di Elena Aceto, Enciclopedia dannunziana
La città natale
Com’è noto, Gabriele d’Annunzio nasce a Pescara, all’alba del 12 marzo 1863 – non a bordo di un brigantino in alto mare, come gli piace far credere al pubblico francese avido di notizie circa il misterioso autore de L’Intrus – bensì nella casa in Corso Manthonè, all’altezza del numero civico 116. E, più di preciso, nel letto di Francesco Paolo e di Donna Luisa, all’interno di quella camera che per il poeta sarà sempre sacra (tanto che Michele Cascella la eleverà a soggetto di una sua tela), come i tre «gradini d’altare» che ad essa portano, inviolabili a tal punto da divenire motivo di attrito con l’architetto, nonché cognato, Antonino Liberi, che nella sua proposta di ristrutturazione prevedeva di abbatterli.Il poeta, urtato per questo affronto, lo rimpiazzerà per l’occasione con l’artefice del Vittoriale, Gian Carlo Maroni.
Appena undicenne, d’Annunzio è costretto a lasciare la sua città per volere del padre: la meta è il prestigioso collegio Cicognini di Prato, al quale secondo Francesco Paolo spetta l’onere di “toscanizzare” la lingua del figlio, quel«dialetto nativo» che lo induceva a «declinare il nome della rosa pronunziandolo come fosse il participio passato del verbo ródere» (G. d’Annunzio, 1950, p. 152).
Salutata Pescara nel novembre del 1874, il giovane d’Annunzio vi tornerà solo il 15 agosto del 1878, e qui rimarrà fino a novembre per prepararsi,privatamente, in vista del conseguimento della licenza ginnasiale a Chieti. Da quest’anno le vacanze estive del collegiale verranno trascorse nella città natale, spese nell’ardore poetico, con la messa a punto delle edizioni di Primo Vere, come pure nel consolidamento, dal 1880 in poi, di un’amicizia destinata ad evolversi in profondo sodalizio, quella con Francesco Paolo Michetti e il “Cenacolo” francavillese.
Al novembre del 1881 risale il trasferimento a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia; nei fatti l’urbe si rivela appetibile agli occhi del giovane poeta per la vivacità degli ambienti letterari e giornalistici, che lo distoglieranno dalle lezioni e dal conseguimento della laurea.Ma d’Annunzio non dimentica di partecipare in terra natale al comizio convocato per discutere il progetto relativo alla costruzione del porto-canale, caldeggiato proprio dal padre, allora sindaco di Pescara. Lo testimonia nel settembre del 1882 lo scritto dal titolo Aternum pubblicato su «Capitan Fracassa», nel quale egli rende conto del dibattito e prefigura la già allora tanto desiderata unificazione di Pescara e Castellamare:
Il banchetto fu splendido, geniale, scoppiettante di turaccioli […] Fra il calore lucido dello champagne c’era già chi intravedeva nell’azzurro e nel sole dell’avvenire una grande città risorta, la nuova Aterno, abitata dai popoli delle due sponde, traversata dal grande fiume canale, florida, concorde, libera, in faccia a questo divino Adriatico pieno di leggende e di gloria… (G. d’Annunzio, 1996, pp. 187-188).
Pescara si rivelerà ancora un porto sicuro nel settembre del 1883, quando il poeta e la moglie, la duchessina Maria Hardouin di Gallese,in cerca di un tetto coniugale lontano dai creditori romani, si stabiliranno nella Villa del Fuoco, podere di famiglia situatoin Via Salara Vecchia, fino al dicembre dell’anno successivo. Tornato nell’urbe, la città natale sarà per lui meta esclusivamente estiva negli anni dal 1884 al 1888. Da questo momento in poi la sua «terra d’Abruzzi» lo ospiterà poco lontano dalla casa natale, accogliendolo prima al Convento Michettiano e, dopo gli anni napoletani, al villino Mammarella, entrambi a Francavilla al Mare.
Dopo essersi stabilito a Firenze, il poeta torna a Pescara nel giugno 1904 per ricevere la cittadinanza onoraria dalla città di Chieti e poi sei anni dopo, dal 17 al 21 marzo del 1910, prima di dare avvio all’ “esilio volontario” in Francia. Da Arcachon rifiuterà, nel 1913, il dono di una spaziosa dimora da parte del comune di Pescara, in occasione del suo cinquantesimo genetliaco. Al 30 giugno 1915 risale quello che si rivelerà il suo penultimo ritorno in patria: Donna Luisa è malata e il figlio, in divisa, le fa visita. Tornerà in Corso Manthoné due anni dopo, in occasione del funerale della madre. Il 28 gennaio 1917 Pescara ospiterà per l’ultima volta il suo Gabriele d’Annunzio.
Pescara nell’opera del giovane d’Annunzio
In data 20 agosto 1880 il giovanissimo Gabriele, tornato a casa per le vacanze estive, scrive così all’amico collegiale Giovanni Cucchiari:
Ti scrivo con la testa rintronata orribilmente da’rumori di quattro bande musicali (molto bande e poco musicali), da gli urli de’ venditori, dagli scoppi de’ mortaletti, dallo scalpitìo de’ cavalli, dal…diavolo che si porti via tutti i promotori di feste popolari. Lo dico su l’serio: son qui semivivo; tre giorni, capisci? Tre giorni di fracasso febbrile, infernale, come non n’ho sentito mai. Le strade rigurgitano di gente antipatica e forestiera; qui di faccia un organino non si cheta mai con quella noiosissima «Casta Diva»; più in là, in piazza, una compagnia di saltimbanchi mi lacera le orecchie a furia di strombettare; in fondo il maledettissimo campanile con le tre campane esultanti…insomma è un inferno, l’ho detto, è un inferno.
È la festa di S. Cetteo cittadino! Beato te! […] Ora, ora…appena finita questa lettera, mi vesto, mi metto il gran cappello di paglia da ‘l bianco velo, faccio sellare l’arabo, e via…Tornerò in città a notte. (I. Ciani, 1988, p. 13)
L’esibita insofferenza verso il bailamme prodotto dai festeggiamenti del patrono pescarese, San Cetteo, non dev’essere frutto di uno stato emotivo contingente, se l’anno successivo, il 18 agosto, essa si ripresenta invariata, sebbene in una lettera indirizzata ad un diverso (e forse più caro) destinatario, il primo grande amore, Giselda Zucconi:
Ah, ma sai una cosa? Sabato qui cominceranno le feste di un certo Santo Cetteo, che so io; sarà un baccano orribile. Figurati una festa in una piccola città, e in una città meridionale. Bande che son piuttosto di masnadieri che di musici, e poi migliaia e migliaia di mortaletti, e globi areostatici, e corse di cavalli, e fuochi d’artifizio, e grande meravigliosa ascensione di Monsieur Blondeau su di una enorme mongolfiera… Io non so come fare! Prenderò Silvano che sta in riposo da diversi giorni, e me ne andrò pei solitari lidi; e i Pescaresi dicano di me quel che più loro piace, mi chiamino selvaggio e lupo di mare. (G. d’Annunzio, 1985, p. 197)
Più che disprezzo, ciò che il giovane Gabriele nutre verso l’esuberanza “meridionale” dei compaesani è un certo distacco: l’autore di Primo Vere (1879) infatti aveva coniugato una sentita ispirazione carducciana con la volontà di divulgare le bellezze dell’Abruzzo, e tra esse anchel’“azzurro” profilo della sua Pescara, tutta costruita per lui sul trittico fiume-mare-monti, che primeggia in Ex imo corde così come in Vespro d’agosto.
Per ora è solo l’elemento naturale a campeggiare nei suoi scritti, mentre gli usi e costumi della sua gente sembrano essere esclusi. Per questo in Ex imo corde è il cielo pescarese a possedere il merito di averlo fatto poeta («Ah sì, le calme de ‘l tuo ciel divine | mi fecero poeta»; G. d’Annunzio, 1995, p. 9), è la pineta ad avergli regalato i migliori ricordi d’infanzia («tra la pineta mia dov’ho passati | i momenti più belli»; Ibidem), sono verosimilmente le spiagge lungo le quali va a cavallo a materializzare ai suoi occhi le infinite possibilità della gioventù («con quale ebrezza su’ tuoi lieti piani | sorvolo galoppando | a un’incognita mèta, i più lontani | orizzonti agognando»; Ivi, p. 11). Quella pescarese è una natura pervasa dalla giovinezza dell’io poetico, una giovinezza dominata dai sensi, in special modo dalla vista e dall’ udito, come d’altronde testimoniano gli stimoli diegetici attorno a cui ruota Vespro d’agosto (i colori delle «sette vele latine» e le note di una «canzon selvaggia»; Ivi, p. 47).
In Terra vergine(1882)l’indifferenza verso gli usi e i costumi dei suoi conterranei sembra lasciare il passo ad uno sguardo “scientifico” sul popolo abruzzese: d’altronde la scelta del dedicatario, Giovanni Chiarini (esploratore abruzzese morto in Africa), rivela un’ «affinità di intenti tra esploratori di terre vergini» (G. Oliva, 1995, p. XVII); un’esplorazione che, nel caso di d’Annunzio, viene svolta sotto la guida di quello sperimentalismo naturalista che ispirerà anche le Novelle della Pescara.
In Terra vergine c’è subito spazio per la sua Pescara, i cui contorni sono affrescati proprio nella novella Cincinnato, la prima ad essere anticipata dai giornali romani, e nello specifico dal «Fanfulla della Domenica», che la pubblica il 12 dicembre 1880.Mentre l’io narrante assume come punto di osservazione soprattutto la casa di corso Manthoné e il ponte sul fiume («stavo solo sul ponte a veder rientrar le barche pescherecce»; G. d’Annunzio, 1995, p. 17), si delineano Porta Nuova, le caserme, piazza Garibaldi («la gran piazza deserta»; Ibidem), la Maiella sullo sfondo («le montagne violacee si disegnavano sull’orizzonte proprio come un “ciclope supino”; Ivi, p. 18) e le suggestioni uditive sono fornite ancora da una canzone popolare, di cui Cincinnato canticchia un verso («Amòr amòr acciùccheme ‘ssa ràme…»; Ivi, p. 19). Gli altri bozzetti della raccolta aggiungono ancora qualche dettaglio ambientale della città natale, come lo scoglio de’ Forroni e la Dogana in Dalfino, o il cimitero di San Donato in Fra’ Lucerta.
L’umanità di questa raccolta, fatta di “idoli” barbarici mossida un impulso che è tanto sessuale quanto fagico e calati in una natura nella quale istintivamente si fondono, è in realtà debitrice per larga parte alla pittura michettiana, che in questi anni va elaborando un’immagine della sua regione che possa risultare appetibile per la cultura italiana ed internazionale. Nei fatti l’Abruzzo e Pescara sono rappresentati da d’Annunzio come «una terra immersa ancora nella barbarie, rampollante di acri impulsi dettati dalla più truce violenza» (E. Paratore, 1988, p. 8), dalla quale però emerge un tratto pescarese che sarà costitutivo dell’autore come dell’uomo, ovvero la capacità di «prendere possesso, per via sensuale, della natura» (I. Ciani, 1996, p. 9), capacità che presto diventerà unica modalità conoscitiva, trasformandosi in un «priapismo fisico e cerebrale» (M. Serra, 2019, p. 171).
Le Novelle della Pescara (1902) proseguono l’esplorazione de «la terra d’Abruzzi» distanziandosi dai modi del naturalismo eoperando un ulteriore affondo nell’umano. Testo «ritoccato e rivisto alla luce di una acquisita maturità di scrittura» (G. Oliva, 1995, p. 60), ingloba in buona sostanza una novella dal Libro delle vergini (1884), quindici novelle da San Pantaleone (1886) e due da I violenti (1892), alle quali vengono apportate non poche modifiche.Le “figurine” abruzzesi acquisisconouna maggiore tridimensionalità,all’interno di un’atmosfera mitica dalla quale emergono alcune cifre stilistiche care al d’Annunzio romanziere, orgoglioso propugnatore del «bisogno del sogno». Così in La vergine Orsola luoghi e individui pescaresi, come il forno Flaiano, di nuovo l’Arco di Portanuova, il medico Vincenzo Bucci, il prete Gennaro Tierno, coabitano il tessuto narrativo con un utilizzo estetizzante della materia religiosa, con l’ossessione iperdescrittiva per la malattia, con il dominio incontrastato dei sensi: la terra natale riemergerà nelle ultime pagine della novella, incarnata nel personaggio del mago Spacone di San Rocco (anch’essa figura tratta dal vero), emblema di superstizione e ignoranza, i cui filtri uccideranno la povera peccatrice protagonista del racconto.
La vergine Orsola offre anche altri scorci pescaresi. La donna abita tra piazza del Municipio e corso Manthoné, proprio di fronte al palazzo di Brina, luoghi così descritti:
Fuori, era la novena di Natale […] Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L’odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell’aria dalle cantine aperte. Lentamente alle finestre, alle porte, nelle vie i lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della casa di Farina, su i comignoli della casa di Memma, sul campanile di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari sul paese occupato dall’ombra. Poi, d’un tratto, la notte cominciava a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant’Agostino, una mezza luna si affacciava dal bastione, tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo. (G. d’Annunzio, 1995, p. 68)
Lo sguardo di Orsola si sofferma inoltre su uno scorcio d’interno che risulta «prezioso nell’unicità documentaria» (I. Ciani, 1996, p. 19), quello della chiesa di San Cetteo:
Così predicava Don Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall’altare maggiore, vòlto al popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza persona della SS. Trinità apriva l’arco radioso delle ali d’oro, e nella chiesa l’illuminazione dei ceri spandeva un rossore simile a un riflesso d’incendio. Gli enormi pilastri di pietra sostenenti le due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano verso l’altare pesantemente; su le pareti gli avanzi dei mosaici rilucevano: qualche testa di Apostolo, qualche braccio rigido di Santa, qualche ala d’angelo, emergeva ancóra nell’offuscamento e nello scrostamento operato dai secoli. Tra i mosaici pendevano piccole navi ex-voto dedicate al tempio dai naufraghi superstiti. E in mezzo alle pietre rudi e alle croste fosche si elevava agile un gruppo di colonne rosee a spira sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di acanti e animato di bassorilievi. (G. d’Annunzio, 1995, p. 88)
Ne Gli idolatri e ne L’eroe la diegesi, imperniata sulla rivalità tra due paesi che sorgono sulle rive opposte dello stesso fiume, e quindi largamente ispirata alla cronaca pescarese, si nutre di uno stile impressionistico che accosta il materiale metallico dei simulacri ai corpi dei fedeli in lotta fra loro, restituendo una palette cromatica che dà forza ad un’ambientazione resa scenario apocalittico dalla fede cieca. La stessa palette, che appartiene alla natura quanto agli uomini (il bronzo degli orecchini tipici, il rame della pelle e dei capelli, il bianco dei denti), informa le novelle successive insieme ai rilievi olfattivi, anch’essi marchio sensitivo della regione (gli incensi e la cera delle candele).
Tornando alle novelle espressamente ambientate a Pescara, La contessa di Amalfi coglie non solo lo stile di vita della piccola e media borghesia pescarese e le sue abitudini nel tempo libero, ma offre anche testimonianza dei luoghi adibiti a tali svaghi. Si cita infatti quello che diventerà il Circolo Aternino («il casino, una specie di bottega del caffè», Ivi, p. 146) in piazza del Municipio, ma anche il teatro, descritto anch’esso con una precisione “documentaria”:
Il teatro era in una sala dell’antico ospedale militare, all’estremità del paese, verso la marina. La sala era bassa, stretta e lunga come un corridoio: il palco scenico, tutto di legname e di carta dipinta, s’inalzava pochi palmi da terra; contro le pareti maggiori stavano le tribune, costruite d’assi e di tavole, ricoperte di bandiere tricolori, ornate di festoni. Il sipario, opera insigne di Cucuzzitto figlio di Cucuzzitto, raffigurava la Tragedia, la Comedia e la Musica allacciate come le tre Grazie e trasvolanti sul ponte a battelli sotto cui passava la Pescara turchina. Le sedie, tolte alle chiese, occupavano metà della platea. Le panche, tolte alle scuole, occupavano il resto. (Ivi, p. 147)
Della borghesia cittadina si citano pure i singoli personaggi, colti nelle loro vesti migliori in occasione dello spettacolo teatrale e descritti alla stregua di quella bella società delle toilettes romane che il d’Annunzio cronista mondano aveva dipinto per la «Tribuna»: Teodolinda Pomàrici e il dottor Panzoni sono due dei tanti.
Euforica per l’arrivo della compagnia teatrale, tutta la città di Pescara è rapita, inebriata da una incontenibile «manìa musicale» che non è altro che desiderio sessuale nei confronti dell’attrice Violetta Kutafà:
E Violetta Kutufà conquistò Pescara.
Per oltre un mese le rappresentazioni dell’opera del cavaliere Petrella si seguirono con favore crescente. Il teatro era sempre pieno, gremito. […] Un singolare fenomeno avveniva: tutta la popolazione di Pescara pareva presa da una specie di manìa musicale; tutta la vita pescarese pareva chiusa nel circolo magico di una melodia unica, di quella ov’è la farfalla che scherza tra i fiori. […] Le facoltà musiche e liriche, le quali nel popolo aternino sono nativamente vivissime, ebbero allora una espansione senza limiti. (Ivi, pp. 151-152)
D’Annunzio descrive la sua Pescara come un corpo unico, animato dalla musica e dalla voluttà, a tratti ridicolo e goffo come il protagonista della novella, Don Giovanni Ussorio, il quale, torturato dall’abbandono della sua Violetta, tenterà di guarire la sua follia amorosa trasferendo i tratti dell’amata su quelli di Rosa Catana e anticipando, seppur con una disperazione di matrice plebea, gli artifici dello Sperelli ne Il piacere.
Altra novella ambientata a Pescara è La fine di Candia che, pur non aggiungendo luoghi nuovi, è tutta imperniata sul pettegolezzo e sulla malignità del giudizio popolare, che finisce per annichilire la lavandaia Candia. Accusata di aver rubato un cucchiaio alla padrona, la donna cerca disperatamente di inserirsi negli stessi circuiti del gossip paesano che l’hanno condannata per dimostrare la sua innocenza, finendo però per perdere lucidità e, con essa, la vita.
La fattura implementa il quadro pescarese di un nuovo luogo, la taverna di Assaù, posta «In su la sinistra riva» (Ivi, p. 200) del fiume, lungo cui il proprietario traghetta i clienti grazie ad un «paliscalmo» (Ibidem); la novella aggiunge pure i tratti tipicamente attribuiti al popolo pescarese, l’arguzia e il gusto per la burla, che contraddistinguono sia Ciàvola che il Ristabilito, coppia di furfanti che prende le mosse da quella collodiana del gatto e della volpe per rappresentare il modello del “beffardo” pescarese.
Un’altra taverna viene citata nella novella I marenghi, quella dell’Africana; La guerra del ponte ha invece un carattere del tutto particolare, poiché viene presentata come un «frammento di cronaca pescarese» (Ivi, p. 220): a metà anni ’60, la rivalità tra i paesi di Pescara e Castellamare spinge i castellamaresi ad appigliarsi al rischio sanitario di diffusione del colera per vietare ai pescaresi l’accesso ai mercati del teramano, fondamentali per l’economia di questi ultimi. Se in un primo momento sembrano campeggiare sulla pagina l’anatomia di Pescara, di cui vengono forniti nuovi dettagli, i fremiti del suo popolo, gli espedienti dei consiglieri, dopo poco «la mite virtù del sole […] pacificò le ire» (Ivi, p. 227), e unitamente al tiepido e languido sole autunnale si fa strada nell’animo degli insorti la voluttà, scaturita dalla vista delle «femmine del contado tutte in vesti di seta multicolori e coperte di gioielli giganteschi» (Ibidem). L’apice del desiderio viene raggiunto con l’entrata in scena di Ciccarina, «la bella delle belle, la rosa delle rose, l’amorosa pèsca, colei che tutti han desiato» (Ivi, p. 228), affacciata al balcone della sua casa in corso Manthoné, il cui sorriso abbaglia come la luce del sole e ha il potere di riappacificare gli animi sediziosi.
Turlendana ritorna coglie le donne pescaresi mentre vendono «la pesca recente dentro ampi canestri di giunco» (Ivi, p. 232) sotto la porta della città e «le tanecche coperte di sale» (Ivi, p. 233) che danzano al ritmo del fiume; la novella contiene anche una delle più suggestive descrizioni del litorale pescarese, che il protagonista, con al seguito la sua esotica compagnia animale, rivede dopo «molti anni d’assenza» (Ivi, p. 230) dalla patria:
Già per i chiari poggi litorali ricominciava la primavera; l’umile catena era verde, e il verde di varie verdure distinto; e ciascuna cima aveva una corona d’alberi fioriti. Allo spirar del maestro quelli alberi si movevano; e nel moto forse si spogliavano di molti fiori, poiché alla breve distanza le alture parevano coprirsi d’un colore tra il roseo e il violaceo, e tutta la veduta un istante pareva tremare e impallidire come un’imagine a traverso il vel dell’acqua o come una pittura che lavata si stinge.
Il mare si distendeva in una serenità quasi verginale, lungo la costa lievemente lunata verso austro, avendo nello splendore la vivezza d’una turchese di Persia. Qua e là, segnando il passaggio delle correnti, alcune zone di più cupa tinta serpeggiavano. (Ibidem)
In Turlendana ebro il protagonista, straniero nella sua terra poiché creduto morto in mare, subirà la crudeltà di Pescara: dapprima venendo ignorato dalle varie bestie del paese, dalle quali cerca l’accoglienza negatagli dagli uomini, e poi scoprendo che i concittadini hanno ucciso il suo amato cammello, Barbarà, e fatto scempio della sua carcassa.<
Ne Il cerusico di mare la città non compare, ma si osserva la comunità marinara pescarese, fatta di «uomini superstiziosi e diffidenti» (Ivi, p. 248) che, dopo essersi improvvisati chirurghi per salvare uno di loro, Gialluca, da un’escrescenza tumorale che sta per soffocarlo, perdono il compagno a seguito dell’operazione e, temendo di venire incolpati della sua morte, lo gettano in mare. Ai marinai compaesani che incontreranno al porto di Spalato giustificheranno l’assenza del compagno con la ferocia del fortunale; un microcosmo, quello marinaro, assuefatto alla morte in nome del bene superiore della patria, glorificato nella chiusa della novella: «Addie! Addie! A Piscare! A Piscare!» (Ivi, p. 249).
Nel d’Annunzio novelliere la città natale sembra concepita come propaggine fluviale e marina di quell’Abruzzo mitico e bestiale che informa le novelle ambientate nell’entroterra della regione. Sebbene si colga la volontà di esibire la conoscenza approfondita di tanti luoghi di interesse di Pescara, questi risultanoimpermeabili agli slanci affettivi che invece ritraggono i paesaggi naturali: di questo distacco è sicuramente responsabile il cartone naturalista, che tuttavia sembra maneggiato come pretesto per indurre una distanza emotiva, soprattutto dalla varia umanità che affresca e alla quale riserva sempre una morte che è pena e al contempo salvezza.
Pescara nel d’Annunzio delle prose intime
Dopo la pubblicazione di San Pantaleone (1886) sarà Villa del Fuoco a offrire sostanzioso nutrimento per l’ideazione di alcuni degli spazi più emblematici della Trilogia della Rosa: ne L’innocente (1892)il profilo del tetto coniugale di d’Annunzio e della Hardouin è riconoscibile nella Badiola; ne Il trionfo della morte(1894)la dimora di via Salara Vecchia ospiterà il padre di Giorgio Aurispa, mentre la casa natale, abitata dalla madre e dalla zia del protagonista, apparirà dislocata a Guardiagrele per esigenze narrative.
Bisogna però attendere le Laudi, e nello specifico Maia(1903), per rintracciare il bisogno del ritorno al «focolare», che coincide con la madre e le sorelle, ma anche con l’elemento naturale:
[…] pel sangue mi corse
pensier della madre lontana,
pensier delle dolci sorelle
e del mio focolare.
E m’apparve il bel fiume ove nato
fui di stirpe sabella,
Aterno di rossa corrente
cui cavalca il ponte construtto
di carene di travi
d’ormeggi, spalmato di pece,
in vista al monte nevoso
che ha forma d’ubero pieno. (G. d’Annunzio, 1995, p. 80)
Da qui in poi l’Abruzzo e Pescara emergeranno nell’arte dannunziana come malinconica rievocazione, nostalgico ricordo e spirituale rifugio, finendo per significare la memoria della gioventù perduta; in particolare, la casa natìa veicolerà l’immagine di quel «fanciullo lasciato alla finestra ad osservare il cortile e a udire i rumori della strada» (G. Oliva, 2007, p. 126), così tristemente lontano dall’uomo del momento presente, teso al «vivere inimitabile».
È quanto accade ad esempio nel Notturno (1916), in cui le ultime visite alla città natale e alla madre ispirano pagine pregne di quell’adesione emotiva che sembrava mancare nelle prove naturaliste:
Le mura di Pescara, l’arco di mattone, la chiesa screpolata, la piazza coi suoi alberi patiti, l’angolo della mia casa negletta.
È la piccola patria. È sensibile qua e là come la mia pelle. Si ghiaccia con me, si scalda in me. Quel che è vecchio mi tocca, quel che è nuovo mi repugna. La mia angoscia porta tutta la sua gente e tutte le sue età. (G. d’Annunzio, 1995, p. 149)
Pescara viene rivissuta nella memoria attraverso la sensibilità tattile, la più viva nel presente del poeta bendato, per poi lasciare spazio ad una visione che ripercorre l’ultima visita alla madre inferma, avvenuta il 30 giugno del 1915. Le stanze della casa natale, attraversate come “stazioni” di una nuova Via Crucis, conservano negli oggetti e nei ricordi dell’infanzia un passato che stride angosciosamente con la «cosa informe» (Ivi, p. 150) che è diventata la madre, con la durezza del presente.
Qualche pagina più avanti saranno le lacrime del poeta, scese dall’occhio infiammato, a riportarlo alla «piccola patria» con una metafora, una sorta di associazione proustiana che a ben vedere rinvia alla giovinezza dell’autore di Vespro d’agosto:
La lacrimazione dell’occhio infiammato mi cola sino alla commessura delle labbra. L’amaro si mescola al sapore metallico.
Penso ai pescatori della Pescara che partono con le belle paranze dipinte, prima dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto del sale in bocca. (Ivi, p. 160)
Tra le tante visioni di cui l’autore del Notturno si nutre nel buio forzato emerge un altro ricordo dalla «puerizia»:
Vidi, in non so qual giorno della mia puerizia, laggiù nella mia terra di Pescara, lungo la proda di non so qual campo, un pezzo di pane posato sopra un termine di pietra.
Nessuno passando lo prendeva.
Neppur io lo presi. (Ivi, p. 203)
E di nuovo, stavolta seguendo l’immagine delle carcasse dei cavalli massacrati durante la guerra, si torna alla memoria del cavallo Aquilino, all’infanzia, e quindi alla città:
Ecco che mi riconduci anche quello che fu il prediletto della mia infanzia nell’agio della mia casa, quando mia madre era il fiore pensoso della più sana giovinezza nella mia terra di Pescara. (Ivi, p. 211)
La Pescara del Notturno è sede di una stagione della vita, la più lontana, rievocata per l’intima necessità di fare presente il passato, e con quest’ultimo finisce per coincidere, assorbendo il dramma del limite umano. Pertanto è cosa diversa rispetto alla colorata e viva scenografia di Terra vergine e delle Novelle della Pescara: diventa spazio dell’identità, dilatazione di sé stesso e dei suoi affetti che sembra aiutare il poeta malato a ritrovarsi e riconoscersi.
Per questo anche ne Il secondo amante di Lucrezia Buti (1929) torna la Pescara della «puerizia». D’Annunzio ricorda:
Avevo nove anni. Ero fuggito di casa per correre all’approdo delle paranze nella foce della Pescara, per raggiungere alla banchina un mózzo ortonese mio stregato che soleva portarmi qualche «frutto di mare» stillante e fragrante nella sua berretta crèmisi. (G. d’Annunzio, 1950, p. 181)
Per aprire il frutto di mare con un coltello il piccolo Gabriele si ferisce alla mano; intrepido, decide di non chiedere aiuto a nessuno, ferma il sangue con una pezza che ricava dalla sua camicia:
Mi diressi verso un luogo basso della vecchia fortezza, verso il vecchio arsenale cortinato tutt’intorno, chiamato Rampigna, invaso dalle erbe, ridotto pascolo di capre e ricreazione di scolari, non distante dalle scuole e dalle carceri. (Ivi, p. 183)
Tramite questo aneddoto, d’Annunzio non solo dà prova al lettore di un eroismo innato, ma rievoca anche quello che, agli inizi del Novecento, diventerà il primo stadio della città, il Rampigna appunto, e che poi, inglobato in un più vasto spazio, verrà convertito in sito archeologico a seguito del rinvenimento della necropoli di Ostia Aterni e di lunghi tratti di mura risalenti alla piazzaforte spagnola di Pescara.
Più avanti, nella sezioneIl grappolo del pudore,la memoria del poeta torna ad un’ estate abruzzese che lo coglie adolescente nella Villa del Fuoco, in procinto di vivere la sua prima esperienza sessuale:
[…] stavo con mio padre ai campi. Abitavamo soli quella villa del Fuoco memorabile per tante opere di rondini in cantina e per tanti busti di re coronati intorno alle terrazze. Insidiavo non senz’arte una pastorella che, per iscusarmi innanzi alle tosche Muse e al tosco Elicona, fingevo aver tratta fuor d’una ballatetta di Messer Agnolo da Montepulciano. (Ivi, p. 189)
Nel secondo tomo delle Faville del maglio −Il compagno dagli occhi senza cigli (1928) − viene rievocata invece la figura sanguigna e a tratti patetica del padre, Francesco Paolo, e insieme ad essa torna la memoria della casa paterna e della spaventosa carbonaia esplorata dal Gabriele bambino con fratelli:
Per me, pel mio fratello minore, per le mie tre sorelle la carbonaia era la sede delle meraviglie, era l’abisso delle apparizioni e dei tesori. Tenendoci stretti, verso sera ci arrischiavamo nell’andito, affascinati dalla nostra stessa paura, in ascolto, guatando laggiù l’uscio dalla soglia nera, presso il quale un sacco di cicerchie se ne stava sornion sornione. (Ivi, p. 479)
E più avanti la memoria della figura dell’amato zio si fonde con quella dei luoghi cari:
Il mio zio diletto, quello medesimo nomato Demetrio nel Trionfo della Morte, soleva al tramonto condurmi verso la foce della Pescara e poi a destra verso il lido dell’Adriatico, quando ad accelerarmi il cuore mi bastava l’essere attento alle ombre dei pini maritimi fratelli degli olivi di poggio nell’espressivo distorcersi, e attento all’attenuarsi delle ombre nell’affievolirsi del chiarore, e attento al cancellarsi delle ombre nella sabbia che pareva suggerle come suggeva l’orlo lieve dell’onda. (Ivi, p. 500)
Passando al Libro segreto (1935),la lunga prosa d’apertura, intitolata Via crucis via necis via nubis appare tutta dedicata all’intimo ritorno della memoria nella casa natale di Corso Manthoné:
La cornice della mia casa natale sportava in fuori tanto che le rondini l’avean rilavorata con la loro arte argigliosa soprapponendo alle gole ai gusci agli ovoli ai dentelli alle altre modanature senza grazia l’opera de’ nidi vivente. e quanto acconcia materia all’opera davano le ripe della Pescara, forse più duttile e tegnente di quella che orla l’isola di Philae dove certo aveano le artefici eletto alla vicenda il portico della prima corte nel tempio d’Iside. (G. d’Annunzio, 1995, p. 413)
Nell’autoritratto interiore offerto dall’ultimo d’Annunzio, recluso volontario nella gabbia d’oro del Vittoriale, «la fanciullezza è rivissuta in tutti i suoi presagi di morte» (F. Desiderio, 1988, p. 75) già dall’apertura dell’opera, in cui l’autore rievoca prima l’immagine della facciata della casa natale adorna di moltissimi nidi di rondine e poi l’impotenza straziante di fronte al domestico che con una canna decide di distruggerli.
Il Libro segreto ripercorre anche altri luoghi abruzzesi: la tenuta dei De Benedictis ad Ortona, anch’essa luogo custode della fanciullezza; il Convento di Francavilla, sede del sodalizio artistico con Michetti e della gestazione di più di un romanzo. Ricordi che sovente emergono in superficie grazie ad un dato concreto che inesorabilmente li richiama, dando vita a zone testuali di straordinaria intensità emotiva; così la vista di alcuni oggetti portati dalla «terra d’Abruzzi» riesce a risvegliare un ricordo che ha quasi la potenza figurativa di una visione:
Disperatamente chino su la mia pagina, ecco che nel mio crepuscolo di sotto alle mie palpebre quasi lacrimanti rivedo certe vele del mio Adriatico alla foce della mia Pescara, senza vento, senza gonfiezza gioiosa, d’un colore e d’un valore ineffabili, ove il nero l’arancione il giallo di zafferano il rosso di robbia entravano in una estasi miracolosa, prima di estinguersi. (G. d’Annunzio, 1995, p. 448)
Nell’ultima opera, testamento umano e letterario, Pescara e in generale l’Abruzzo diventano luoghi della mente, spazi della memoria nei quali rimbomba un’eco di lacerante nostalgia: la giovinezza è perduta, la madre è morta, e i luoghi che esse hanno abitato sono ormai altra cosa rispetto alla realtà presente.
La lontananza è vissuta come una lacuna dell’anima, un’autentica mutilazione, inflitta dalla «consapevolezza di una perdita, sia pure spaziale» (G. Oliva, 2007, p. 121) , che la memoria tenta quasi compulsivamente di colmare, nel tentativo di «ridare unità all’io diviso» (Ibidem).
Aneddotica pescarese
È indubbio che Gabriele d’Annunzio debba molto, partendo dai natali, alla sua bella Pescara; ma, con altrettanta certezza, si può affermare che il debito è reciproco.
Proprio a lui e alla sua autorità poetica si deve la configurazione della città come la si conosce dal 1927: capoluogo di provincia nonché risolutrice all’atto di nascita delle discordie con il paese di Castellamare Adriatico, il «Gran Nimico» ne La guerra del ponte. In verità l’Imaginifico, in comunione d’intenti con l’allora deputato abruzzese Giacomo Acerbo, avrebbe voluto unificare i due paesi, Pescara e Castellamare, sotto il nome di Aterno, per omaggiare la sua «piccola patria» rievocandone le antiche vestigia italiche; lo si evince da una lettera del 16 maggio 1924, indirizzata a Benito Mussolini:
come Pescarese, ti prego di consentire che la mia Pescara si congiunga civicamente a Castellammare Adriatico e capeggi una provincia nuova. C’è su questa unione una mia prosa del 1882, se non sbaglio!
Esaudi me e la gente fiumarica e adriatica. Giacomo Acerbo, nel nome di Aterno, amplierà il feudo. (G. d’Annunzio, 1971, p. 113)
Il 6 dicembre di due anni dopo, l’unificazione si realizza, inglobando anche il limitrofo comune di Spoltore, con elevazione a provincia e sotto il nome di Pescara; d’Annunzio ne è felice e, seppur “eremita” al Vittoriale, si premura subito di comunicare la lieta novella al Sindaco di Pescara, Umberto Ferruggia:
Il primo ministro graziosamente mi comunica che oggi ha elevato la mia Pescara a capoluogo di provincia. Sono certo che Pescara con moltiplicata operosità si mostrerà degna del privilegio. Mando a tutti i miei concittadini il più lieto e fiero saluto. (E. Di Carlo, 1998, p. 41)
Alla storia di Pescara capoluogo di provincia si intreccia quella del parrozzo di Luigi D’Amico: proprio nel novembre del 1926 il Vate assaggerà la nuova creazione dolciaria, fattagli recapitare tramite il sindaco Ferruggia, venuto a Gardone a fargli visita, e le renderà omaggio con un celeberrimo sonetto. Tessendo le lodi del «Pan Rozzo d’Abruzzo» – come pure del liquore Aurum di Amedeo Pomilio, altra specialità enogastronomica di Pescara – d’Annunzio concorre largamente ad accrescerne la fama; testimone di questo contributo èun suo scritto, la dedica in versi sull’ «Albo d’oro», che si trova ancor’oggi stampato sulla carta della confezione:
Dice Dante che lá da Tagliacozzo,
ove senz’arme vinse il vecchio Alardo,
Curradino avrìe vinto quel leccardo
se abbuto avessi usbergo di parrozzo.
Gabriele d’Annunzio
Parrozzàno (Ivi, p. 47)
Alcuni anni dopo, precisamente nell’aprile del 1933, il Vate non manca di inviare un messaggio, accompagnato da una generosa offerta in denaro e dal dono del San Francesco in adorazione del crocifisso di Guercino, a Don Pasquale Brandano, abate di San Cetteo: i lavori di ristrutturazione della cattedrale pescarese stanno per concludersi e, di lì a poco, essa ospiterà le spoglie della Mater mirabilis, cioè di Donna Luisa, già tumulate nel cimitero cittadino di Colle San Silvestro. Ecco il messaggio:
Caro fratello, fratelmo, mando lo spiritello d’una sirocchia rondine a volar rasente la prima pietra della Chiesa nova.
“Hic iacet genetrix Gabrielis Nuntii Aloysia de Benedicti mater mirabilis.”
Ti prego di distribuire – per mia madre – ai tuoi poveri queste tremila lire. Anch’io son povero. Ma di me dico – e si dice: «quanto più povero tanto più splendido».
Soffro; e sono stanco. Ti riscriverò. Ti abbraccio.
Gabriele d’Annunzio. (F. Di Tizio, 1998, p. 21)
L’impegno del Vate a favore della futura prosperità della sua Pescara, profuso con ardore in più di un’occasione e non solo sul versante politico, è un dono attraverso cui mira a dimostrare il suo amore per una città che per buona parte della vita fu pensata, attraversata, accarezzata solo da lontano.
Bibliografia essenziale
Le citazioni dalle opere dannunziane sono tratte da:
G. d’Annunzio, Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1950.
G. d’Annunzio, Carteggio D’Annunzio-Mussolini (1919-1938), a cura di R. Di Felice ed E. Mariano, Milano, Mondadori, 1971.
G. d’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, a cura di I. Ciani, Pescara, Centro Nazionale di studi dannunziani, 1985.
G. d’Annunzio, Tutte le poesie, a cura di G. Oliva, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1995.
G. d’Annunzio, Prose scelte, a cura di G. Oliva, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1995.
G. d’Annunzio, Maia, a cura di G. Papponetti, Pescara, Ediars, 1995.
G. d’Annunzio, Scritti giornalistici (1882-1888), a cura di A. Andreoli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996.
Bibliografia secondaria
E. Paratore, D’Annunzio e l’Abruzzo, in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di studi dannunziani (Pescara, 5 marzo 1988), Pescara, Ediars, 1988, pp. 5-10.
F. Desiderio, L’Abruzzo «memoriale» (Notturno, Faville, Libro segreto), in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di studi dannunziani (Pescara, 5 marzo 1988), Pescara, Ediars, 1988, pp. 69-79.
L. Renzetti, La casa natale di Gabriele D’Annunzio, Chieti, Solfanelli, 1989.
G. Oliva, L’Abruzzo Africa, in La capanna di bambusa. Codici culturali e livelli interpretativi per Terra vergine, Chieti, Solfanelli, 1994 (rist. 2013).
G. Oliva, «L’Abruzzo sono io»: la malinconia dei luoghi, in D’Annunzio e le malinconia, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 120-145 (rist. Lanciano, Carabba, 2024, pp. 151-181).
E. Circeo, L’Abruzzo in D’Annunzio. Studio critico con antologia, Pescara, Centro Nazionale di studi dannunziani, 1995.
I. Ciani, D’Annunzio e Pescara, Pescara, Ediars, 1996.
E. Di Carlo, Pescara 1927: tra nascita del capoluogo e “ritrovo” parrozzano, in aa. vv., Dall’Abruzzo al Vittoriale. D’Annunzio 1938-1998, a cura di E. Di Carlo, Teramo, Andromeda, 1998, pp. 41-48.
F. Di Tizio, D’Annunzio, San Cetteo e don Pasquale Brandano, in «Rassegna dannunziana», fascicolo n. 34 (Pescara, novembre 1998), Centro Nazionale di Studi Dannunziani, Ediars, pp. 11-26.
A. Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele D’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000.
A. Andreoli, D’Annunzio e l’Abruzzo, Roma, De Luca, 2001.
I. Ciani, L’abruzzese Gabriele d’Annunzio, in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di studi dannunziani (Pescara, 5 maggio 1988), Pescara, Ediars, 2006, pp. 11-22.
M. Serra, L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2019.