di Andrea Zanoni, Enciclopedia dannunziana
La tesi di laurea sulla Lingua di Gabriele d’Annunzio
Se la vocazione di Mario Praz per le humanae litterae non fosse stata tanto accesa da indurlo ad abbandonare una grigia carriera giurisprudenziale in favore di più accattivanti interessi storico-letterari, non avremmo forse beneficiato dei decisivi risultati a cui hanno condotto le sue indagini nei territori dell’opera dannunziana. È bene infatti ricordare che, prima di aver rivestito un ruolo cruciale nell’inquadramento delle strategie compositive adottate dall’abruzzese e di venire in seguito elevato a capofila dell’anglistica italiana, il critico romano fu brillante studente di diritto: ottenuto il diploma liceale all’istituto fiorentino Galilei, Praz avviò il proprio iter giurisprudenziale nel 1914 presso l’Ateneo di Bologna, per passare l’anno seguente all’Università di Roma; conseguì la laurea a pieni voti, ma comprese presto che «la legge non faceva per [sé]», e prospettò così «alla famiglia un prolungamento degli studi, di due anni, per laurear[si] in lettere» (CV, p. 42). La consapevolezza che le materie giuridiche non gli erano congeniali traspare da un inciso in cui confessava en passant una chiara inclinazione per gli studia humanitatis, ricordando, oltre agli insegnamenti di Storia dell’arte impartitigli da Antonio Muñoz, le lezioni di Cesare De Lollis, seguite alla Sapienza in compagnia dell’amico e futuro linguista Bruno Migliorini: «Più tardi, suggestionati anche dalle lezioni di Antonio Muñoz (perché più che i corsi di legge che dovevamo frequentare, c’interessavano quelli di lettere che seguivamo per nostro conto), ci entusiasmammo per la Roma barocca» (CV, p. 11). Vinte le resistenze di alcuni familiari, che intravedevano nell’avvocatura una strada economicamente più vantaggiosa, Praz si iscrisse nel 1918 all’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Firenze, dove poté dedicarsi ai corsi di letteratura e filologia, ammaliato dal carisma intellettuale di insigni esponenti della scena critica italiana, tra cui Giorgio Pasquali ed Ernesto Giacomo Parodi. Sotto la direzione di quest’ultimo stese e discusse la propria tesi di laurea, mirata ad un’analisi linguistica dei testi dannunziani, che lo portò a scoperte rivelatrici sull’impiego delle fonti da parte del poeta. Un parto che, sebbene approdato all’esito desiderato, si presentò subito travagliato, come rivela il carteggio con Bruno Migliorini, a cui Praz lamentava le fatiche comportate dallo spoglio lessicale del corpus di d’Annunzio:
Il lavoro è difficile: Parodi lo riconosce. Lo spoglio che ho fatto del Fuoco sino a p. 400 (e che in questo mese devo finire – sono 560 pagg. –) è forse troppo abbondante: ma volevo evitare riesami: purtroppo riesami parziali mi si dimostrano già necessari. Non posso pretendere di esaminare tutta l’opera dannunziana: vorrei fare intanto il periodo che comprende le Vergini delle Rocce, il Fuoco, la Francesca, i primi tre delle Laudi, la Figlia di Iorio, la Fiaccola sotto il m., Vita di Cola di Rienzo, Più che l’amore, la Nave, Fedra, il Forse che sì. (LM, p. 63)
Vani si rivelarono i tentativi di recuperare un’adeguata bibliografia sull’argomento, per la quale Praz si rivolse persino ad esperti esteri: «Scrissi invero in Alemagna, ma tanto Hecker che Vossler mi hanno cortesemente risposto di non conoscere pubblicazioni teutoniche sulla lingua di D’A.» (LM, p. 59). L’atmosfera in cui si svolse la prova conclusiva di Praz, per lui «penosa rievocazione», fu infelicemente guastata dalla «Glacialissima indifferenza […] dei professori» (LM, p. 74), stemperata dal solo Parodi, che si effuse per contro in un giudizio elogiativo; ma la mancata attribuzione della lode fu, per dirla con un’iconica metafora ariostesca, «la secure / che ’l capo a un colpo gli levò dal collo». Sconfortato, eppure risoluto a non demordere, Praz si adoperò a più riprese per dare alle stampe il proprio elaborato, del quale si risolse infine a riconoscere il «mediocre successo» (PS, p. 346), giacché il disinteresse degli editori e il timido prodigarsi del suo relatore – «uomo eccellente ed ottimo maestro», ma di temperamento irrimediabilmente «pigro» (LM, p. 75) – scoraggiavano ogni prospettiva di pubblicazione. Ragioni politiche, e non tanto dovute a presunti difetti del lavoro, sembravano rinviare a tempi migliori l’ottenimento dell’imprimatur: la Facoltà universitaria, cui il contributo era stato proposto, declinò infatti l’offerta, dicendosi impossibilitata a «prendere sotto il suo nome uno studio che avrebbe potuto irritare il governatore di Fiume». «Alta ragione scientifica!» (LM, p. 91), chiosava Praz con antifrastica ironia, consapevole che all’origine di un tale disinteresse stava proprio l’audacia delle sue scottanti rivelazioni, tanto ingombranti per i membri della commissione che, se in camera caritatis non potevano sottacerne i pregi euristici, tuttavia non vi concessero l’opportuna risonanza, preferendo chiudersi in un silenzio stampa che sembrava timorosamente preludere agli scontri del «Natale di sangue», epilogo infausto della Reggenza Italiana del Carnaro, consumatosi appunto allo scadere del ’20. La soggezione provocata dalle sorprendenti scoperte praziane si può inoltre evincere dalla reazione vagamente intimidita di Guido Mazzoni, su cui Praz tornò a distanza di anni: «Quanto alla mia tesi, non ebbe che un mediocre successo: ne conservo una copia con queste parole, scritte di proprio pugno da uno dei relatori, Guido Mazzoni: “Me ne rimetto ai dotti colleghi”» (BB, p. 738). Il 1921 fu quindi l’anno di un altro insuccesso per Praz, trovatosi a smaltire un ulteriore rifiuto dall’editore piemontese Bocca, che se da un lato reputò lo scritto «certamente serio, accurato, diligente» (LM, p. 124), dall’altro non lo riteneva granché spendibile sul mercato. La tesi di Praz, dispersa nelle calamità alluvionali che afflissero la città di Firenze, confluì nel 1930 «come appendice» nel suo volume più noto e discusso, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica («che tanto poco piacque al Comandante che fu esclusa da una bibliografia ufficiale compilata dall’Accademia d’Italia»; PDA, p. 224), ospitante nella seconda sezione il saggio capitale D’Annunzio e «l’amor sensuale della parola», in cui l’autore riunì le scoperte intertestuali affiorate nel corso delle sue ricerche dannunziane, riversandovi porzioni del lavoro coordinato da Parodi e gli apporti dei contributi apparsi successivamente sui periodici. Di questa tesi, nei cataloghi cartacei dell’Università fiorentina, non sopravvive oggi che un vago accenno documentario: «Praz, Mario. La lingua di Gabriele d’Annunzio. Tesi di Lettere 1920».

Il primo articolo: il Volgarizzamento di Palladio tra le fonti di Alcyone
La delusione per le ripetute bocciature della tesi fu tuttavia mitigata, almeno in parte, da un primo successo. Ancor prima della discussione finale, il giovane Praz era infatti riuscito a toccare un soddisfacente traguardo, avendo pubblicato nel 1919 il suo contributo d’esordio:
Ricordo che faccia fece il mio caro maestro Parodi (dovevo discutere con lui la tesi sulla Lingua di G. D’Annunzio) quando gli mostrai la fonte di molti poemetti d’Alcione nel Volgarizzamento di Palladio. La sensazione fu tale, che Parodi propose subito un articolo nel «Marzocco». Doveva aver proprio perduto la testa, a pensare che il «Marzocco» avrebbe pubblicato il più curioso «plagio» dannunziano! L’articolo finì invece nella «Rivista delle Biblioteche e degli Archivi» e fu il mio primo articolo. (PS, pp. 344-345)
In questo studio, intitolato Gabriele D’Annunzio poeta georgico, Praz si chiedeva da dove d’Annunzio avesse derivato, per trasfonderla in un mazzetto di liriche alcionie, una padronanza tanto minuziosa – si direbbe pascoliana – dei segreti del mondo rurale, e una disinvoltura non meno spiccata nell’impiego del lessico agreste. «Che il D’Annunzio si sia dato a interrogare contadini e montanini toscani, e abbia rimesso in giro parole vive ancora nella loro favella?» (DPG, p. 8). Ipotesi certo suggestiva, ma ben altra era la soluzione. Riportando i luoghi ‘incriminati’ di questi «poemetti», il critico romano scoperchiava, attraverso un’accurata vivisezione testuale, l’influsso cristallino del volgarizzamento palladiano dell’Opus agriculturae, il cui riuso dannunziano può davvero apparire macchiato dall’onta del plagio. Un esempio:
Di questo mese del solstizio, quando Di questo mese nel solstizio, cioè quando
il Sol non puote più salire, semino sol non puote più salire, semineremo le
le brasche; le qua’ poi di mezzo agosto brasche; le qua’ poi d’agosto trapianteremo
trapiantar mi bisogna in luogo irriguo. in luogo irriguo d’acque. L’appio, e la bietola,
E la bietola e l’appio e il coriandro e ‘l coriandro, e la lattuga semineremo, se
e la lattuga semino, ed innacquo. non le innacqueremo. (Volgarizzamento di
(Le opere e i giorni, 32-37) Palladio, VII, 4)
Terminato l’esame dei riscontri, e quasi rammaricato per aver svelato i retroscena tecnico-elaborativi di alcune tra le più riuscite liriche dell’Alcyone, Praz sembrava fare implicita ammenda di tanta puntigliosità analitica osservando come il pescarese, quandanche limitatosi a «mettere in versi la prosa della versione di Palladio» (DPG, p. 13), avesse saputo rinverdire i contenuti di un trattato tardo-antico invero piuttosto distante dalla sensibilità contemporanea, selezionandone gli elementi congeniali alla poetica naturalistica sottesa al terzo libro delle Laudi. Plagio o letteratura, dunque? «Letteratura! Sì, letteratura!» (DPG, p. 14), esclamava. Affiorano quindi, sin dal periodo giovanile e con precoce autonomia di pensiero, gli orientamenti critici che hanno contraddistinto l’approccio praziano all’opera, al metodo e al personaggio di d’Annunzio, rimasti saldamente invariati nel passaggio all’età matura e infine a quella senile: nessun moto di riprovazione per le tanto chiacchierate scopiazzature del poeta; nessun attacco indignato alla sua presunta immoralità artistica; nessun’accondiscendenza facile alle invettive che sul finire dell’Ottocento scagliava a profusione la linea «contra d’Annunzio», tra i cui capofila si segnalò soprattutto Enrico Thovez, pronunciatosi tra il 1895-1896 sulla Gazzetta letteraria con una serie di articoli che rimproveravano al pescarese una condotta da plagiario seriale. Allergico all’opinione comune, Praz invitava ora ad un cambio di prospettiva, abbracciando una visione neutra e lucida, che favorisse finalmente l’espressione di giudizi equanimi e di valutazioni più caute, fondate sull’obiettività dell’analisi anziché sull’impulsività dell’istinto. Per quanto ad uno stadio ancora embrionale, si delinea con nettezza una posizione fortemente alternativa, indulgente e a tratti apologetica, che talora sembra persino spingersi alla legittimazione.
Mario Praz tra i recensori del Notturno
Negli anni in cui si impegnava con sollecitudine a scovare le fonti annidate nel corpus dannunziano, Praz rivolgeva i propri interessi anche ai più alti esiti della prosa matura di d’Annunzio; tra questi il Notturno, allora di freschissima uscita e finito presto sotto i riflettori, fornendo terreno fertile alle numerose recensioni apparse tra il dicembre 1921 e il la primavera del 1922. Stimolato da Emilio Cecchi, già espressosi sul testo in un paio di occasioni, Praz pensò di affiliarsi ai primi recensori del «commentario delle tenebre», a cui riservò un intervento ricco di apporti personali. È possibile che d’Annunzio ne conservasse una copia: certi commentatori dell’opera riferiscono di una cartelletta in cui il poeta raccolse, dopo averle parzialmente annotate, alcune recensioni al Notturno, sebbene oggi non risulti più reperibile tra le risorse del Vittoriale. Avviando la propria disamina, Praz si proponeva di scorgere un’affinità tra le atmosfere lirico-elegiache dell’Alcyone e gli scenari chiaroscurali che attraversano le libere associazioni del Notturno, portando l’attenzione su un passo della Seconda Offerta in cui il poeta sembra autorizzare una continuità di spirito tra le due opere: «Ora io ho – mi sembra – un orecchio più sensibile di quello che musicò “la pioggia nel pineto”». Traendo spunto da questa annotazione, imbastiva quindi la propria argomentazione, volta ad esaltare la dimensione visionaria in cui si cala l’itinerario sensoriale del «commentario». Reduce dal famoso incidente aviatorio del 1916, l’abruzzese è costretto a letto, privo della vista; l’interazione con la realtà circostante è ora deputata all’esercizio delle altre facoltà sensoriali. Non mediati dalla percezione visiva, i suoni catturati dal suo udito, vicini e lontani, rintoccano nello spazio con una risonanza inattesa, e gli elementi che lo attorniano paiono animarsi di vita propria: ecco dunque che «l’orchestra si è arricchita e complicata», «è ora tutta un ricamo, un intreccio di strumenti, gioia degli orecchi esperti» (NT, p. 121). Nel tripudio dionisiaco delle sensazioni ogni ordine logico-razionale viene sovvertito, il ‘principio di non contraddizione’ non assurge più a legge fondante del cosmo, ogni manifestazione partecipa di una natura cangiante, subordinata al flusso inarrestabile del mutamento: «Il suono si traduce in colore, l’odore in suono, il dolore si scolpisce in immagini plastiche d’una solidità allucinatoria, i colori si generano in un clima che non sembra condizionato da leggi terrestri» (NT, p. 121). Ne scaturisce un’opera singolarissima, «che è pure una sorta di prodigio» (NT, p. 122), non solo in virtù dell’irripetibile contesto elaborativo in cui venne alla luce, ma anche dell’atmosfera che vi si respira, carica di esasperato languore. In quest’ottica, d’Annunzio sembra allinearsi ai simbolisti francesi dell’Ottocento: «Egli appartiene alla schiera dei Rimbaud, degli Huysmans, dei Mallarmé. Il Notturno è forse l’ultima e più perfetta espressione di un modo di sensualità iperacuta, a cui han tentato di adeguare la loro arte simbolisti futuristi decadenti d’ogni scuola e d’ogni cenacolo» (NT, p. 122). Ed è difficile dissentire dall’impressione di Praz, allorché sfogliando le pagine del testo ci si imbatte in un florido rigoglio di temi squisitamente decadenti: l’angoscia esistenziale, il serpeggiare della malattia, l’accarezzamento del suicidio, il senso di prostrazione morale e le lacerazioni dell’anima sono solo alcuni dei motivi dominanti del Notturno. Stazioni di una tormentosa Via crucis interiore, questi aspetti irrisolti della sfaccettata psicologia dannunziana configurano l’opera come una sofferta catabasi nelle zone d’ombra dell’Io, imponendo al poeta di tracciare un bilancio della propria condizione spirituale. Rivelazione fulminea della genialità creativa di d’Annunzio, il Notturno si scopre così «libro eccezionale, concepito in uno stato di grazia, condizionato da una speciale e momentanea sensibilità» (NT, p. 126).
I contributi sulla Francesca da Rimini
Due sono gli interventi dedicati da Praz alla Francesca da Rimini, pubblicati su «La Cultura» nella primavera del 1922: si trattava, a detta sua, del «più completo studio sulle fonti della Francesca» (LM, p. 119), contenente «rivelazioni sensazionali». Gli scritti sulla Francesca, poi accorpati in un unico saggio nella miscellanea Ricerche anglo-italiane (1944), costituivano la revisione di un capitolo della tesi universitaria. Il primo, intitolato La «Francesca da Rimini» di G. D’Annunzio. Il dramma storico, uscì in data 15 marzo. Le osservazioni preliminari miravano a delineare, senza intenzioni polemiche, il carattere essenzialmente anti-storico di alcune opere drammatiche di d’Annunzio. Il pescarese non si servirebbe di una determinata cornice storica per sollevare questioni che, seppur calate in un’ambientazione lontana, dovrebbero innescare una riflessione profonda nei lettori, chiamandoli a meditare su problematiche di portata attuale; nulla di tutto questo: evitando di addentrarsi in dilemmi di natura etica, d’Annunzio vi farebbe ricorso per tuffarsi nello spirito autentico di un’epoca, per assaporarne lo stile, gli esotismi e le peculiarità esornative. Non un’urgenza morale, come già in Manzoni e nei grandi drammaturghi dell’età classica, lo indurrebbe a ricostruire un milieu scenografico su cui disporre i propri personaggi, bensì un irrefrenabile impulso estetico. Ne consegue che la storia, ridotta a palcoscenico delle sensazioni, perde d’un tratto la valenza didascalica che da sempre accentrava su di sé, volgendo in esperienza propedeutica all’educazione dei sensi e del gusto. Gli stessi characters non sono reali protagonisti della vicenda esposta, ma paiono declassati ad anonime comparse, svuotate di spessore psicologico: «Appunto questo, risponderò, è il carattere dei drammi storici del d’Annunzio, che cioè gli attori non sono tanto attori d’un dramma, quanto comparse d’una scenografia, e che insomma l’interesse dell’autore è, anche qui, concentrato tutto nel décor» (FR1, pp. 193-194). Trascurando il «valore umano» della storia a vantaggio di un interesse pressoché esclusivo per il «color locale», le pièces dannunziane non sono contraddistinte dall’energica vitalità che sgorga, ad esempio, dai convulsi intrecci elisabettiani, ma si segnalano piuttosto per una «somma di vita passiva». Aspetti, questi, che lasciavano a Praz un’impressione «confusa di molti eleganti manichini senza volto, di suoni uditi e non di parole, insomma d’una sontuosa coreografia» (FR1, p. 195). Stilava poi un catalogo delle fonti storiche consultate da d’Annunzio per ricreare lo sfondo che ospita lo svolgimento dell’azione: tra queste, «la Storia di Rimini del Tonini (vol. III); poi l’Anonimo Riminese in Rerum Italicarum Scriptores, il Chronicon del Cantinelli, Salimbene, oltreché gli accenni a cose di Romagna sparsi nella Divina Commedia, con le relative postille; infine la cronaca del Matarrazzo» (FR1, p. 196), quindi i commenti danteschi (Benvenuto da Imola, l’Anonimo fiorentino, l’Ottimo) e le principali cronache del Trecento (Compagni, Villani).
«Non di sole fonti storiche parla il d’Annunzio nella nota alla sua tragedia; di queste altre» – scriveva – «parlerò in un prossimo articolo» (FR1, p. 202): con questa promessa si congedava dai lettori, i quali avrebbero dovuto attendere due mesi esatti per disporre del secondo intervento che Praz teneva in serbo per il dramma dannunziano, apparso su «La Cultura» del 15 maggio 1922 e intitolato La «Francesca da Rimini» di G. D’Annunzio. Il dramma d’ambiente. Tra i modelli messi a profitto da d’Annunzio, Praz individuava i novellatori della letteratura italiana delle origini (Boccaccio, Sacchetti, l’anonimo del Novellino); i canti popolari raccolti dal Tommaseo, alcuni esponenti della lirica stilnovista (Cavalcanti, Cino da Pistoia); segnalava poi la presenza di ipotesti in lingua d’oil, come la Tavola Ritonda – la quale «contribuisce largamente a creare il color locale» (FR2, p. 292) – e l’Illustre et famosa historia di Lancillotto del Lago. Venivano poi esaminati i «documenti rari», tra i quali «possono collocarsi quelli da cui egli ha desunto notizie sui falconi», nonché i tecnicismi afferenti all’arte della falconeria, poiché leggendo la Francesca da Rimini ci si accorge che egli «sa cose recondite su quei nobili animali» (FR2, p. 293). Affioravano infine svariati prestiti dal Tommaseo-Bellini, di cui d’Annunzio si è servito per ricavare nozioni sul ‘guardaroba’ medievale, e dal Vocabolario marino e militare di Alberto Guglielmotti, consultato per i particolari relativi all’oggettistica militare: rivelazioni fondamentali, che permisero di riconoscere nei dizionari una vera e propria fonte letteraria, sostegno sempre fedele all’estro creativo dannunziano. Il valore di questi due contributi è confermato dal parere caloroso di Emilio Cecchi, all’epoca suo autorevole corrispondente, che da un lato recensiva «Ottimi i due articoli sulla Francesca» e dall’altro si congratulava con il giovane per aver «toccato cotesta materia con una difficile delicatezza» (CP, p. 15). Non era allora dilettantistica presunzione quella di Praz, allorché affermava di aver dato vita al «più completo studio sulle fonti della Francesca» (LM, p. 119), ma semplice consapevolezza che il suo saggio disponeva dei giusti requisiti per fregiarsi di questo titolo.
La «noterella» su «La Critica» di Benedetto Croce
Ormai deciso «a spezzare la tesi e a pubblicarla in riviste, per evitare che perda ogni interesse di novità» (LM, p. 118), Praz si candidò a Benedetto Croce, proponendogli un contributo in cui segnalava l’affioramento di ulteriori fonti dannunziane inedite. Lo scritto fu accolto favorevolmente e comparve nel 1923, con il titolo Fonti dannunziane, nella rubrica Reminiscenze e imitazioni de «La Critica», rivista fondata e diretta dal filosofo. Unico rammarico, la prolungata attesa prima di vederlo finalmente stampato; Croce si era infatti impegnato a includerlo nell’annata del 1922:
Nel corso dei miei studi per la tesi di laurea su D’Annunzio avevo «scoperto» alcune fonti che proposi al Croce per la rubrica delle Reminiscenze che la «Critica» veniva pubblicando. Il Croce trovò la mia noterella «ben condotta» e mi promise di pubblicarla, come infatti fece, con un po’ di ritardo. (CV, p. 255)
Guidato da una profonda capacità di orientamento nella vasta produzione dannunziana, Praz posava alternamente lo sguardo su diverse opere, sia in prosa che in poesia, isolandone frasi, versi e sintagmi, di cui puntualmente rintracciava l’ispirazione originaria. Forte di una dimestichezza singolare con gli autori delle letterature straniere, poteva così riunire nelle poche paginette che formano il suo intervento un bacino ampio ed eterogeneo di fonti letterarie, in cui perlopiù si avvicendano echi decadenti di timbro verlainiano, risonanze di ascendenza classica e calchi di inequivocabile impronta swinburniana. Le concordanze registrate con i grandi scrittori del palcoscenico europeo, tra cui si annoverano anche Flaubert, Maupassant e de Régnier, cedevano quindi il passo ad una corrispondenza con il Volgarizzamento di Vegezio nella Francesca da Rimini, per lasciare poi spazio a ulteriori contatti con il Vocabolario guglielmottiano, di cui si localizzavano limpidi prelievi nella Notte di Caprera. Che d’Annunzio attingesse materiale dai dizionari, anziché dalla lettura diretta dei testi, è fatto di cui Praz forniva puntuale controprova, citando un altro passo della Francesca in cui compare un curioso «torsolo di pimpinella»:
Benché il passo sia scherzoso, appare abbastanza strano che la pimpinella, esigua piantina, abbia nientemeno che un torsolo. Ebbene, il vocabolario della lingua italiana Tommaseo-Bellini sotto la voce «pimpinella» rimanda a «salvastrella». Ivi si legge l’esempio delle rime burlesche di Messer Bino: «Io potrei bene offerirvi due torsi di salvastrella». Questa citazione scritta così di seguito, non può non stupire chi sappia che le rime di Messer Bino sono in terzine. Ricercato il passo nel testo originale, leggeremo: «Io potrei bene offerirvi due torsi – di lattuga, ed un po’ di salvastrella». Il d’Annunzio ha dunque trapiantato tal quale il torsolo dal Tommaseo-Bellini, senz’accorgersi che era un torsolo bacato. (FD, p. 372)
Il calo d’interesse per d’Annunzio
Il 1920 fu per Praz l’anno di due incontri decisivi: l’uno con Vernon Lee, scrittrice inglese residente a Firenze, che lo introdusse in un circolo di intellettuali britannici e lo segnalò al London Mercury, al quale Praz inviò corrispondenze (Letters from Italy) fino al 1932, l’altro con Giovanni Papini, che lo incaricò di tradurre una scelta di poeti inglesi dell’Ottocento e gli Essays of Elia di Charles Lamb. La frequentazione di queste due personalità di rilievo impresse una svolta significativa nel percorso formativo di Praz, che da allora iniziò a volgere i suoi interessi culturali in direzione dei lidi britannici, distogliendoli progressivamente dall’italianistica e dalla figura di d’Annunzio. Rivelatrici, in tal senso, le parole con cui realizzava che il trasporto per l’opera dannunziana, che pure gli permise di muovere i suoi primi passi negli ambienti della critica letteraria, aveva subito una repentina attenuazione, proprio in concomitanza con l’approdo a Londra nel 1923, dove si trasferì per un perfezionamento in filologia moderna:
Poi andai in Inghilterra, e di quando in quando lessi poesie di d’Annunzio ai miei scolari; e certe che m’eran piaciute, a rileggerle a gente di tutt’altre tempre, non mi piacquero più; ed altre che poco m’avevano attirato, mi piacquero meglio; ma d’Annunzio in me aveva sofferto un’eclisse. Fu colpa di Swinburne, o meglio, fu colpa di d’Annunzio che aveva preso tanto da Swinburne, ma rendendolo più spesso e polito, scavandone via di sotto tutto il sostrato. Sostrato morboso, sì, ma che offriva alcuni problemi interessanti che D’Annunzio non offriva. (PS, pp. 346-347)
Che ad un certo momento avesse iniziato a contemplare l’opera dell’abruzzese da un’angolazione più neutra e distaccata, Praz lo dichiarò sul declinare degli anni Trenta in un breve scritto, nel quale ripensava all’impatto determinante che aveva avuto su di lui la lettura degli autori extra-nazionali nel periodo della sua formazione. L’aggiornamento alla grande letteratura straniera gli consentì di cogliere più in profondità i retroscena elaborativi di molte creazioni dannunziane, che attingevano senza riserve ai testi dei maggiori scrittori europei. «Poi lessi molti francesi, alcuni inglesi, e d’Annunzio prese per me un altro aspetto» (PS, p. 344): Praz scrutava ora il proprio idolo di gioventù plasmare i suoi carmi sull’influsso di modelli pressoché intercambiabili, cercare ben oltre la stagione d’esordio un appiglio sicuro nella tradizione pregressa e al contempo sottacere con fin troppa malizia i debiti contratti con i suoi auctores di riferimento. Proprio lui, che si professava campione di un’arte e di un vivere inimitabili, aveva perseguito con tanta sfacciataggine il principio dell’imitatio, ripescando da un passato, ora vicino ora lontano, che tornava a vibrare sotto il plettro della sua poesia. Sebbene questa presa di coscienza non sfociò mai in un rinnegamento del suo imprinting dannunziano, fu inevitabile che la statura titanica di d’Annunzio accusasse ai suoi occhi un ridimensionamento e che il suo profilo letterario finisse per accentrare su di sé valenze contraddittorie; di qui la volontà di lasciarsi alle spalle i testi del pescarese per risalire direttamente alla sorgente, ovvero agli scrittori da cui il suo estro aveva assorbito tanta linfa vitale. Si sarebbero tutti riuniti nel 1930, d’Annunzio e i grandi d’Europa; occasione del loro incontro fu l’uscita del saggio più noto di Praz, che siglò un congedo momentaneo dai palcoscenici della critica dannunziana: «Poi tutti, D’Annunzio, Swinburne e tanti altri, si fusero in un corale; e La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica fu il punto d’arrivo dei miei studi dannunziani» (BB, p. 738).
Museo dannunziano
Come s’è visto, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica rappresentò una cesura ideale nell’indagine critica su d’Annunzio, permettendo di distinguere un prima – in cui Praz figura come dannunzista a pieno titolo – da un dopo – in cui Praz milita piuttosto come dannunzista a latere dell’anglistica. Questo studio fu l’ultimo consacrato ad una disamina svolta con rigoroso proponimento filologico e protesa al conseguimento di risultati compiutamente inediti: la produzione seriore di Praz preferì infatti abbracciare un indirizzo di taglio critico-letterario, elzeviristico, concentrandosi soprattutto sull’originalità del personaggio dannunziano, nonché sulla risonanza mediatica della sua stravagante condotta, sociale ed artistica. Venne così costituendosi, in un arco cronologico non ristretto, un manipolo di scritti brevi e di raffinata fattura, poi raccolti (con titoli talora rivisitati) nella parte quinta del libro Il patto col serpente (1972), appositamente intitolata Museo dannunziano. Questo contenuto gruppo di articoli – pregevole per ampiezza di vedute, nonché per lo sfoggio di una cultura profonda e mai ostentata – si segnala per la varietà dei temi trattati, che spaziano dal curioso aneddoto autobiografico al vagheggiamento della Roma umbertina in cui il poeta si trasferì dopo il soggiorno al Cicognini, senza trascurare la ricercatezza del suo bizantinismo ornamentale o i contatti ravvicinati con l’entourage dannunziano. Ricordava, a tal proposito, il colloquio con un intimo del pescarese:
Puccioni in ogni modo fece del suo meglio per procurarmi contatti; un fido abruzzese, segretario e tirapiedi di D’Annunzio, faceva il veterinario e l’andai a trovare ai Macelli. […] Ma i misteri degli scartafacci della Capponcina l’abruzzese non me li rivelò. Lui aveva salvato Tommaseo-Bellini quando i creditori mossero all’assalto della Capponcina. Inoltre D’Annunzio faceva uso d’un misterioso lapis rosso e blu. (PS, p. 346)
A questo fugace incontro non seguì mai una visita al poeta, dacché Praz, pur avendone avuto l’opportunità, non desiderò farne conoscenza diretta:
Preparavo uno studio sul d’Annunzio, e il Puccioni mi fece la legittima domanda: “Perché non cerca di vedere il Poeta?”. È curiosa, ma non ci avevo pensato, e pensato che ci ebbi, l’idea mi lasciò freddo. Mi sono domandato tante volte perché non ho mai avuto la curiosità di conoscere di persona il Poeta a cui ho dedicato non piccola parte dei miei studi. Più tardi, ebbi tanta curiosità di conoscere Soffici, Cecchi, e qualche altro scrittore d’allora […]. Ma d’Annunzio, no; non ho mai desiderato conoscerlo. […] Era un magnifico re di fiori e di picche; si può guardare, ma conoscere? È un’altra cosa. (PS, pp. 345-346)
Il Processo a d’Annunzio su «L’Espresso»
Il risentimento covato a furor di popolo per d’Annunzio si era tutt’altro che stemperato a 25 anni dalla sua morte, se in concomitanza con il centenario della nascita si avvertì il bisogno di intentargli un Processo fittizio, inscenato su «L’Espresso» del 24 marzo 1963. Moderati da Paolo Milano, vi parteciparono personaggi significativi per la cultura del Novecento: da una parte gli autori Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, dall’altra i critici Natalino Sapegno e Mario Praz, per uno schieramento complessivo fortemente sbilanciato a favore dell’accusa. Diversamente dai relatori che lo affiancavano, certo più detrattori che sostenitori di d’Annunzio, Praz si presentava come l’unico ad aver «studiato abbastanza a fondo l’argomento ci cui parla», nonché il solo «disposto a riconoscere un qualche merito alla scrittura dannunziana» (PDA, 214), nella quale vedeva quasi «preannuncia[ti] addirittura gli esperimenti di Joyce» (PDA, 217). Replicando a Pasolini, che sull’opportunità di riesaminare l’opera dannunziana demandava ai posteri l’onere di tale rivalutazione, Praz si chiedeva «perché mai si dovrebbe aspettare un’altra generazione per dare il nostro giudizio su d’Annunzio» (PDA, 223), quando i frutti più succosi della sua arte potevano essere delibati senza procrastinazioni. Non si schierava a priori in difesa del Vate, ma cercava di mantenere la compostezza e l’equilibrio critico che da sempre avevano contraddistinto il suo orientamento: nessuna contestazione, per l’appunto, sul fatto che l’abruzzese potesse risultare un esibizionista «vacuo, e a volte perfino grottesco» (PDA, 214), ma granitica era la convinzione che «in una certa zona in ombra dell’opera di d’Annunzio» echeggiassero «le vibrazioni più felici della sua arte» (PDA, 222); così come che «accanto al fenomeno d’Annunzio, che fu una moda, c’è anche il d’Annunzio che resta», ovvero un autore di pagine «non retoriche, ma vive» (PDA, 221).

La relazione al Convegno di studi dannunziani nel 1963
È in corso una serie di iniziative che si concluderanno in ottobre a Venezia con un convegno che s’annuncia importante. Vi si tratterà dei vari aspetti dell’opera dannunziana. Io, per esempio, leggerò una mia relazione su “D’Annunzio nella cultura europea” […]. Vi saranno molti altri relatori: così Ildebrando Pizzetti parlerà di d’Annunzio e la musica, Cecchi della prosa “notturna”, Raul Radice del teatro dannunziano, Sapegno di d’Annunzio lirico. (PDA, p. 225)
Il convegno si svolse nel 1963, e fu organizzato per commemorare il poeta nel centenario della sua nascita, nonché per incoraggiare – come si legge nella Premessa agli Atti, pubblicati a cinque anni dall’evento – «una vigorosa ripresa degli interessi, a tutti i livelli, nei confronti di Gabriele d’Annunzio e dell’opera sua». Si svolse tra il 7 e il 13 ottobre, ospitato in tre diverse città: Venezia (Fondazione Cini); Gardone Riviera (Vittoriale); Pescara (Centro Nazionale di Studi Dannunziani). Molti ed illustri gli studiosi che vi presero parte: da Emilio Cecchi a Ezio Raimondi; da Gianfranco Folena a Ettore Paratore, per giungere infine a Mario Praz, che si presentava con un intervento intitolato D’Annunzio nella cultura europea. Mediante una trattazione di ampio respiro, venivano qui toccati diversi aspetti della letteratura dannunziana: Praz metteva a fuoco il rapporto tra l’abruzzese e i simbolisti francesi (in particolare Rimbaud e Mallarmé); sottolineava l’eredità di Swinburne e Nietzsche; ricordava l’ispirazione trovata nei versi di Whitman e azzardava arguti collegamenti con gli autori delle più disparate epoche e correnti. L’obiettivo? Restituire una visione a tutto tondo dell’arte del pescarese, esaltandone la complessità intertestuale, la rilevanza estetica e il ruolo nodale all’interno del panorama europeo, in un’ottica di valorizzazione della letteratura dannunziana come luogo di proficua convergenza di molteplici direttrici culturali. Poteva così rivedere in d’Annunzio la sintesi più alta del filone decadente, e concludere che «l’opera complessiva del poeta ha finito per presentare l’aspetto d’una monumentale enciclopedia del decadentismo europeo, dalla tematica maggiore alla minima». (DCE, p. 413)
Poesie, teatro, prose: l’antologia dannunziana per Ricciardi
«Credete che, in occasione del centenario, usciranno molte pubblicazioni critiche, biografiche, antologiche o quel che sia?». A questa domanda posta da Paolo Milano, moderatore tra i partecipanti al «Processo» dannunziano, Mario Praz rispondeva così, annunciando l’uscita di una pubblicazione significativa:
Io so soltanto, per ora, quel che mi riguarda. Uscirà una antologia dell’opera di d’Annunzio. Essa sarà inclusa nella collana dei “Classici Italiani” edita da Ricciardi, e verrà curata da me e da uno specialista di bibliografia dannunziana, Ferdinando Gerra. Sarà un volume di circa 1200 pagine. Vi saranno incluse per intero le poesie dell’“Alcione” e una copiosa scelta di prose, sia dai romanzi che dalle opere minori, come la “Contemplazione della morte”, nella quale, non soltanto a mio parere, si trovano pagine finissime. (PDA, p. 226)
Quest’anticipazione sommaria adombrava tuttavia alcuni retroscena curiosi. Aveva ormai superato i sessant’anni Mario Praz quando accettò di curare il 62° volume della prestigiosa collana Letteratura italiana. Storia e testi di Ricciardi, rappresentato da un’antologia di testi dannunziani che uscì con il titolo Poesie, teatro, prose. Si trattò dell’ultima fatica praziana nel campo degli studi dannunziani, non certo irrisoria: l’edizione, volta a celebrare il poeta nel primo centenario della sua nascita, era stata programmata per il 1963, ma apparve solo nel 1966, rallentata da una mole di lavoro che sulle prime non era stata prevista:
A cuor leggero, nell’anno del centenario dannunziano, m’impegnai insieme con Ferdinando Gerra a curare una scelta delle opere del Poeta con un commento che poco cautamente immaginavo sarebbe stato ampio per le poesie e molto più succinto per le prose. E per le opere di poesia esiste già un minuzioso apparato di note di Enzo Palmieri che mi doveva servire di arsenale da sfruttare con metodo insegnatomi dal poeta stesso, abilissimo negli imprestiti. Il calcolo, alla prova dei fatti, è risultato sbagliatissimo, ché tanto han dato da fare le opere in prosa che l’edizione della scelta, prevista per la fine del 1963, fa ancora gemere i torchi, nonché gli sgobboni preposti al commento e alla supervisione del medesimo. (PS, p. 394)
Praz acconsentì alla richiesta nonostante qualche esitazione iniziale, dovuta al timore di non possedere le opportune competenze bibliografiche e filologiche sull’autore e la sua vasta opera. Si rendeva quindi necessario il supporto di un collega aggiornato, individuato in Ferdinando Gerra, comprimario nell’allestimento del volume, che vantò infine una curatela a quattro mani:
Quando venni richiesto di curare un’antologia dell’opera dannunziana, debbo confessare che dapprima esitai: per quanto il mio primo lavoro serio sia stato uno studio della lingua di Gabriele d’Annunzio, che discussi come tesi di laurea all’Università di Firenze, per quanto la tematica dannunziana abbia dato l’avvio al mio libro più noto, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, e un influsso dannunziano sia probabilmente discernibile nei miei scritti saggistici, per radicati che siano in una tradizione inglese, mi mancava per assolvere puntualmente al compito di quell’antologia una conoscenza minuta della vicenda biografica del grande scrittore, e della storia materiale dei suoi testi. Avevo già quasi rifiutato di occuparmi dell’antologia, quando mi ricordai che quella minuta curiosità biobibliografica era universalmente riconosciuta all’amico Ferdinando Gerra. Egli accettò entusiasticamente di associarsi all’impresa, e grazie alla sua collaborazione l’opera è potuta riuscire completa in tutti i suoi aspetti. (PS, 387)
Una dichiarazione d’intenti, anch’essa rilasciata durante il «Processo», illustrava le finalità che sovrintendevano all’intero progetto editoriale:
Dalla mia antologia spero venga fuori un d’Annunzio sfrondato, epurato e quindi chiaramente apprezzabile nei suoi autentici valori. Ideare e scegliere un’antologia mi pare sia il modo più chiaro d’indicare ciò che è vivo e ciò che è morto d’uno scrittore. (PDA, p. 226)
Ad eccezione del solo Alcyone, incluso integralmente, la raccolta offriva un ampio florilegio di brani in prosa e in poesia, senza trascurare la produzione drammaturgica dell’autore. Gli sforzi esegetici dei commentatori furono considerevoli, se non altro alleggeriti dall’appoggio ai soliti repertori lessicografici e dal prezioso supporto trovato nelle annotazioni di Enzo Palmieri. Il prospetto su Vita e opere fu curato da Gerra, mentre alla penna di Praz venne affidata l’introduzione, che si allineava alla relazione veneziana D’Annunzio nella cultura europea, ripresa in alcuni sviluppi tematici e soprattutto nel focus argomentativo: quel che premeva al tardo Praz non era più l’analisi dei fenomeni intertestuali di taluna o talaltra opera del Vate, ma un inquadramento definitivo dell’esperienza letteraria dannunziana, che consentisse di determinare la posizione dell’autore nel più ampio quadro della cultura europea. Se ne esaltava così la «prodigiosa […] capacità d’assimilazione» (PTP, p. x), non limitata all’appropriazione che seppe fare delle sue eclettiche letture, ma anzi estesa ad un naturale assorbimento dell’essenza più autentica del Decadentismo, di cui d’Annunzio si ergeva a esponente ineguagliato. Si può dire, in conclusione, che il ritardo d’uscita fu ripagato dal confezionamento di un lavoro condotto con rigorosa acribia filologica e interpretativa, il quale, «ripropone[ndo] al pubblico odierno il problema d’Annunzio», voleva consegnarsi come «un punto d’arrivo» e «di partenza» insieme: d’arrivo in quanto «conclusione di un secolo di critica»; di partenza, invece, nella stimolazione di «una nuova valutazione della poesia dannunziana».
Bibliografia
Scritti di Mario Praz
Carteggio Cecchi-Praz, a cura di Francesca Bianca Crucitti Ullrich; prefazione di Giovanni Macchia, Milano, Adelphi, 1985. (CP)
Mario Praz, Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a cura di Andrea Cane, Milano, Mondadori, 2002. (BB)
Mario Praz, D’Annunzio nella cultura europea, in L’arte di Gabriele d’Annunzio. Atti del convegno internazionale di studio (Venezia – Gardone Riviera – Pescara, 7-13 ottobre 1963), a cura di Emilio Mariano, Milano, Mondadori, 1968, pp. 403-417. (DCE)
Mario Praz, Fonti dannunziane, «La Critica» (1923), 20 gennaio, pp. 43-45; 20 marzo, pp. 95-97; 20 novembre, pp. 372-373. (FD)
Mario Praz, Gabriele D’Annunzio poeta georgico, «Rivista delle Biblioteche e degli Archivi», XXX (1919), pp. 7-14. (DPG)
Mario Praz, Il patto col serpente. Paralipomeni di «La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica», Milano, Mondadori, 1972. (PS)
Mario Praz, Introduzione, in Poesie, teatro, prose, a cura di Mario Praz e Ferdinando Gerra, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966. (PTP)
Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Milano-Roma, La Cultura, 1930.
Mario Praz, La casa della vita, Milano, Adelphi, 1979. (CV)
Mario Praz, La «Francesca da Rimini» di G. D’Annunzio. Il dramma d’ambiente, «La Cultura» (1922), 15 maggio, pp. 289-303. (FR1)
Mario Praz, La «Francesca da Rimini» di G. D’Annunzio. Il dramma storico, «La Cultura» (1922), 15 marzo, pp. 193-202. (FR2)
Mario Praz, Lettere a Bruno Migliorini, a cura di Lucia Pacini Migliorini, Firenze, Sansoni, 1983. (LM)
Mario Praz, «Notturno» di G. D’Annunzio, «La Cultura» (1922), 15 gennaio, pp. 121-126. (NT)
Bibliografia generale
Bibliografia degli scritti di Mario Praz, a cura di Vittorio e Mariuma Gabrieli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997.
Pietro Gibellini, I dizionari nell’officina di Alcyone, in Claudio Marazzini, Giulia Raboni, Pietro Gibellini, Spogliare la Crusca. Scrittori e vocabolari nella tradizione italiana, Milano, Unicopli, 2008, pp. 58-76.
Donatella Martinelli – Cristina Montagnani, Vocabolari e lessici speciali nell’elaborazione di «Alcione», «Quaderni del Vittoriale», XIII (1979), pp. 5-59.
Cristina Montagnani – Pierandrea De Lorenzo, Come lavorava d’Annunzio, Roma, Carocci, 2018.
Alberto Moravia – Pierpaolo Pasolini – Mario Praz – Natalino Sapegno – Paolo Milano, Processo a d’Annunzio, «L’Espresso», 24 marzo 1963, pp. 12-13.
Andrea Zanoni, Mario Praz critico di d’Annunzio. Dalla tesi di laurea alle riflessioni della maturità, «Studi Medievali e Moderni», XXVI (2022), 1, pp. 27-54.
Andrea Zanoni, Riscontri lessicografici nel «Primo vere» di d’Annunzio, «Italianistica», LII (2023), 2, pp. 59-74.
Antonio Zollino, Su un «Processo a d’Annunzio» del 1963 e altri abbagli antidannunziani, in Studi in onore di Giuseppe Papponetti, a cura di Luciano Curreri e Giuseppe Traina, Cuneo, Nerosubianco, 2013, pp. 209-226. (PDA)