza, il privilegio accordato all’elemento fonico piuttosto che a quello visivo e l’ideazione di un allestimento basato su due piani che non riflette certo un gusto decorativistico, ma è un vero e proprio strumento relativo alle strutture composite dell’intreccio, per cui l’azione è colta «contemporaneamente» dentro e fuori la scena (ivi, pp. 25-27).
Si deve tuttavia a Francesco Erspamer il solo tentativo di consacrare il Tramonto a grande esempio di teatro contemporaneo europeo. Muovendo in parte dalle assunzioni di Guidotti, Erspamer definisce il secondo atto del ciclo stagionale l’opera in cui «la realtà concreta si è più rarefatta, i referenti occupano sulla scena un posto e un ruolo meno rilevanti, e l’azione si poggia sul discorso in modo più continuo, addirittura esclusivo» (Erspamer 1988, pp. 486-487); se a questo si aggiunge lo scetticismo gnoseologico alla base dell’intera pièce, per cui lettore e spettatore sono privi degli strumenti per comprendere la realtà o non-realtà di quanti letto e rappresentato e il sogno si trasforma in visione, il Sogno d’un tramonto d’autunno potrebbe davvero ambire a tentativo, forse minore ma in parte riuscito, di porsi all’avanguardia del teatro europeo fin de siècle.

Scritti di d’Annunzio

Gabriele d’Annunzio, I sogni delle stagioni, Istituto Nazionale per la Edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio, Verona, Mondadori, 1931.
Gabriele d’Annunzio, I sogni delle stagioni, Roma, Il Vittoriale degli Italiani, Poligrafico dello Stato, 1939-XVII.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, Sogni e Misteri I, Milano, A. Mondadori Editore, 1939-XVII.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, Sogni e Misteri I, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1964.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ad Angelo Conti, a cura di Ermindo Campana, «Nuova Antologia», XVII, gennaiofebbraio 1939, pp. 10-32.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, Milano, Garzanti, 1999.
Gabriele d’Annunzio, Prose di ricerca, 2 voll., a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori «I meridiani», 2005.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni e misteri, 2 voll., a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori «I meridiani», 2013.

Bibliografia specifica

Annamaria Andreoli, Un inedito dannunziano: l’abbozzo del Sogno d’un meriggio d’estate, in «Filologia e critica», VII, 1982, pp. 398-419 (e vedi Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni e misteri II, pp. 1509-1511).
Raffaello Barbiera, Sogno d’un tramonto d’autunno. Poema tragico di Gabriele d’Annunzio, «L’iIllustrazione Italiana», 23 ottobre 1898; cito da Granatella 1993, pp. 603-611.
Enrico Corradini, Sogno d’un tramonto d’autunno, «Il Marzocco», 13 novembre 1898, III, 41, pp. 1-2.
[Alessandro Fiaschi] Il «Sogno d’un tramonto d’autunno», «Gazzetta Letteraria», a. XXII, 19 novembre 1898, n. 47.
Francesco Erspamer, L’esordio teatrale di Gabriele d’Annunzio, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte, Atti dell’XI Convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara, 9-14 maggio 1988, Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani, 1988, pp. 473-495.
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Riccardo Forster, Sogno d’un tramonto d’autunno di G. d’Annunzio, «Il Mattino», 5-6 gennaio 1906, in Valentina Valentini, 1993.
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Bibliografia generale

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Alfredo Gargiulo, Gabriele d’Annunzio, Perrella, Napoli, 1912.
Maria Rosa Giacon, Venezia Città-Donna nel «Fuoco», «Archivio d’Annunzio», 2, ottobre 2015, pp. 117-131.
Cecilia Gibellini, Introduzione a Gabriele d’Annuunzio, Sogno d’un mattino di primavera, edizione critica a cura di Cecilia Gibellini, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani, 2023.
Laura Granatella, «Arrestate l’autore!». D’Annunzio in scena. Cronache, testimonianze, illustrazioni, documenti inediti e rari del primo grande spettacolo del ‘900, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1993.
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Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli, 1960.
Luigi Tonelli, La tragedia di Gabriele d’Annunzio, Milano, Sandron, 1913; seconda edizione Milano, Corbaccio, 1941.
Valentina Valentini, Il poema visibile. Le prime messe in scena delle tragedie di Gabriele d’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1993.

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