di Andrea Lombardinilo, Enciclopedia dannunziana
Sighele e d’Annunzio: letteratura e sociologia
Nell’ambito della sua densa produzione scientifica, dedicata allo studio – pionieristico – dei movimenti collettivi e dei fenomeni criminali, indagati anche con l’ausilio della letteratura e del giornalismo, Scipio Sighele (Nago 1868 – Firenze 1913) ha approfondito alcuni dei più significativi scrittori europei del suo tempo, tra cui Honoré de Balzac, Maurice Barrès, Antonio Fogazzaro, i fratelli Gouncourt, Eugène Sue, George Sand, Émile Zola, ma soprattutto Gabriele d’Annunzio, dedicando particolare attenzione ai suoi romanzi e ai suoi drammi. Nei personaggi dannunziani Sighele coglie i tratti di una modernità psico-patologica di rilievo, considerata espressione dei cambiamenti culturali tipici delle prima grandi urbanizzazioni.
I numerosi saggi dedicati a d’Annunzio disegnano un quadro di ricerca che denota il costante interesse di Sighele per il rapporto tra letteratura, fenomeni psico-patologici e mutamento sociale, grazie soprattutto alla capacità che d’Annunzio ha avuto nel cogliere gli aspetti più moderni della società del tempo, facendo leva su un lavoro di scandaglio psicologico ispirato alla dialettica tra società, letteratura e comunicazione e supportato dalla lezione del suo maestro, Enrico Ferri, senza trascurare il magistero di Cesare Lombroso. Il rapporto tra il criminologo e il poeta, rimasto inesplorato per lungo tempo, denota una comune convergenza di interessi, come testimoniano l’incontro avvenuto a Firenze nel febbraio 1909 e i successivi contatti epistolari inerenti all’interpretazione de La nave (1908), nella quale Sighele riconosce quella Tragedia della folla annunciata anni prima dal drammaturgo, e mai realizzata.
Oltre alla fondamentale La psicologia delle folle (1891), Sighele ha il merito di aver dimostrato la possibile convergenza tra sociologia e letteratura, in una serie di volumi contenenti anche alcuni dei saggi dannunziani di maggior rilievo, tutti pubblicati da Emilio Treves: Letteratura tragica (1906), L’intelligenza della folla (1910), Nell’arte e nella scienza (1911), Letteratura e sociologia (1914). Si tratta soltanto di una parte dell’attività scientifica e pubblicistica di Sighele, impegnato parallelamente in un’intensa azione politica volta a sostenere le ragioni dell’irredentismo e della liberazione dei territori italiani dall’occupazione austriaca. L’attenzione per i movimenti collettivi e per le manifestazioni criminali del suo tempo fanno di Sighele un precursore di primo piano della sociologia delle masse indagate negli stessi anni da Gustav Le Bon, Gabriel Tarde e Robert Park, nel segno del fondamentale supporto fornito dagli scrittori all’analisi socio-patologica del suo tempo.
Dal primo incontro romano ai rapporti epistolari
Nel volume Società ed istituzioni in Italia nelle opere sociologiche di Scipio Sighele, edito nel 1988, Maria Garbari ha riprodotto la corrispondenza tra Sighele e i familiari, e tra Sighele e d’Annunzio, negli anni compresi tra il 1899 e il 1910, anno in cui il poeta abbandona l’Italia per l’esilio francese. Lo scambio epistolare certifica una insospettabile familiarità tra i due, che ha avvio a Roma alla fine del mese di marzo 1899, quando d’Annunzio accoglie l’invito ad ascoltare una conferenza di Sighele nella Sala Leonardo. In quel momento Sighele si trova a Roma per sostenere la causa irredentista, incurante delle attenzioni del governo austriaco per la sua attività politica, che gli costerà l’istruttoria avviata nel 1900 e la citazione in tribunale a Trento nel dicembre 1907. L’espulsione dai territori austriaci avviene nel 1912, un anno prima della morte, avvenuta prematuramente a Firenze il 21 ottobre 1913.
Lasciata l’amata Nago, situata a poca distanza da Riva del Garda, non lontana dunque dalla futura residenza lacustre di Gardone Riviera, «la sua residenza fu prima Roma, poi, dal 1906, Firenze. Nell’una e nell’altra città non fu soltanto partecipe diretto della vita culturale, ma assiduo organizzatore di incontri e conferenze sulla questione trentina» (Garbari 1988, p. 31). Il primo incontro con d’Annunzio avviene dunque a Roma, complice un invito a colazione da parte di Emilio Treves. A unire lo scrittore e lo studioso un comune sentimento nazionalista, sfociato nel sostegno all’impresa di Libia, celebrata dal poeta ne Le canzoni dalle gesta d’oltremare. Al contrario, Sighele visita la Tripolitania sul finire del 1911 insieme al nipote Gualtiero Castellini, cronista di guerra e promettente scrittore.
Sighele ha il merito di essere stato il primo ad aver richiamato l’attenzione sulla mancata realizzazione della Tragedia della folla da parte di d’Annunzio, derubricata come uno dei numerosi progetti annunciati e mai realizzati dal poeta. Correva il settembre 1909, e il drammaturgo era reduce dalla redazione della Fedra, conclusa a febbraio. Ma procediamo in ordine cronologico. Le lettere ai familiari evidenziano non solo le iniziali riserve di Sighele nei confronti del d’Annunzio personaggio, ma anche un atteggiamento mai celebrativo verso le sue opere. Inoltre, la corrispondenza di Sighele consente di registrare i mutamenti profondi che si verificano nella scena culturale e sociale del paese, osservati anche attraverso un’intensa attività convegnistica e giornalistica.
Se ne ha un esempio dalla lettera inviata da Roma alla sorella Emma il 1° aprile 1899. Ecco la descrizione della giornata trascorsa in compagnia di d’Annunzio, Emilio Treves, Angelo Mosso e Francesco Paolo Michetti:
Treves arrivò martedì sera: lo seppi la mattina del mercoledì da un commesso del negozio che incontrai per istrada e ch’era venuto a casa mia per avvertirmene. Mi disse che Treves mi aspettava in libreria: ero con la bimba e vi andai. Ma in libreria trovai l’invito di andare alle Venete a far colazione con lui insieme a D’Annunzio e a Mosso. L’invito era affascinante. La bimba mi animò ad andare ed io (era ½ giorno) mi avviai alle Venete dopo aver messo in botte la mia metà che – per la prima volta (e ciò torna a mio onore) doveva starsene senza di me ad un pasto.
A quella colazione mi sono divertito molto. D’Annunzio gentilissimo, lieto della mia conferenza (basta parlar di loro!!) e en veine di parlare. Colle donne sarà antipaticissimo; ma cogli uomini, e – almeno con me l’altro giorno – è stato simpatico. Sicuro e pieno di sè – naturalmente: ma con quel fare sincero e di incosciente superbia che fa perdonar molte cose. Abbiamo parlato di tutto e soprattutto di lui, degli italiani del sud in confronto a quelli del nord, della politica, dei deputati etc. … etc. … E ‒ guarda un po’ se divento vano anch’io – gli ho dato un buon consiglio: almeno un consiglio ch’egli accettò con espansione di gratitudine: far recitare a Zacconi – come monologo, e naturalmente, qua e là tagliando, il Giovanni Episcopo. Che te ne pare? Sulla fine della colazione venne anche Michetti – strano pendant di D’Annunzio, e pure suo intimo. Pareva Giovanni Pedrotti di fianco ad Augusto! Un campagnolo vicino ad un elegantone. E pensare che Michetti è stato artisticamente rovinato da D’Annunzio, e che solo ora – dopo quasi 10 anni – riprende a lavorare perché ritrova se stesso!
Ma basta di chiacchiere. Antonietta (è sabato) ha sempre visite e arriverà appena a mettere una riga. Ho fatto io le sue parti. Vi abbraccio tutti con immenso affetto e raccomando all’Orsacchiotto e ai suoi rampolli di abbandonare ogni forma di indisposizione. Sono le 6 e vorrei fare qualche cosa prima che giungano gli invitati.
Senza indugiare sul contenuto della lettera, in cui emergono i giudizi di Sighele su d’Annunzio e Michetti, è opportuno rilevare la capacità ritrattistica e l’ironia dello studioso, che osserva i comportamenti e le attitudini dei suoi illustri interlocutori. Si prenda la lettera inviata «ai familiari» del 25 settembre 1900, scritta nella casa di Nago, in cui ironizza sull’istruttoria del Governo austriaco e stronca l’Ode a Roma di d’Annunzio, pubblicata il 20 settembre 1900 sul «Giorno», poi raccolta in Elettra con titolo leggermente mutato, A Roma: «Hai letto l’Ode a Roma del D’Annunzio? Che te ne pare? A me, modestamente, pare infelicissima. Che strano temperamento d’artista! Pare un pazzo, giacché ha come questo dei lucidi intervalli – divini – e delle oscurità assolutamente mediocri».
La considerazione nei riguardi di d’Annunzio cresce progressivamente, supportata non solo dall’impegno politico del poeta ma anche, e forse soprattutto, dai suoi drammi, in cui Sighele scorge una galleria di personaggi degni di essere approfonditi in chiave sociologica e psicopatologica. Nella lettera del 19 novembre 1904 Sighele informa i familiari del comizio svolto al teatro Quirino per protestare contro l’arresto di numerosi studenti, anche italiani, il 3 novembre 1904, accusati di aver provocato «sanguinosi disordini» nel corso della cerimonia per l’istituzione di una facoltà italiana di scienze giuridiche e politiche a Wilten, sobborgo di Innsbruck. Ulteriori scontri si verificarono nelle università di Graz e Vienna, che portarono alla chiusura dei corsi di Innsbruck. Come si evince anche da paio di conferenze, Delitti e delinquenti danteschi del 1896, e Virtù antiche e virtù moderne del 1898, Sighele era convinto sostenitore della causa degli studenti italiani residenti in territorio austriaco e promotore dell’attivazione dei corsi in lingua italiana ad Innsbruck: prova ne è anche il pamphlet realizzato con sottoscrizione pubblica, cui aderì anche d’Annunzio.
Nella lettera del 19 novembre campeggia l’immagine del pubblico «straordinario e tumultuoso» che affolla il Teatro Quirino:
Basta! È finita – e tiro un grande respiro! È finita bene perché il Comizio andò benissimo e fu una grande manifestazione. […] Il teatro era un mare con onde, come direbbe D’Annunzio, e un cielo con stelle (visto anche che non mancavano le belle signore). Non ho mai visto una folla simile. Io ho fatto la meraviglia di quanti mi conoscevano per… la voce che ho saputo tirar fuori.
Il resto non lo racconto perché lo avrete già letto a sazietà sui giornali.
Questa ed altre lettere confermano che Sighele riconosceva a d’Annunzio un ruolo di primo piano nella vita culturale italiana, al punto da rappresentare un punto di riferimento obbligato per intellettuali e uomini di cultura. È quanto accade in occasione della successione a Carducci, morto il 16 febbraio 1907. Così Sighele al nipote Gualtiero, il 25 febbraio 1907:
Bello, bellissimo il tuo articolo da Bologna – che il Messaggero poteva stampare in corpo più grande. Bello, perché vero, sentito, misurato – senza quell’esagerazione e quella retorica che ha dilagato su tutti i giornali. Bello, perché coraggioso nel senso di rifiutare ai D’Annunzio e ai Pascoli aspettanti, la qualità di eredi che essi soli si vorrebbero decretare. Bello, perché accentua la nota irredentista che era (al di fuori della nostra predilezione) la più sincera e la più costante in Carducci, il quale – repubblicano, monarchico o forcajolo con Crispi – ha pur sempre voluto e affermato i diritti dell’Italia su Trento e Trieste.
La successione a Carducci acquista rivolti politici e ideologici, oltre che letterari. E la pubblicazione dell’ode In morte di Giosue Carducci, apparsa sul «Corriere della Sera» il 21 febbraio 1907, non fa che alimentare la cassa di risonanza intorno sulla vicenda. Nel criticare il testo, Sighele si sofferma sulla «eredità intellettuale, non morale» di d’Annunzio, che ai tempi dell’apprendistato giornalistico romano avevo definito Carducci il «maestro avverso». L’ode dedicata a Carducci è pubblicata, oltre che dal «Corriere della Sera», anche da Treves, a tiratura limitata, insieme al testo dell’orazione funebre pronunciata a Milano il 24 marzo 1907 (entrambi i testi raccolti poi ne L’allegoria dell’autunno).
A proposito di Carducci – l’ode di D’Annunzio non mi piace perché non è sentita: è l’esecuzione a freddo d’un componimento. Certo D’Annunzio è più vicino erede di Pascoli; ma è un’eredità intellettuale, non morale. È come se uno avesse lasciato il suo patrimonio e il suo nome a chi non gli è nemmeno lontano parente. L’erede è degno del morto, solo perché è un poeta come lui, non perché egli soffra e goda di ciò che faceva soffrire e godere il Carducci.
Sighele è molto più indulgente con i romanzi e con i drammi dannunziani, in cui individua una serie di personaggi tragicamente «malati» e per questo motivo estremamente significativi sul piano dell’analisi psicopatologica. Così è per Francesca da Rimini, cui Sighele dedica il lungo articolo pubblicato sulla «Nuova Antologia» il 16 maggio 1902, La ‘Francesca’ di Gabriele d’Annunzio. Vi fa riferimento nell’esordio della lettera alla sorella Emma, inviata il 25 aprile 1907, soffermandosi sul matrimonio tra il nipote Gualtiero e una componente della nobile famiglia Baldisseri. Tra gli invitati, Giovanni Papini: « “Reduce illeso dalla mischia coi Baldisseri” (Vedi “La Francesca” di D’Annunzio) – ti transustanzio alcune impressioni».
Nell’articolo Sighele aveva già celebrato il genio drammaturgico di d’Annunzio, che «raggiunge le più alte vette dell’arte quando vuol rappresentare individui eccezionali o stati d’anima patologici, ma rimane inferiore a sè stesso quando ci dipinge uomini moralmente sani e stati d’anima normali». Istinto «perverso e feroce», Malatestino gode di buona compagnia nella galleria dei personaggi dannunziani: si pensi a Tullio Hermil, «il parricida gesuiticamente moderno», ad Isabella, «la pazza del Sogno d’un mattino di primavera», a Leonardo, «il fratello incestuoso della Città morta», ad Andrea Sperelli, Giorgio Aurispa e Stelio Èffrena, «degenerati superiori», rappresentati nella loro complessità interiore, acuendone la sensibilità psico-patologica.
Il soggiorno fiorentino: la Capponcina e la psicologia della folla
Sighele aveva analizzato questo stesso tema nell’articolo Gabriele d’Annunzio e la psichiatria, pubblicato sulla «Nuova Antologia» il 5 maggio 1906, raccolto poi nel volume Letteratura tragica (1906), di cui costituisce il primo capitolo. Un lungo paragrafo è dedicato al Giovanni Episcopo, di cui aveva suggerito a d’Annunzio un adattamento teatrale in forma di monologo da affidare a Ermete Zacconi (lettera del 1° aprile 1899). Ma a destare l’entusiasmo di Sighele è La nave, andata in scena al Teatro Argentina di Roma l’8 gennaio 1908. La lettera del 19 febbraio 1908 «ai familiari», è scritta nei giorni successivi alla pubblicazione dell’opera. Le informazioni sul dramma dannunziano sono indirizzate soprattutto «al caro Terontola», appellativo scherzoso impiegato per il nipote Gualtiero, altre volte chiamato «Tero»:
[…] La Nave (salvo le solite pazzie caratteristiche dannunziane) mi piace molto. Prima di tutto, per una ragione morale. Finalmente D’Annunzio ha fatto un’opera che – oltre il valore letterario – ha un valore civile. Un’opera che suscita nei lettori o spettatori qualche cosa di più e meglio di un semplice godimento estetico. In secondo luogo, la Nave mi piace perché è veramente la tragedia della folla. E farò l’articolo. – Ho notato, con pazienza da certosino, tutti i molti vocaboli di cui ignoravo il significato, e andrò a cercare un vocabolario che me li spieghi.
L’articolo annunciato è La psicologia della folla nella ‘Nave’ di Gabriele d’Annunzio, pubblicato nella «Nuova Antologia» il 16 marzo 1908, anticipato lo stesso giorno dall’omonimo articolo comparso su «Il Giornale d’Italia». Lo stesso d’Annunzio plaude all’analisi di Sighele, come si evince dalla lettera al nipote Gualtiero del 31 marzo 1908, in cui è descritto l’incontro con il poeta avvenuto nella sala Leonardo di Firenze il giorno prima:
C’era D’Annunzio, il quale mi fece un mondo di complimenti per il mio articolo, proclamandomi (e si capisce!!) l’unico che ha capito la Nave (boum!). Si discorse a lungo, e con molto interesse mio, sulle tragedie e romanzi che prepara: un romanzo dove è studiato l’uomo di quarant’anni, studio psicologico di perversità cosciente e raffinata, ‒ e tre tragedie sui tre momenti più tipici della storia di Roma. – Mi invitò alla Capponcina, anzi mi disse che mi manderà a prendere con la carrozza una mattina per andar a far colazione con lui. Vedremo se… la memoria è… pari all’ingegno! – Mi è sembrato più brutto e più vecchio: tutto rimpicciolito, direi, e… prosciugato.
Undici mesi dopo, d’Annunzio invita il suo recensore alla Capponcina. Il nuovo dramma, Fedra, è appena concluso. Sighele comunica la notizia al nipote Gualtiero all’inizio di febbraio del 1909:
In foglio a parte – come si conviene all’alto soggetto – parlerò di Fedra.
Dunque, tu eri un’anima profetica! Il non aver detto o scritto io a Gabriele il numero del mio telefono, mi procurò… ma, andiamo con ordine.
Dunque, giovedì tornando a casa verso le 5, Peppina mi dice: «è venuto un uomo tutto vestito di pelo che ha portato una busta grande. Quest’uomo è sceso da un’automobile tutta rossa che si fermò davanti al portone».
Entro in studio, e vedo su una sesquipedale enveloppe il mio simpatico nome vergato dalla nota penna d’oca di Gabriele.
Apro la busta, e su un foglio di proporzioni allarmanti leggo le seguenti parole: La Capponcina / Settignano di Desiderio /Firenze.
Mio caro amico,
jermattina per tempo, prima di andare a letto dopo l’ultima veglia, volli telefonare come Le avevo promesso, ma invano cercai nel Catalogo il numero del Suo telefono.
Le scrivo per annunziarLe la fine della mia opera, che è forse il mio sforzo più duro. È la tragedia di Fedra, della Pasifacia. Ho tentato, come le dissi, la resurrezione di tutto il mondo eroico innanzi la guerra di Troja. Fedra era la figlia del primo fra i Talassocrati mediterranei.
Quando ci rivedremo? È così difficile incontrare oggi uno spirito «vivo».
Le stringo la mano affettuosamente.
Il suo
Gabriele d’Annunzio
4 febbraio 1909
Ti puoi immaginare come cucinai di cortesie e di bombardeschi elogi la mia risposta.
In realtà – se mi spiacque non aver la telefonata – sono molto contento di avere la lettera, che resterà un documento, quando tutti si saranno dimenticati delle telefonate. E sono anche lieto di constatare che il Divo non è un facile promettitore – ma quel che dice mantiene.
Riguardo all’argomento, io – nella mia più volte dichiarata ignoranza – ripeto che non avrei saputo identificare né Medea, né Fedra, né Ifigenia. – Adesso mi darò allo studio delle medesime perché… se rivedo Gabriele non vorrei passare per un totale idiota.
Addio. Vado a pranzo. Speravo sempre una lettera di Bocca; ma si vede che la sua assenza da Torino si è prolungata – o che egli vuole scrivere addirittura quando il libro sarà stato letto.
Ad ogni modo, evviva! evviva! finché nel mondo si favelli o scriva.
La vicenda di Fedra, che fa da sfondo all’incontro tra i due, è propedeutica alle indagini svolte da Sighele su La nave, attestate dalle due lettere inviate al poeta da Nago nel settembre e nell’ottobre 1909, che contribuiscono a svelare alcuni retroscena sulla presunta identificazione della Tragedia della folla ne La nave. Le lettere confermano che, ai tempi dell’incontro fiorentino, quelle di Sighele erano poco più che supposizioni, rafforzate solo dopo aver scoperto che la tragedia era stata annunciata nelle edizioni Treves del 1899 del Sogno d’un mattino di primavera e della Gioconda.
Sighele torna infatti a parlare de La nave a distanza di un anno mezzo dalla pubblicazione del suo articolo sulla «Nuova Antologia». Nel frattempo, a Fedra segue il Forse che sì forse che no (1910), l’ultimo romanzo dannunziano, di cui riceve copia autografa direttamente dall’autore. La lettera di ringraziamento, datata 10 febbraio 1910, conferma l’interesse per la dimensione psico-patologica dei personaggi dannunziani, già approfondita nell’articolo Gabriele d’Annunzio e la psichiatria.
Grazie infinite grazie per il dono del volume magnifico, che ho già letto con la voluttà con cui si aspira il profumo d’un fiore.
Isabella e Vana completeranno lo studio che sto facendo sui tipi di donna ch’ella ha creato.
Questo studio va prendendo proporzioni più vaste di quelle che imaginavo, e pur troppo in questi ultimi mesi, forzatamente distratto da altre cure, ho dovuto interromperlo.
Ma quando sarà compiuto, spero riescirà una ferma analisi dell’opera psicologicamente nuova ed ardita ch’ella – primo e solo – ha saputo dare all’arte italiana.
Con la speranza di vederla, con la devozione immutata.
Suo
Scipio Sighele
Di lì a poco Sighele conclude il suo saggio su I tipi femminili nell’opera di Gabriele d’Annunzio, che si chiude con il paragrafo dedicato ai personaggi femminili del romanzo “icareo”. Il saggio costituisce il capitolo terzo del volume Nell’Arte e nella Scienza, che propone una scrupolosa disamina psicologica delle eroine dannunziane. Per Basiliola poco più di un accenno, considerato che Sighele si è occupato di lei nel lungo saggio La psicologia della folla nella ‘Nave’, pubblicato sulla «Nuova Antologia» il 16 marzo 1908, nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione e alla rappresentazione del dramma a Roma, avvenuta l’11 gennaio 1908. Il saggio è raccolto nel volume Nell’Arte e nella Scienza, di cui costituisce il capitolo quarto.
Lo scritto è anticipato lo stesso giorno da un articolo firmato, sempre da Sighele, su «Il Giornale d’Italia», dal titolo La psicologia della folla nella ‘Nave’ di Gabriele d’Annunzio, introdotto da una breve nota redazionale: «Il prossimo fascicolo della Nuova Antologia recherà un interessante acuto articolo di Scipio Sighele sulla Psicologia della folla nella ‘Nave’ di Gabriele d’Annunzio. Per cortesia del chiaro scrittore – che è uno scrittore colto e geniale – e della Direzione della Rivista possiamo pubblicare i brani più belli e più significativi dell’articolo». Nell’articolo si enfatizzano gli aspetti salienti della sua lettura del dramma dannunziano, ambientato nel 552 nella laguna veneta e ispirato agli eventi che condussero alla fondazione di Venezia e alla sua talassocrazia, decisiva per contrastare il dominio di Bisanzio. Il titolo prende spunto dall’imponente nave «Tuttilmondo» cui sono affidate le speranze di edificare nel mare le mura della città «intrisa d’acque».
La lettera di ringraziamento della copia del Forse che sì forse che no è l’ultimo contatto epistolare diretto tra i due, ma d’Annunzio è ormai un osservato speciale per Sighele. Lo conferma il fugace accenno contenuto nella lettera ai familiari del marzo 1910, in cui li informa dell’incontro imminente con Amelia Rosselli, Enrico Corradini e Antonio Beltramelli, previsto per una conferenza nella Sala Leonardo: «D’Annunzio, purtroppo, non è alle viste – e manca quindi il clou fiorentino. Ad ogni modo, come ben dice il cognac, noi conosciamo a poco a poco tutto il Plutarco italiano e siamo sempre in buona compagnia».
A proposito di intellettuali di primo piano, si legga l’incipit della lettera dell’8 aprile 1910, in cui informa la sorella Emma e il cognato Orsini di aver ascoltato una conferenza di Romain Rolland all’Institut Français: «La conferenza (sulla giovinezza di Mozart) fu nel complesso una delusione perché non conteneva nulla di nuovo e nulla di profondo […] È gobbo, macilento, giallo, un Leopardi con buona statura». Il ritratto di Rolland rievoca quello dello stesso d’Annunzio tratteggiato nella lettera del 31 marzo 1908, in cui Sighele lo dipinge «più brutto e più vecchio: tutto rimpicciolito, direi, e… prosciugato». Rolland, tuttavia, è apprezzato per la sua dizione: la conferenza «era detta bene, con disinvoltura da francese, che ogni tanto s’alzava dalla poltrona e andava al piano ad eseguire dei brani di musica». Tutto questo a conferma di un convincimento profondo: che un buono scrittore debba essere anche un buon oratore, dotato di una vis comunicativa in grado di coinvolgere l’uditorio.
La Tragedia della folla e il mito moderno de La nave
Nel capitolo primo di Letteratura tragica, intitolato L’opera di Gabriele d’Annunzio davanti alla psichiatria, Sighele inscrive d’Annunzio nel novero degli scrittori contemporanei che meglio di altri hanno saputo intercettare i gusti di un pubblico ampio e variegato, sfruttando le potenzialità pubblicitarie e pubblicistiche offerte dall’industria giornalistica ed editoriale del proprio tempo. Da La folla delinquente del 1891, al postumo Letteratura e sociologia (1914), passando per Letteratura tragica (1906), L’Intelligenza della folla (1910) e Nell’Arte e nella Scienza (1911), Sighele sviluppa un approccio epistemologico che vede nella convergenza tra letteratura, sociologia e criminologia una chiave di volta dell’indagine scientifica focalizzata sull’evoluzione dei fenomeni psicopatologici, soprattutto collettivi.
Il tema trova ampio spazio nel volume Nell’Arte e nella Scienza: dopo aver indagato L’amore e la morte nell’opera di Maurizio Barrès (capitolo primo) e proposto Leggendo Balzac (capitolo secondo), Sighele dedica ampio spazio al mondo dannunziano, cui riserva ben tre capitoli: il primo più lungo (I tipi femminili nell’opera di Gabriele d’Annunzio, capitolo terzo), il secondo di media lunghezza (La nave, capitolo quarto), il terzo più breve (Gabriele d’Annunzio e la folla, capitolo quinto). D’Annunzio stupisce per la capacità di dare forma e vita alle diverse sfaccettature patologiche dell’animo umano, colto nelle sue fluttuazioni individuali e collettive: «Forse colui che intuì più profondamente e più genialmente questa condizione necessaria della vita, colui che ebbe la più esatta visione della psicologia amorosa come della psicologia collettiva, fu Gabriele d’Annunzio». Sighele può concludere il primo paragrafo del saggio Gabriele d’Annunzio e la Folla, intitolato «Il misovulgo», tributando al poeta e al suo dramma parole encomiastiche:
Nell’opera del poeta io ho visto balenare quella verità scientifica che mi affatico modestamente da tempo a mettere in luce. Ho già cercato di dimostrare nel capitolo precedente che La Nave è, prescindendo dai meriti letterarî e teatrali della tragedia, una mirabile ricostruzione di psicologia collettiva primitiva perché l’anima della folla barbara vi palpita e freme come in pochissime altre opere d’arte. Ma non una sola tragedia Gabriele d’Annunzio intendeva dedicare al mistero dell’anima collettiva.
Il titolo del paragrafo è rivelatore dell’approccio talvolta caustico che Sighele riserva alle folle, soprattutto quando si riferisce alle descrizioni di un autore di ascendenza aristocratico-conservatrice come d’Annunzio. Seguono altri due paragrafi, «La tragedia della Folla» e «Il potere occulto della moltitudine», il cui spunto è tratto dalla vicenda editoriale della Tragedia della Folla, il progetto annunciato e mai realizzato da d’Annunzio: «A Sighele non erano infatti passati inosservati due annunci editoriali, posti nel recto di copertina delle edizioni trevesiane del 1899 del Sogno d’un tramonto d’autunno e della Gioconda. L’edizione del Sogno segnala di «prossima pubblicazione» La Gioconda e la Tragedia della Folla; nell’edizione della Gioconda le opere annunciate sono di nuovo La Tragedia della Folla e Frate Sole, mentre la Gioconda, «tragedia in 4 atti», è naturalmente inserita tra le opere pubblicate» (Lombardinilo 2020, p. 273).
Ma la Tragedia della Folla scompare ben presto dagli orizzonti dannunziani: mai realizzata, l’opera si aggiunge ad un lungo elenco di scritti annunciati e mai composti. Tale sospensione «denoterebbe l’interesse per una dimensione sociale, quella della folla, che d’Annunzio approfondisce nel corso degli anni anche attraverso la lettura degli aforismi di Gustave Le Bon, la cui edizione (presente nelle stanze del Vittoriale) reca evidenti segni di lettura» (Lombardinilo 2020, p. 273). D’altro canto, Le Vergini delle rocce avevano già sancito la presa di posizione di Claudio Cantelmo dinanzi al potere informe della massa, «cloaca informe» da cui è opportuno guardarsi, al netto della differente prospettiva retorica e politica palesata nel Discorso della siepe.
Per fugare i suoi dubbi, Sighele scrive direttamente alla Capponcina. È il 26 settembre 1909:
A Gabriele d’Annunzio
Sto rileggendo tutta l’opera sua per uno studio sui tipi di donna ch’ella ha creato. E nella Gioconda e nel Sogno d’un tramonto d’autunno (edizioni del 1899) leggo annunciata tra le opere in preparazione La tragedia della Folla.
Era forse il primo titolo della Nave?
Sono indiscreto a domandarglielo? Perdoni la curiosità d’uno studioso…
E accolga questa mia lettera come la prova del grande amore e della grandissima ammirazione con cui cerco di penetrare nel labirinto meraviglioso delle sue intuizioni psicologiche.
Devotamente
Scipio Sighele
La risposta del poeta non si fa attendere, riprodotta da Sighele nel volume L’intelligenza della folla (capitolo terzo, La folla e Gabriele d’Annunzio): «Ma non una sola tragedia Gabriele d’Annunzio intendeva dedicare al mistero dell’anima collettiva. Quando apparve la Nave, io mi risovvenni che alcuni anni innanzi il poeta aveva annunziato fra le sue prossime opere una che portava il titolo: La tragedia della folla, e gli scrissi chiedendogli se per avventura la Nave non fosse, sotto altro titolo, la stessa cosa della tragedia della folla. Egli rispose così»:
Nella Tragedia della folla intendevo di rappresentare per cinque episodî i vasti movimenti dell’anima innumerevole. I titoli degli episodî basteranno forse a darle un’idea chiara del mio intendimento: la Fame, la Pestilenza, la Paura, la Ribellione, la Vittoria. Ciascun episodio si svolgeva fra il Protagonista e la Folla. I protagonisti erano: un Condottiere, un Santo, una Sibilla, un Tribuno, un Messo: tipi di grande potenza ideale, ora dominatori, ora inspiratori, ora travolti: una voce e un cuore contro mille e mille voci, contro mille e mille cuori. La rappresentazione doveva esser fatta «sotto la specie dell’eterno». Difficile era il còmpito. Ma quale ebrezza scrivere un poema per grande orchestra! La mancanza dell’orchestra (cioè degli esecutori) e del teatro adatto mi sconfidò.<
Una parte dei miei studî e delle mie divinazioni passò in certe scene della Nave.
Confermate le sue ipotesi, il 16 ottobre 1909 così Sighele risponde:
La Sua lettera è stata per me un piacere e un orgoglio.
Nessuna cosa è più lieta che l’esser messo a parte del grande disegno di un Poeta, il quale voleva – e spero ancora vorrà – tradurre in forma d’arte il duello eterno fra l’individuo e la folla. E nessun orgoglio parmi maggiore di quello d’aver intuito che nella Nave il Poeta aveva cominciato a realizzare questo suo disegno.
Grazie, dunque, dal profondo del cuore. E grazie per la promessa di inviarmi il Suo nuovo romanzo, verso il quale è tesa la curiosità del pubblico. Io ritorno fra pochi giorni a Firenze, dove spero vederla anche per ripeterle a voce la mia gratitudine.
Sempre, con ammirazione.
Suo
Scipio Sighele
In attesa di concludere il nuovo romanzo, d’Annunzio riceve l’invito a partecipare all’inaugurazione del nuovo anno sociale dell’associazione «Pro-Cultura» di Firenze, in cui Sighele svolge una conferenza su Cesare Lombroso, il 17 novembre 1909.
Il trasferimento del poeta in Francia segna anche la conclusione della produzione narrativa: la pubblicazione del Forse che sì forse che no (1910), il romanzo della velocità e del progresso, segna il passaggio di consegne dal mito della nave (con cui si chiude il dramma marino) a quello dell’automobile e all’aereo, simboli di una modernità diffusa in ogni andito della realtà quotidiana. Il passo successivo è rappresentato dalla possibilità di riprodurre l’esistenza, che la fotografia prima e il cinema poi realizzano su scala mondiale. Ben prima dell’avvento del mainstream, d’Annunzio intuisce la portata comunicativa del nuovo medium, avendone avvertito la presa sul pubblico e le potenzialità espressive. La trasposizione filmica della Nave, realizzata nel 1921 (prima versione datata 1912) sotto la supervisione del Comandante di stanza a Fiume, sancisce il passaggio definitivo all’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Sullo sfondo, il conflitto perpetuo tra l’individuo e la folla, o per meglio dire tra l’autore e il pubblico, sottoposti alle innovazioni semiotiche della società di massa a venire.
Il caso della Canzone dei Dardanelli e la morte prematura
Il rapporto tra Sighele e d’Annunzio testimonia una insospettabile convergenza tra sociologia, criminologia e letteratura, nel segno dell’analisi psicopatologica della modernità urbana. Le lettere ai familiari documentano il lento ma progressivo mutamento di giudizio di Sighele su d’Annunzio: criticate l’Ode a Roma («Pare un pazzo») e l’Ode a Carducci («L’erede è degno del morto»), lo studioso si entusiasma per La nave, di cui apprezza il valore morale, civile e sociologico, «salvo le solite pazzie caratteristiche dannunziane».
Gli elogi per Francesca da Rimini, Fedra e Forse che sì forse che no suggellano l’ammirazione per i personaggi psico-patologici dannunziani, in cui lo studioso riscontra una cifra di modernità assoluta, abilmente esplicitata dallo scrittore tanto nel teatro e nei romanzi, quanto nell’attività pubblicistica ed oratoria. Questo è uno dei fattori che fanno di d’Annunzio un personaggio di primo piano della scena nazionale ed internazionale, almeno per Sighele. La Canzone dei Dardanelli ha il merito di riabilitare l’immagine un po’ sbiadita del poeta, tornato in auge con la trovata «mirabolante» dei puntini di sospensione.
La pubblicazione delle nove Canzoni delle gesta d’oltremare per il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini (8 ottobre 1911-24 gennaio 1912) rischiava evidentemente di tramutarsi in caso diplomatico. La decima, la Canzone dei Dardanelli, è censurata dal «Corriere» per i suoi accenti anti-austriaci. D’Annunzio, piccato, la inserisce nel quarto libro delle Laudi, Merope, la cui prima edizione, stampata il 24 gennaio 1912, viene sequestrata immediatamente in tipografia dal governo di Giovanni Giolitti.
La seconda edizione, uscita nelle librerie due giorni dopo, è priva delle cinque terzine incriminate perché «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano» (vale a dire l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe). I versi sono sostituiti da puntini di sospensione, con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d’Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d’A.». La vicenda fa scalpore, a conferma della spregiudicatezza pubblicitaria del poeta, che volge l’azione censoria a suo favore, almeno in termini promozionali. I versi saranno poi reintegrati nella terza edizione del volume (luglio 1915).
Sighele apprezza non solo le ragioni patriottiche a fondamento della canzone, ma anche i risvolti comunicativi dell’operazione, amplificata a livello internazionale proprio dalla scelta del poeta di sostituire le terzine incriminate con puntini di sospensione. Sighele segue infatti attentamente le vicende di Tripoli e della Cirenaica: apprendiamo che è stato invitato a tenere una conferenza nella sala Leonardo (mai realizzata) e a ricevere un giornalista inglese «espressamente invitato da un grande editore di Londra, per scrivere un libro su “La Nuova” Italia, Tripoli e il nazionalismo. – Lo scopo è di rispondere a tutte le infamie e le bugie della stampa inglese».
La diatriba sorta intorno alla Canzone dei Dardanelli non fa che rafforzare il sentimento patriottico di quanti, come Sighele, vedevano nel nazionalismo un tratto fondante l’identità italiana. L’8 marzo ne scrive al nipote Gualtiero, corrispondente di guerra in Tripolitania. Il giovane aveva ricevuto una copia di Merope con i 15 versi integrati di suo pugno dal poeta, in quel momento di stanza ad Arcachon:
E finalmente passo a Walter col fattaccio arcachonico ultra magnifico, pazzesco, mirabolante per il pensiero divino dei 15 versi scritti in sanguigno. Un volume che ha un valore inestimabile! Evviva D’Annunzio!
Della guerra, è meglio non parlare perché siamo nel period in cui il primissimo entusiasmo è un po’ stanco e si prepara – io almeno spero e credo – la fase risolutiva. Capisco quel io fremo di Tero, ma, ripeto, stavolta lo zio non è sempre d’accordo col nipote – e mi sembrerebbe per un infinito complesso di ragioni che il Parvae Arces non dovesse muoversi. Bisogna restare il precursore – come ti sacrò Gabriele – e non diventare il corrispondente di guerra. Bisogna soprattutto avere la linea: ossia non oltrepassare la linea: ossia non forzare la nota, e non far della guerra l’unico pensiero e l’unico argomento. Tu hai fatto quello che hai fatto: è bellissimo: e basta come luminoso preludio. Adesso devi andare più in alto, ancora, per altre vie. Intendo, per vie che non sian quelle di fare il corrispondente di guerra.
Lo zio suggerisce al nipote di non correre il rischio di imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica come semplice corrispondente di guerra. Castellini aveva infatti all’attivo le corrispondenze africane dell’inizio del 1911 e quelle prodotte dal fronte libico per la «Gazzetta di Venezia». A queste si sarebbero aggiunte le corrispondenze di guerra inviate dall’ottobre 1912 al maggio 1913 dal fronte balcanico all’«L’Illustrazione italiana», senza considerare il diario scritto durante l’impegno bellico nella Grande Guerra.
Lo zio non avrà il tempo di plaudere alle imprese belliche di d’Annunzio, né di consigliare il nipote impegnato sul fronte francese della Grande Guerra. La morte lo coglie il 21 ottobre 1913 a Firenze. Pochi anni dopo scompare anche il nipote Gualtiero: a stroncarlo, a ventotto anni, è una infezione da polmonite contratta a Saint-Imoges, il 15 giugno 1918, dopo la ritirata di Caporetto. D’Annunzio sfiderà i cieli e l’Adriatico, rivendicando i diritti di quell’italianità irredenta profondamente avvertita sia da Castellini che da Sighele, ammiratore della prima ora delle psicopatologie dei personaggi dannunziani.
Bibliografia essenziale
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Maria Garbari, Società ed istituzioni in Italia nelle opere sociologiche di Scipio Sighele, Trento Società di studi trentini di scienze storiche, 1988.
Scipio Sighele, Letteratura e sociologia, Milano, Treves, 1914.
Scipio Sighele, Nell’Arte e nella Scienza, Milano, Treves, 1911.
Scipio Sighele, I tipi femminili nell’opera di Gabriele d’Annunzio, in «Nuova Antologia», febbraio 1911, pp. 609-629.
Scipio Sighele, L’intelligenza della folla (1903), Milano, Bocca, 19102.
Scipio Sighele, La psicologia della folla nella ‘Nave’ di Gabriele d’Annunzio, in «Nuova Antologia», 16 marzo 1908, pp. 279-292.
Scipio Sighele, Letteratura tragica, Milano, Treves, 1906.
Scipio Sighele, La ‘Francesca’ di Gabriele d’Annunzio, in «Nuova Antologia», 16 maggio 1902, pp. 311-318.
Scipio Sighele, Delitti e delinquenti danteschi, Conferenza tenuta in Rovereto nel palazzo della pubblica istruzione, li 4 Ottobre 1896, Trento, Società degli studenti trentini.
Scipio Sighele, La folla delinquente (1891), a cura di Clara Gallini, Venezia, Marsilio, 1985.
Bibliografia secondaria
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Andrea Lombardinilo, Il velo dell’avvenire: Scipio Sighele e i reati danteschi, «Studi medievali e moderni», n. 1-2/2021, pp. 597-622.
Andrea Lombardinilo, L’anima collettiva: Dante, Sighele e l’influenza d’ambiente, in Antonio Sorella (a cura di), Integrazioni all’esegesi dantesca nel cinquecentenario della morte di Bernardo Bembo, Firenze, Franco Cesati editore, 2021, pp. 299-356.
Andrea Lombardinilo, «Uno dei maggiori uomini moderni». D’Annunzio, Sighele e Francesca da Rimini, in «Biblioteca di Via Senato», n. 7-8, 2018, pp. 58-63.
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