di Gioele Cristofari, Enciclopedia dannunziana
Genesi, elaborazione, vicenda editoriale
Pubblicato nel 1900 dalla milanese Treves, nelle intenzioni di d’Annunzio Il fuoco avrebbe dovuto inaugurare la trilogia dei Romanzi del melagrano, da proseguire con una Vittoria dell’uomo e un Trionfo della vita rimasti allo stato di progetto. La serie avrebbe costituito il vertice di un ciclo di nove volumi dedicato all’«evoluzione intera di uno spirito moderno a cui non è ignota alcuna esperienza della vita e dell’arte» (d’Annunzio 1999, p. 523), nel quale collocare anche I romanzi della rosa (Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte) e quelli del giglio (che rimasero limitati al solo Le vergini delle rocce).
Il prospetto delle due uscite di Romanzi del melagrano era preceduto, in calce al testo della princeps, dalla data conclusiva «XIII di febbraio di MDCCCC». Perfettamente inseribile nella cronologia compositiva del romanzo, si tratta di un’indicazione però anche simbolica: anniversario della morte di Richard Wagner, figura centrale del Fuoco, il 13 febbraio (del 1883) era stata conclusa la prima parte dello Zarathustra (Nietzsche, tra l’altro, sarebbe morto nell’agosto di quello stesso 1900). Precisa volontà o caso fortuito, ciò che importa è il lento protrarsi dell’«atroce fatica» del Fuoco (ivi, p. 550), iniziata alla metà degli anni novanta: se la firma sul contratto con Treves data al maggio del 1896, la gestazione dell’opera era infatti cominciata almeno coi propositi manifestati al traduttore Georges Hérelle di scrivere un «romanzo veneziano – che ho già chiaro e vivo nello spirito», il 27 ottobre 1894 (d’Annunzio, Hérelle 2004, p. 235). È probabile, visto il tono della lettera di ottobre, che Hérelle già sapesse del progetto: scrittore e traduttore si erano conosciuti due mesi prima proprio nella città lagunare, dove d’Annunzio tornava per la seconda volta dopo sette anni. Qui aveva ritrovato l’amico Angelo Conti (Daniele Glàuro, il «dottor mistico» del Fuoco) e, soprattutto, aveva incontrato Eleonora Duse (la Foscarina del romanzo).
Fino alla fine del 1894 e per tutto l’anno successivo Il fuoco non rientra però che lateralmente nell’orizzonte compositivo dannunziano, allora ingombrato da altri lavori, a cominciare dalla stesura e dalla pubblicazione a puntate sul «Convito» delle Vergini delle rocce. È vero, in ogni caso, che il 1895 vide due esperienze fondamentali per il costituirsi del futuro romanzo: il viaggio in Grecia, tra luglio e agosto, e la declamazione l’8 novembre dell’Allegoria dell’Autunno, che confluirà quasi integralmente nel volume. Quanto al viaggio, le impressioni lì accumulate serviranno per il momento soprattutto come materiali per La città morta; proprio un «drama» di ambientazione greca costituisce però l’opus vagheggiato dal protagonista Stelio Èffrena nel romanzo del 1900. Più vasto l’apporto dell’Allegoria, scritta in una notte «a forza d’etere» (Damerini 1943, p. 43), pronunciata da d’Annunzio in chiusura della prima Esposizione Internazionale d’Arte nella Sala del Ridotto della Fenice e prontamente pubblicata in edizione fiorentina; nel romanzo è riutilizzata per il quarto capitolo (priva della lode finale al sindaco di Venezia), in cui a recitarla è Stelio, ma nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale. Per il momento, in ogni caso, un lavoro di documentazione o stesura propriamente dedicato al «romanzo veneziano» è ancora di là da venire.
«Ho riacceso Il Fuoco», scrive inaspettatamente d’Annunzio a Emilio Treves, il 13 maggio 1896 (1999, p. 182). Chiesto e ottenuto un sostanzioso anticipo, l’Imaginifico firma nei giorni seguenti il contratto editoriale e parte nuovamente alla volta di Venezia, accompagnato da Duse, per realizzare alcuni «studii» (ivi, p. 188). Al ritorno a Francavilla, inizia la stesura (alternata a quella della Città morta), che procede certamente fino alla fine dell’anno, con l’invio di alcune cartelle prima a Hérelle, poi forse in gennaio all’editore. A quell’altezza Il fuoco giungeva certamente fino al quarto capitolo dell’Allegoria, di cui d’Annunzio accenna nella lettera al traduttore francese.
La copia cianografica dell’autografo (perduto) riporta, in calce alla prima parte L’epifania del fuoco, un’indicazione tra parentesi: «27 settembre 1899 | ore 6 di sera» (APV, LXXIV, 2, n. 17230, c. 405). Nel lungo intervallo tra la fine del 1896 e quella data, dunque, d’Annunzio scrisse i soli sei capitoli che mancavano a concludere la sezione, lasciando probabilmente spento Il fuoco per tutto il 1897 e buona parte del 1898. Altre occupazioni tolgono tempo alla stesura, dalla composizione del Sogno d’un mattino di primavera e del Sogno d’un tramonto d’autunno (scritto in aprile del 1897 il primo; a fine anno il secondo) all’avventura elettorale e parlamentare (a partire dal luglio 1897), dalla mai avviata costruzione di un teatro ad Albano, allusa anche nel Fuoco, al problematico trasferimento nella Capponcina (febbraio 1898). Solo nell’aprile del 1898 d’Annunzio scrive a Hérelle di aver ripreso la stesura del romanzo. Difficile stabilire a quale ritmo procedesse il lavoro; di certo in autunno «Il Marzocco» pubblicò due estratti del romanzo in fieri (Il mito del Melograno e La lamentazione di Arianna), scatenando le prevedibili ire dei Treves.
Nuovamente incagliatosi nella prima metà del 1899 (a giugno, tra l’altro, si apre la lunga stagione alcionia, con La sera fiesolana), Il fuoco subisce una netta accelerazione a partire da agosto, dopo «un completo rimaneggiamento» che ha fatto parlare di vera e propria «rifondazione» del romanzo (Mariano 2016, pp. 192 e 201). Conclusa L’epifania la sera del 27 settembre, e accantonata l’idea di una pubblicazione in due volumi che comprendesse anche il seguito della progettata trilogia, d’Annunzio stende la seconda e ultima sezione L’impero del silenzio nel corso dei quattro mesi successivi. Treves, che poté finalmente stamparne la princeps, non denunciò però i diritti d’autore, favorendo anni più tardi la «dolorosissima» proliferazione di edizioni non controllate dall’autore (d’Annunzio 1999, p. 489). Monumentalizzato nel 1930 insieme al resto della produzione dannunziana nell’Edizione Nazionale, Il fuoco vide un’ultima edizione romana vivo l’autore nel 1933.
Contenuto e struttura
Dovrebbe risultare chiara, dal sin qui detto, la centralità dell’Allegoria dell’Autunno nell’economia della prima sezione del romanzo. L’attesa per il discorso del quarto capitolo è del resto sapientemente suscitata dai tre precedenti.
Il primo è aperto dalle parole di Foscarina (che Stelio chiama qui Perdita) a bordo di una gondola presso la Ca’ Dario, durante «l’ultimo crepuscolo di settembre»: l’attrice tragica blandisce il più giovane amico, prevedendo «una bella sera di trionfo per un grande poeta». Il dialogo tra i due, presto interrotto dal passaggio della regina (Margherita di Savoia), che assisterà al discorso del giovane artista, si muove tra gli elogi di Stelio alla Venezia autunnale e la sommessa ammirazione della più matura Foscarina («la forza e la fiamma sono in voi, Stelio»). Tra le due voci, quella del narratore s’insinua a presentare più diffusamente il protagonista: «Egli era giunto a compiere in sé stesso l’intimo connubio dell’arte con la vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne di armonie». Il simbolo di Stelio è il frutto del melagrano, «imagine di cose ricche e riposte, quasi scrigni di cuoio vermiglio recanti in sommo la corona d’un re donatore»; il suo motto, il leonardesco «Natura così mi dispone». L’artista, dopo essersi fuggevolmente informato sulla presenza nel Palazzo Ducale di Donatella Arvale, «cantatrice» e amica di Foscarina (ne sarà invero l’antagonista), strappa alla donna la promessa di un incontro, dopo la cerimonia. Foscarina, da parte sua, sa bene che «il dono del suo corpo era divenuto omai necessario».
Nei due capitoli successivi, sono gli amici a incoraggiare l’oratore, che seconda benevolmente «il gusto della sedizione e lo spirito fazioso» di un Piero Martello e ascolta taciturno i complimenti di un Francesco de Lizo e del «fervido e sterile asceta della Bellezza» Daniele Glàuro, che si sofferma lungamente a osservare e commentare con Stelio una medaglia incisa dal Pisanello. Annunciato da un rombo di cannone, l’arrivo imminente della regina approssima l’inizio dell’evento.
Il lungo discorso si risolve in un confuso omaggio a Venezia, alla sua «nuziale alleanza» con l’autunno che ne esalta la «suprema condizione di bellezza», nell’insistenza sul vitalismo della «città anadiomene» e nelle lodi di Paolo Veronese, del Tintoretto, di un prometeico Giorgione che «rappresenta nell’arte l’Epifania del Fuoco». Qualche interesse è negli interventi del narratore, dalla ripetuta descrizione del «mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani» che assiste all’orazione, all’inaspettato, grazioso dissenso della regina per «una sentenza che parve troppo audace». Ciò che più conta, però, è senza dubbio la stringata esposizione finale della «dottrina» di Stelio Èffrena, riadattamento scoperto dell’Übermensch nietzschiano, riassunta dall’animatore nell’«atto che è la genesi stessa di nostra specie: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua».
Sfuggito agli applausi e al «delirio giovenile» scrosciati dopo il suo discorso, Stelio si rifugia dapprima nelle stanze del museo, finalmente «tra simulacri candidi e muti», poi nell’ombra del cortile, in attesa di Foscarina e Donatella, che compaiono al sommo della Scala dei Giganti. Con le due donne, l’oratore assiste a uno spettacolo pirotecnico in onore della regina: è l’epifania del fuoco che, insieme a quella giorgionesca, dà titolo alla sezione. Mentre il trio procede in gondola verso la casa di Foscarina dove avrà luogo un convito di amici e ammiratori, Donatella (che Stelio, guardandola «con occhi abbagliati», chiama Arianna) annuncia la sua prossima partenza da Venezia, per assistere il padre malato, lo scultore Lorenzo Arvale.
Il convito costituisce il secondo polo di attrazione dell’Epifania, non del tutto armonizzato con il primo. La discussione volge inizialmente intorno al futuro «drama» di Stelio, di cui Foscarina sarà ispiratrice e interprete, per poi portarsi sulla figura di Richard Wagner, vicino alla fine nella sua dimora veneziana (palazzo Vendramin-Calergi). Il giudizio sul compositore tedesco, i cui principali alfieri sono il principe Hoditz e Baldassarre Stampa, resta per il momento poco chiaro: geniale creatore sì, ma di un opera «d’essenza puramente settentrionale», con radici greche trattate tuttavia in modo «ineguale e confuso»; e se in un impeto di nazionalismo estetico Stelio dichiara di vedere «un barbaro in ogni uomo di sangue diverso», poco dopo si trova a considerare ammirato le vittorie tedesche di Sadowa e Sedan quali espressioni dei medesimi, nobili «istinti della […] razza» germanica. Il canto di Donatella, che intona l’Arianna di Benedetto Marcello, interrompe momentaneamente la discussione, che si conclude con un brindisi al nuovo Teatro d’Apollo, voluto da Stelio e in costruzione sul Gianicolo. Poco dopo, nel giardino, Stelio fa valere le sue pretese sulla «donna promessa».
La scena si sposta al mattino dopo, nel letto di Foscarina, dal quale l’artista si leva «come dal letto d’una cortigiana». Al doloroso e pentito stato d’abbandono della donna fa da controcanto la vitalità di Stelio, che si allontana in gondola e, prima di prendere il largo per la laguna su una barca di pescatori, si ferma davanti al palazzo Vendramin-Calergi, davanti alla cui porta lascia un mazzo di fiori.
La seconda sezione del romanzo, L’impero del silenzio, è in «contrasto» con la prima sotto più aspetti, a cominciare dalla durata diegetica: il breve arco di una notte e la luce del mattino seguente nell’Epifania; i sei mesi successivi nel seguito. Se prima la narrazione si organizzava intorno ai due epicentri del discorso di Stelio e del convito, qui gli episodi si susseguono autonomi l’uno dall’altro. I primi tre capitoli approfondiscono la descrizione dello sfiorire di Foscarina e la torbida relazione col più giovane artista, che la accompagna in una visita all’Accademia e, per le vie di Venezia, ascolta dall’attrice la storia della contessa di Glanegg, reclusasi nella sua casa di calle Gàmbara «perché gli uomini non assistessero al deperimento e allo sfacelo della sua bellezza illustre». Le due scene successive, al chiuso, segnano il contrasto tra la triste dedizione della donna e l’energia di Stelio, mentre nei loro dialoghi si insinua già il fantasma di Donatella, evocato dalla stessa Foscarina («Vuoi che ti conduca a lei? Vuoi che te la chiami?») ma pure dai pensieri dell’animatore («Mentre ella lo teneva fra le sue braccia, l’altra cantava in lui!»).
Isolato da quanto precede, il quarto capitolo vede Stelio e Daniele Glàuro su un battello, di ritorno dal Lido, sul quale viaggia anche uno stravolto Richard Wagner, in compagnia della moglie Cosima e del fedele Franz Liszt (la cui «devozione» al compositore tedesco rimanda scopertamente a quella del «dottor mistico» per il protagonista). Colto da un malore, all’approdo Wagner è portato a braccia dai due amici, che doppieranno il gesto nel finale del romanzo. Ispirato dall’incontro, nel capitolo successivo Stelio si aggira fremendo per una Venezia allagata, inseguendo nel vento «la linea intera della melodia» del dramma futuro, la cui «visione», descritta fumosamente a Daniele, si riferisce chiaramente all’ambientazione e alla trama della Città morta. L’episodio, tra i più forzati del romanzo, ha il suo culmine con le parole di fede del compagno: «Se hai veduto veramente quel che tu dici, tu non sei più un uomo…». È Foscarina, poco dopo, a placare l’«ansietà» del giovane creatore, facendogli ricordare la «casa che sta sulla duna» e la sorella Sofia, che lì attende forse il suo ritorno.
Altro celebre brano, ambientato nel giardino del palazzo Gradenigo dove è da poco tornata l’anziana Lady Myrta, è al capitolo settimo; qui, mentre Myrta circondata dai levrieri conversa con Foscarina, piomba improvvisamente Stelio. I cani, che «parevano riconoscerlo per padrone», obbediscono ai suoi comandi e Foscarina stessa, vestita di un rosso sacrificale, è esplicitamente paragonata al più bello di essi, il fulvo Donovan, che Myrta non esita a donare al giovane Imaginifico. Così precisati, i caratteri del superomismo di Stelio non possono che collidere con la languida dedizione dell’attrice: nel capitolo successivo, dopo aver ricevuto una lettera di Donatella che chiede notizie del «Maestro del Fuoco», Foscarina si rifugia in un orto chiuso della Giudecca, dove ascoltando il canto lontano del Manicomio Femminile di San Clemente medita di lasciare la città.
Venezia si allontana, del resto, già nei capitoli successivi, che descrivono due visite della coppia nel padovano, a Stra, e nell’isola di Murano. La prima culmina, dopo una passeggiata tra le statue del parco, con lo scherzo del giovane che abbandona la tormentata attrice nel labirinto, finché un malore di lei non lo costringe a chiedere soccorso. Durante la seconda, in una vetreria «sede del fuoco», dove Stelio dà nuovamente prova delle sue capacità di «animatore» sugli uomini che vi lavorano, Foscarina è omaggiata da un artigiano di un prezioso calice (che finirà per rompersi), e poco dopo si apre con l’amante a una lunga confessione sulla sua giovinezza. Entrambe le occasioni sono però ammorbate dall’ombra di Donatella: alle pressanti domande dell’amante, Stelio finisce per confermare la sua attrazione verso la cantatrice. Emerso pienamente il dissidio amoroso, la donna non può che annullarsi nel compagno, assistendo silenziosamente il fermento creativo della nuova tragedia di Stelio e preparandosi alla partenza. C’è ancora tempo per un’ultima visita, questa volta alla lontana isola di San Francesco del Deserto, durante la quale l’animatore racconta la storia di Dardi Seguso, sfortunato vetraio e artefice di un gigantesco organo sprofondato nella laguna. Al ritorno, i due apprendono da Daniele Glàuro della morte di Wagner.
I due capitoli finali, brevi e dolenti, costituiscono forse tra le note più alte del Fuoco. Dopo il pacifico addio di Foscarina a Stelio e a Venezia, il 16 febbraio si celebrano i funerali dell’«Eroe» tedesco; a portarne il feretro, insieme a Daniele e al resto degli amici, è il protagonista del romanzo. Dalla capitale due giovani artieri «eletti tra i più forti e tra i più belli, […] foggiati nell’antica impronta della stirpe romana» recano dei fasci di lauro colti sul Gianicolo (sede del Teatro di Apollo) che, iniziando il viaggio verso la patria del compositore, «mettevano già i nuovi germogli nella luce di Roma».
Stile e interpretazioni
Dieci anni dopo l’uscita del Fuoco, Vincenzo Morello poteva ancora imputarne le evidenti fragilità costruttive all’incompiutezza dei Romanzi del melagrano, dei quali attendeva l’uscita per «proferire un giudizio intorno all’economia dell’opera», dal momento che «ognuno di quei romanzi è una parte non un tutto» (1910, p. 61). La mancata uscita della Vittoria dell’uomo e del Trionfo della vita, le difficoltà e i rimandi nella stesura del Fuoco, la «disfunzione di impianto che contraddice di fatto l’aspirazione all’opera organicamente strutturata» (Costa 1975, p. 106) sembrano oggi suggerire invece l’impossibilità di organizzare «una materia ancora bollente» perché troppo implicata coi sussulti della vita stessa dell’autore nel periodo lungo tra il 1894 e il 1900 (d’Annunzio 1999, p. 537). Le angustie della forma, insomma, collidevano col proposito di celebrarvi «l’intimo connubio» tra arte e vita.
Non a caso, Il fuoco è stato spesso letto come «una successione di splendidi brani di antologia» (Goudet 1976, p. 227): il tentativo di far rientrare all’interno dell’opera le suggestioni anche episodiche della seconda metà del decennio creativo dannunziano non può che fare del romanzo un contenitore onniaccogliente, all’interno del quale il primo dato a naufragare è la strutturazione della diegesi, che non per caso si dispone in uno stretto ordine cronologico dal quale è escluso ogni sforzo di intreccio. Alla disarmonia di impianto fanno pertanto eco i diversi spunti estetici mai del tutto equilibrati tra loro, i personaggi non connotati e persi nel corso della narrazione e la generale debolezza dell’ossatura teorica che ha la prima e più chiara rispondenza nell’oratoria dell’Allegoria.
A garantire la tenuta del discorso di Stelio, e dell’intero romanzo, è piuttosto il dato spaziale: una Venezia protomodernista, «museo di tutto ciò che l’arte in tutte le sue manifestazioni e i suoi generi ha prodotto lungo i secoli» (Bàrberi Squarotti 1982, p. 114), presa anch’essa in uno squilibrio non risolto tra la «Città della Vita» descritta dal protagonista e le suggestioni che attraversano il decadentismo europeo alla svolta del secolo facendo della Serenissima una città funebre e sepolcrale (è appena il caso di citare Maeterlinck, Mann, Ruskin e, in parte, James). Come nella sua fase germinale, Il fuoco è dunque il «romanzo veneziano» di d’Annunzio, che nel mettere in scena i due personaggi principali risponde a quell’antinomia primaria (del romanzo, dell’intera opera sua, della fin de siècle) tra un polo igneo e vitalistico, che pure scade sistematicamente in eccessi superomistici (Stelio) e un altro, equoreo e mortuario, di silenzio e autoannullamento (Foscarina). La critica ha spesso riservato al secondo miglior trattamento che al primo, intravedendo in Foscarina «alcuni segni di una sotterranea evoluzione» (Goudet 1976, p. 240), e attribuendole «le vesti della ‘superdonna’, della femme fatale divoratrice che succhia all’uomo le sue energie vitali» (Rusi 2015, p. 154). Per la verità, lo sviluppo di Foscarina appare spesso meccanico, e la potenza evocativa del modello femminile non va oltre la sessualizzazione dei suoi caratteri (che però non le consente la vittoria sulla vera donna fatale del romanzo, Donatella Arvale). Pur dotata di una psicologia più complessa di quella (insondabile) dell’«ingenuo» creatore, la Tragica è in questo senso soprattutto figura complementare del geniale amante, e il suo anelito a «servire» è certo condizione e alimento del superomismo di lui, non segno di sviluppo autonomo.
In secondo piano rispetto alla coppia di amanti, le altre figure del Fuoco rivestono funzioni poco più che accessorie, a cominciare dagli amici di Stelio, tra cui spicca il solo Glàuro, ma costretto al ruolo di primo dei «discepoli» (fu d’Annunzio, invece, a servirsi durante la stesura della Beata riva di Conti). Lo stesso Wagner, nell’unico episodio in cui appare, non ha più che «l’apparenza di uno straccio», e solo dopo morto è oggetto di una celebrazione tanto solenne quanto inoffensiva. La riduzione dei personaggi secondari a coro muto è plasticamente evidente nel trattamento delle classi subalterne, sempre velato di paternalismo e di contegno aristocratico (in particolare durante l’incontro tra il protagonista e i pescatori nel finale dell’Epifania e in quello con i vetrai nell’Impero), come pure nel disprezzo per il «mostro» della folla che assiste all’orazione di Stelio, evidente doppio tra i molti della «Bestia elettiva» affrontata dal candidato nel collegio di Ortona nel 1897. Nel corso della narrazione è poi sistematica la rimozione del dato sociologico e di genere, per cui di Stelio medesimo, signore di donne e discepoli, non è mai chiarita esplicitamente l’appartenenza di classe o l’ideologia di riferimento (solo un’indeterminata passione per la «sedizione e lo spirito fazioso»); anche il suo passato è oscurato, se non per gli accenni alla casa lontana e alla sorella, e passa del tutto sotto silenzio persino l’occasione che lo porta a pronunciare un discorso vagamente imperialista al cospetto della regina.
Ciò comunque non significa ancora parlare di «un romanzo interamente ideologico e di destra» (Mutterle 1980, p. 85). È vero che la spinta nazionalistica, pur in posizione incerta rispetto al fascino esercitato dalla cultura germanica, è ben evidente in due luoghi del Fuoco finora ignorati dai commentatori (durante la cena a casa di Foscarina dell’Epifania e nella visita a San Francesco del Deserto nell’Impero), nei quali la ripresa dall’anonimo Proemio del «Convito» (1895) che inneggia alla «causa dell’Intelligenza contro i Barbari» è pressoché letterale: «Volendo vivere essi debbono lottare e affermarsi di continuo, contro la distruzione la diminuzione la violazione il contagio». Il soggetto individuato per tale lotta, lì gli «intellettuali», è nel Fuoco ovviamente Stelio, primo esempio letterario del «vivo fascio di energie militanti» descritto nella rivista di De Bosis, ma qui isolato e tutt’altro che inquadrabile in una ideologia precisa e consapevole. Pur denunciando alcuni tentativi embrionali di posizionamento, favoriti magari dalla contemporanea esperienza parlamentare, gli inserti del «Convito» vanno specialmente interpretati nel giro del lussureggiante decorativismo del romanzo, e contribuiscono al diffuso stile declamatorio, paratattico e fortemente spezzato dal quale il testo, dopo gli eccessi dell’Allegoria, non riesce a smarcarsi completamente. Né bastano da contrappeso le frequenti aperture liriche, la profusione di anafore o le amplissime similitudini della seconda sezione, che riecheggiano in definitiva gli espedienti che già operavano nella prima: lo stesso abbassamento tonale delle pagine conclusive, imbevute di nazionalismo e simbologia romana, rappresenta l’ennesima nota dissonante in un testo costitutivamente disomogeneo, più isolato nucleo germinale di futuri sviluppi che sintesi coerente di quanto precede.
Il dettato del «romanzo veneziano», non tale da comportare una completa «negazione della “prosa”» (Burrini 2003, p. 23), segna tuttavia almeno un deciso detrimento dell’organizzazione narrativa, in ultima istanza riconducibile al lento trapasso del superomismo dannunziano dalla programmaticità del Trionfo della morte alla tregua alcyonia. Insieme alla (approssimativa) unità di luogo, la «dottrina» nietzschiana resta ancora il vero perno intorno al quale ruota la vicenda del Fuoco: il cui sincretismo, anche, può essere interpretato in quello «sforzo di sorpassar sé medesimo» che aveva finito per corrodere le impalcature stesse della forma-romanzo, riducendola a un «grande contenitore» (Lorenzini 1993, p. 48) le cui ampiezze sarebbero rimaste non a caso intentate nei successivi dieci anni.
Bibliografia essenziale
Edizioni apparse in vita:
Gabriele d’Annunzio, L’Allegoria dell’Autunno. Omaggio offerto a Venezia da Gabriele d’Annunzio, Firenze, Roberto Paggi, 1895.
Gabriele d’Annunzio, Il Fuoco, Milano, Treves, 1900.
Gabriele d’Annunzio, L’Allegoria dell’Autunno, Milano, Treves, 1906.
Gabriele d’Annunzio, Il Fuoco, Milano, Istituto nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio, XXVII, 1930.
Gabriele d’Annunzio, Il Fuoco, Roma, Per L’Oleandro, 1933.
Edizioni commentate:
Gabriele d’Annunzio, Prose di romanzi, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1942, 2 voll.
Gabriele d’Annunzio, Prose di romanzi, prefazione di Ezio Raimondi, a cura di Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1989, 2 voll.
Gabriele d’Annunzio, Il fuoco, a cura di Anco Marzo Mutterle, Milano, Mondadori, 1990.
Gabriele d’Annunzio, Il fuoco, a cura di Pietro Gibellini, Milano, Rizzoli, 2009.
Bibliografia secondaria:
D’Annunzio e Venezia. Atti del Convegno. Venezia 28-30 ottobre 1988, a cura di Emilio Mariano, Venezia, Lucarini, 1991.
Paolo Alatri, D’Annunzio, Milano, UTET, 1983.
Paolo Alatri, Ideologia e politica in D’Annunzio, in D’Annunzio a Yale. Atti del Convegno (Yale University, 26-29 marzo 1988), «Quaderni dannunziani», 1988, 3-4, pp. 23-33.
Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000.
Annamaria Andreoli, D’Annunzio, Bologna, il Mulino, 2004.
Umberto Artioli, Il combattimento invisibile. D’Annunzio tra romanzo e teatro, Roma-Bari, Laterza, 1995.
Giorgio Bàrberi Squarotti, Invito alla lettura di d’Annunzio, Milano, Mursia, 1982.
Ilaria Bonomi, La lingua del ‘Fuoco’ e della ‘Città morta’ di Gabriele D’Annunzio nell’analisi di Maurizio Vitale, in Maurizio Vitale, D’Annunzio e la scienza delle parole, a cura di Ilaria Bonomi e Silvia Morgana, Milano, Ledizioni, 2019, pp. 43-54.
Giorgio Burrini, La favola bella. Riflessioni e note in margine alla lettura del “Fuoco” di D’Annunzio, «Il lettore di provincia», settembre-dicembre 2003, 118, pp. 23-28.
Filippo Caburlotto, ‘Il Fuoco’: dalla musica al silenzio, da Venezia all’Arte, «Archivio d’Annunzio», 2014, 1, pp. 83-93.
Pietro Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1978.
Ermanno Circeo, “Il Fuoco”, il romanzo veneziano di D’Annunzio, «Critica letteraria», 1988, 60, pp. 485-491. Poi in D’Annunzio. Tra le più moderne vicende, Milano, Bruno Mondadori, 2017, pp. 131-142.
Angelo Conti, La beata riva. Trattato dell’oblìo, a cura di Pietro Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000.
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Gabriele d’Annunzio, Altri taccuini, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1976.
Gabriele d’Annunzio, Laudi per Eleonora, a cura di Pietro Gibellini, Alpignano, Tallone, 1986.
Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, Milano, Garzanti, 1999.
Gabriele d’Annunzio, Interviste a d’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Rocco Carabba, 2004.
Gabriele d’Annunzio, Georges Hérelle, Carteggio (1891-1931), a cura di Mario Cimini, Lanciano, Rocco Carabba, 2004.
Gabriele d’Annunzio, Tragedie, sogni, misteri, a cura di Annamaria Andreoli, Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2013.
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