Gesù
di Angelo Piero Cappello, Enciclopedia dannunziana
La figura di Gesù – come anche quella, parallelamente amata e studiata, di San Francesco – attraversa l’intero ‘percorso’ dannunziano di ricerca e scrittura dai primi, cauti, accostamenti secondo le categorie del ‘mito’ e del ‘primitivo’, attraverso il pieno riconoscimento del tema religioso nell’arte, fino all’incontro diretto – sia pure condotto nei modi e secondo le prospettive, non lo si dimentichi, del suo ateismo di fondo – con la figura del Cristo nel Vangelo secondo l’avversario (1924), per giungere all’identificazione e alla problematizzazione della metafora della passione, morte e resurrezione (Via crucis, via necis, via nubis è il titolo della prima parte del suo ultimo Libro segreto del 1935) quale possibilità di ogni artista di identificare il proprio Golgota con la propria arte e di ascendervi con l’aspirazione a eternarsi attraverso la produzione dell’opera che rimane oltre le spoglie umane.
Per questo motivo non dovrebbe apparire poi così strano, se non addirittura paradossale, che uno scrittore come Gabriele d’Annunzio, i cui libri sono perfino finiti nell’Index librorum prohibitorum della chiesa cattolica già nel 1911, dove sono rimasti fino al 1948, abbia dedicato una particolare, insistita, puntigliosa attenzione alla figura di Gesù.
E l’insieme di scritti, appunti, taccuini, parabole e testi specificamente dedicati a Gesù, che nel loro insieme coprono un arco di scrittura, come si è detto, che va dagli esordi giornalistici al Libro delle Vergini del 1884 e su fino al Libro segreto del 1935, costituiscono senza dubbio capitoli assai interessanti di una complessiva e virtuale, mai compiuta, raccolta di ‘Studi su Gesù’ durata oltre un cinquantennio: capitoli o momenti di studio, peraltro, resi evidenti dalla numerosissima presenza di testi sacri diversi per epoca, lingua e tipologia, anche recanti marcati segni di lettura, nella biblioteca del Vittoriale.
Si precisi subito, però, e senza equivoci: d’Annunzio non è mai stato uno scrittore ‘religioso’ né ha mai mostrato interesse alcuno per la religione in sé e per le sue tradizioni, e men che meno ha mai mostrato alcun segno di adesione fideistica o sottomissione a credi e dogmi di religiosa provenienza; andrebbe detto piuttosto che già dagli anni della precoce adolescenza liceale, egli dimostra un’inclinazione inequivoca che così viene identificata dall’istitutore Romualdo Del Rosso, al Collegio Cicognini di Prato:
Come dissi, è incredulo molto e suscettibilissimo alla nuove massime, all’anarchia. Epperò, quando qualcuno parla di cose religiose, di Dio, Ei dà in escandescenze, e dice delle grosse eresie. Dice che non vorrebbe ammettere questo Ente supremo, e si duole di doverci credere; […] Studia molto e profitta assai […] L’unico difetto ch’ei mostri apertamente è d’essere ateo.
L’ateismo infantile, poi, evolve in una sorta di anarcoide insofferenza per regole e costrizioni, verso fronti di più aperto e consapevole libertarismo che gli permetteranno non solo di entrare in piena rotta di collisione con le gerarchie della Chiesa, ma perfino di suggerire a Mussolini una nuova marcia su Roma per la conquista del Vaticano.
A fronte di tutto ciò, è tuttavia innegabile una particolare attenzione da lui rivolta verso i temi sacri e specialmente verso figure specifiche della storia del cristianesimo, figure ‘umane’ e ‘divine’ al contempo, quali sono stati Gesù di Nazareth e Francesco d’Assisi, uomini che hanno saputo indovinare in sé stessi, nel profondo inintelligibile della propria interiorità, il punto di contatto con l’infinito e con la deità che in ognuno di noi si nasconde. Di più, l’interesse vero e profondo di d’Annunzio verso il Cristo e il cristianesimo non è tanto legato alla figura e alla storia del figlio di Dio incarnato, o meglio non lo è in maniera univoca e, come si vedrà, uniforme, quanto piuttosto è intimamente connesso alle ipotesi e alle ‘zone sperimentali’ di scrittura che la figura di Gesù apre: e sono queste le ipotesi che corrono, sotterranee, lungo tutto l’arco dell’attività letteraria di Gabriele d’Annunzio quali ipotesi inespresse e potenziali che non riescono a trovare un veloce approdo espressivo definitivo, almeno fino agli anni dell’esilio in Francia. D’altra parte, una ‘curiosità’ verso il semantema del ‘religioso’ d’Annunzio non l’ha mai negata. E se perfino il cronista mondano della Roma umbertina non sapeva rinunciare a esplorare, sia pure solo superficialmente, la zona del ‘religioso’ per verificarne i primi, provvisori, esiti di scrittura attraverso l’ironia e l’allusione, certo però non poteva, all’altezza del 1886, individuare tecniche e modalità di scrittura per affrontare, con esito sicuro, una materia tanto seria. Per la verità, ai temi del cristianesimo popolare, liturgico, dogmatico e fanatico specie nei confronti della figura di Gesù, d’Annunzio si era già affacciato qualche anno prima, con il Libro delle Vergini del 1884 che, in parte, aveva fatto confluire nel successivo volume delle Novelle della Pescara del 1902, dove la protagonista vergine Orsola vive la propria realtà esistenziale solo ed unicamente mediata dal rapporto che la religione di Cristo le offre:
Ella s’inabissava poi come in un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l’odor grave dei fiori e gli aliti di quell’uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di piacere…
dove è evidente che l’inadeguatezza o immaturità della scrittura non riescono a risolvere a pieno il tema affrontato. L’autore si limita qui ad ibridare, provocatoriamente, il misticismo della vergine Orsola con il tema della sessualità primitiva quale istinto di base che, confusamente, contiene in sé ansie mistiche e di preghiera.
È, invece, di qualche anno posteriore un ripensamento, più organico e certamente più maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, che induce d’Annunzio a rivelare a un giornalista:
Vedrà apparire tra pochi giorni un altro studio: uno studio su l’infanzia e su l’adolescenza di Gesù: un frammento del Quinto Evangelio altra volta promesso. Ritrarrò l’immagine del Cristo in quel periodo oscuro che va dalla disputa con i dottori alle prime predicazioni: periodo intorno al quale così poco si sa.
Appare evidente l’opposizione di questo progetto di Studio su l’infanzia e su l’adolescenza Gesù di d’Annunzio alla Vita di Gesù di Renan (Vie de Jésus, 1863) e, d’altra parte, non era tanto lontano da essere stato dimenticato il progetto dannunziano di una vera e propria Vita di Gesù, confidato al suo editore in una lettera del 7 marzo 1893:
Accennavo ieri anche a una Vita di Gesù che medito e preparo, e alla quale mi darò con ardore nell’estate prossima perché il libro sia pronto nell’autunno.
Nella vita del Galileo c’è una meravigliosa materia d’arte. Come mai nessun artefice della parola ha pensato che si potrebbe, fuor d’ogni critica e d’ogni esegesi, scrivere una vita di Gesù secondo la leggenda e la tradizione ma ornandola con tutte le bellezze d’uno stile possente?
Io vorrei scrivere la vita del Cristo con lo stesso metodo con cui scrivo i miei romanzi: – cercare di rendere quella figura quanto più viva mi fosse possibile.
Il confronto fra i due scrittori, d’Annunzio e Renan, certo non poteva avvenire su di una semplice ‘biografia’: d’Annunzio, lo dice apertamente, ha bisogno di scrivere quel testo a suo modo, ha bisogno di raccogliere e approntare materiali da disporre, poi, secondo architetture narrative libere e senza vincoli «di favola», di approfondire e narrare quelle zone di mistero della vita del Nazareno che altri non aveva voluto o saputo raccontare, mettendo sul tavolo da lavoro non solo un tema da trattare ma la necessaria attrezzatura stilistico-espressiva per trattare quella materia: «fuor d’ogni critica e fuor d’ogni esegesi», ma servendosi di uno «stile possente».
A conferma di quanto dichiarato dallo stesso autore, frugando nel retrobottega della scrittura, fra taccuini e appunti, si scopre che in più occasioni, in quegli stessi anni, d’Annunzio scrive note private sulla figura di Gesù, tratteggia alcuni abbozzi, scrive e pubblica alcune Parabole avviando, così, quella fase di ‘sperimentazione’ di una zona della scrittura che, nei primi decenni del ’900, lo porterà ad esplorare l’ombra, a timidamente tentare le prime prove di una scrittura esoterica, del mistero, del notturno, dell’ombra e di quanto inespresso vi è ancora nel mistero della vita e della morte. L’insieme di tutti questi abbozzi, appunti, disegni, taccuini, parabole, insomma l’intero volume di tentativi di individuare, insieme, temi e modalità per affrontare un racconto su Gesù, si può davvero configurare come un’unica attività di ‘studi’ sull’argomento. Ma proprio per l’ampiezza cronologica lungo la quale questi studi si compiono, risulta difficile immaginarne anche un’unica compattezza e una interna totale coerenza. Piuttosto, senza negare ripensamenti, sovrapposizioni e contraddizioni interne, per comodità di esposizione si potrebbe suddividere quell’arco di tempo che coincide con tutta l’opera di scrittura di d’Annunzio almeno in tre momenti che coincidono con altrettanti stimoli e risultati di una interna ricerca di studio: un primo momento in cui gli stimoli di scrittura e i suoi esiti si configurano come processo meramente ‘estetico’ della figura di Gesù; un secondo momento caratterizzato da un approccio fondamentalmente ‘etico’ e un terzo ed ultimo momento in cui la figura del Cristo assume un carattere fondamentalmente ‘profetico’.
Il Cristo ‘estetico’ (1884-1910)
Si diceva che, fin dagli esordi giornalistici, e con maggiore evidenza nel novelliere, il ‘religioso’ compare come tema di scrittura con relativa insistenza: un’analisi poco più attenta di questi luoghi tematici rivela un doppio registro su cui d’Annunzio sviluppa l’argomento del sacro e del divino, spesso connessi alla figura del Cristo. Da una parte, egli affronta quel complesso ‘culturale’ del misticismo popolare e dogmatico, dove l’ansia fideistica quasi coincide con una sorta di popolare e cieca superstizione che include momenti di ritualità corale (pellegrinaggi, fenomeni di adorazione di massa, momenti propriamente ecclesiastici); dall’altra, la prospettiva mistica non trova altra soluzione che quella di esiti panici e panteistici, di clamorosa e solare identità fra uomo e natura, di fusione e confusione metamorfica tra l’elemento umano della natura e gli elementi animale, vegetale, minerale. Nel segno del primo registro viene agevole collocare quelle zone di scrittura che dal primo d’Annunzio novelliere degli Idolatri (1892) sembrano giungere inalterate, o quasi, fin dentro ad opere come Il trionfo della morte (1894) o la Figlia di Jorio (1904); al secondo, invece, si ricondurrebbero pagine che, dal Libro delle Vergini (1884) arrivano fino alla poesia delle Laudi e di Alcyone (1903) in particolare. In entrambi i casi, però, va notato che d’Annunzio, in questo senso e fino a quelle date, sembra affrontare la materia quasi dall’«esterno», non solo osservando e studiando la fenomenologia del credente e della fede quasi senza sentirsene toccato ma addirittura rispondendo a stimoli di tipo ‘estetico’. Si prenda, ad esempio, il caso della Figlia di Jorio: il testo riguardante l’ancestrale condizione mistico-mitica della religiosità popolare intende non eludere – anzi, esplicitamente richiama – il rapporto con la tela michettiana, così come, nel Trionfo della morte, le pagine sul pellegrinaggio di Casalbordino non sono affatto estranee al fanatismo religioso ritratto nel celebre quadro michettiano Il voto del 1883, già oggetto, peraltro, delle ‘attenzioni’ dannunziane in un testo pubblicato sul «Fanfulla della domenica» il 14 gennaio 1883.
Anche quando si volesse stringere il fuoco intorno alla sola figura di Gesù – escludendo altre figure religiose, come qui è necessario fare –, scritti come le tre Parabole, pubblicate tra il 1897 e il 1898, per non dire di Gesù deposto o Gesù resuscitato (1907), appaiono ancora debitori di sollecitazioni di tipo estetico.
Le Parabole dannunziane, che verranno poi proposte dal loro autore in un contesto completamente diverso e in date successive a quelle della prima stesura, talvolta perfino falsificandone le date, per quanto collocabili ai limiti della blasfemia e comunque intese ad operare un capovolgimento provocatorio degli esiti delle parabole evangeliche (con finali che ora premiano le vergini fatue, ora puniscono ulteriormente il povero Lazzaro, ora esaltano le passioni del figliol prodigo), certo non appaiono intimamente legate a necessità etiche quanto piuttosto interpretano e risolvono, ancora una volta, sul piano estetico la struttura narrativa dei testi. È lo stesso d’Annunzio, a posteriori, ad ammettere nel Venturiero senza ventura del 1924 che
ogni sua parabola mi vien fatto di prenderla spirante nella mia mano come un vaso d’argilla appena staccato dalla ruota e messo a seccare sopra la tavoletta. Rimpasto l’argilla arditamente, e la restituisco alla ruota, e la rilavoro con la più nobile arte sàmia, infondendole il ritmo col piede che sul perno sa la musica.
È la lavorazione, la riscrittura estetica che interessa d’Annunzio al momento, e non altro.
Ancor più evidente, poi, la suggestione estetica nel caso degli scritti Gesù e il risuscitato e Gesù deposto. Lì, l’operazione diviene ancora più evidente se cartoni preparatori del testo si considerano in maniera incrociata e sovrapposta le letture evangeliche di San Giovanni, di Luca e Matteo, dei testi apocrifi copti, ma anche dei Taccuini XLVI del 1903-1905 e LI del 1907. A scorrere i Taccuini, per la verità, balza evidente che l’occasione di riflessione sulla figura di Gesù è sempre offerta da suggestioni artistiche, e la perizia di d’Annunzio attento ‘descrittore’ s’appunta evidentemente sul piano estetico: a Bologna, nella chiesa di Santa Maria della Vita, il «gruppo del Cristo morto» di Nicolò Dell’Arca viene descritto nei particolari come «Un’agitazione di dolore nell’ombra». E quando affronterà la scrittura del Resuscitato e del Deposto l’appunto dei Taccuini sarà ineludibile.
Il Cristo ‘etico’ (1910-1916)
Quando, invece, in Francia presso Arcachon, d’Annunzio si troverà a commemorare la morte dell’amico Giovanni Pascoli (insieme a quella dell’altro amico francese, Adolphe Bermond, proprietario di quello chalet Saint Dominique presso cui d’Annunzio soggiornava), ne nascerà un epicedio di singolare fattura: La contemplazione della morte. Sarà quell’epicedio l’avvio di una nuova stagione di scrittura dal tratto ‘sperimentale’ sul crinale dell’ombra e del mistero, sulle sfumature di significato tra umano e divino, sui nessi di contiguità tra ciò che è proiezione del nostro buio interiore e la parola quale lanterna che illumina e rende chiaro quel che, pochi istanti prima di affiorare alla coscienza sotto forma verbale, apparteneva all’«incognito indistinto» che è dentro e oltre l’uomo. In questo senso, allora, la Contemplazione della morte, nel 1912, rappresenta proprio un punto esatto di evoluzione, di ‘risveglio’ da una rappresentazione “estetica” – quale era stata prevalentemente fino a quel momento – della religione e del Cristo, a una dimensione che potremmo chiamare, per semplice comodità di definizione, di risveglio ‘etico’. Un risveglio, aggiungerei, che non necessariamente significa correzione e ravvedimento, e ancor meno ‘conversione’, quanto piuttosto indica una nuova dimensione da accogliere nella scrittura. Ne sembra consapevole lo stesso d’Annunzio quando, proprio nella Contemplazione, afferma: «è necessario che io faccia luogo in me a ciò che sorgerà da quel risveglio». Da ora in poi, come dire, la dimensione religiosa e delle figure della religione, nella scrittura dannunziana, avranno una maggiore consistenza e una più profonda e autentica tensione etica e sembreranno piuttosto – anche quando blasfeme o completamente reinventate – sorgere da una interiore esigenza di illuminare zone oscure della coscienza e, quindi, della scrittura. Così apparirà, ad esempio, l’accenno al Vangelo nella medesima Contemplazione:
Non vi fu, di là dal torrente di Chedron, nell’Orto degli Ulivi, un apostolo ignoto che si unì agli Undici per ricompire il numero, e non dormì né la prima né la seconda né la terza volta? Tra tutte le persone della tragedia di Cristo due m’attrassero sempre più d’ogni altra, le più misteriose: Lazaro di Betania tornato del buio e il giovine dalla sindone. Non avete mai pensato chi potesse mai essere quel giovine «amictus sindone super nudo», del quale parla il Vangelo di Marco? «E tutti, lasciatolo, se ne andarono. E un certo giovine lo seguitava, involto d’un panno lino sopra la carne ignuda, e i fanti lo presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo». Chi era quel tredicesimo apostolo, che aveva preso il luogo di Giuda nell’ora dello spavento e della grande angoscia? Solo egli vide il sudore cadere a terra «simile a grumoli di sangue».
Era minore di Giovanni figlio di Salome. Era vestito d’un vestimento leggero. Si fuggì ignudo «reiecta sindone, nudus profugit ab eis». Nulla più si seppe di lui nel mondo. Forse un giorno dirò una imaginazione che di lui mi giunse.
In tali erramenti divagava il mio spirito, per una specie di dormiveglia intimo ove le imagini più rilevate si avvicendavano con ombre fluttuanti e il ritmo precedeva i pensieri, come quando il sonatore cieco improvvisa su l’organo. E la perplessità si avvicendava con la paura. E smisurate masse d’anima erano smosse da taluna interrogazione appena distinta, come quando la forza d’un tema entra nella sinfonia. «Che avverrà di me se io mi rendo interamente al vostro Salvatore?»
La curiosità, indotta dai colloqui con l’amico credente Adolphe Bermond, sembra incidere un punto di svolta nella scrittura di d’Annunzio sul tema del religioso: ora, al contrario che in precedenza, la materia non viene più contemplata da una distanza estranea, studiata a freddo da una lontananza emotiva irriducibile e da una sostanziale estraneità etica. L’incognita del volto di Gesù, avvicinandosi attraverso il volto di Bermond, diviene un interrogativo ineludibile, un ‘indistinto etico’ non più rinviabile, una sorta di nodo che è, sì, esistenziale, ma è anche nodo di scrittura, da sciogliere definitivamente nell’ambito di quegli “interni colloquii” cui d’Annunzio è solito affidare la preparazione delle sue opere.
Mai Gesù mi fu più vicino, e mai n’ebbi un senso tanto tragico. In un libro disegnato or è quindici anni, sacro e sacrilego, io imaginavo che il «bellissimo nemico» discendendo dal Gòlgota dopo il supplizio entrasse nella casa della Veronica e quivi s’intrattenesse con la pia donna a parlare misteriosamente del Re crocifisso mentre nell’ombra la Faccia divina e dolorosa splendeva di sudore e di sangue nel sudario spiegato. Dal giorno del vostro pianto, agli interni miei colloquii col mio nascosto nemico assiste nell’ombra il sudario della Veronica. Ora sento continua sopra il mondo la presenza del sacrifizio di Cristo; e sento per ciò in confuso la mia voce e le mie azioni diversamente ripercuotersi, come quando taluno con gli occhi bendati entra sotto una ignota cupola sonora.
Di lì a qualche anno, l’improvvisa irruzione della guerra nella vita e nell’opera di d’Annunzio contribuì alla definitiva evoluzione del tema del religioso e delle figure della religione verso esiti ancora più intensi e intimamente sentiti. La figura del Cristo, fino ad allora vissuta e studiata prima sotto la specie dell’arte, poi sotto l’aspetto e con l’impegno di un più diretto coinvolgimento etico, con la guerra e la morte vista direttamente nelle trincee e nei campi di battaglia, diviene elemento ‘profetico’, metafora più consapevolmente dolorosa del mistero della vita e della morte. Basterebbe scorrere i Taccuini relativi agli anni della guerra e verificare gli scritti a tema cristiano di quegli anni per accorgersi che i toni e le tinte sono, ora, cambiati: più cupo è il colore delle descrizioni, più scuro il loro significato quasi sempre legato a Gesù come metafora della morte sul Carso, più ‘notturno’ il senso della vita vissuta nel segno della ‘passione’, del dolore, della fine.
Il Cristo ‘profetico’ (1916-1938)
D’Annunzio è Gesù: con questa affermazione ai limiti del blasfemo, si rende bene, icasticamente, l’idea che lo stesso d’Annunzio sembra inseguire nei suoi testi sul Cristo, posteriori al 1916. Un’identificazione che è quasi una illuminante scoperta: ognuno di noi ha in sé il suo proprio Gesù, ognuno di noi accede al mistero di Cristo attraverso le profondità del proprio io, attraverso una irrinunciabile e impietosa scoperta di sé. Una scoperta che, se portata ai limiti estremi, lascia affiorare quel frammento luminoso di divinità che ci è stato dato in dono e che ci rende uomini a immagine e somiglianza di Dio il quale si scopre solo se lo si lascia «grandeggiare» in noi: «Non lo vedrò grandeggiare – aveva quasi profeticamente scritto nel Vangelo secondo l’Avversario – se non lascerò grandeggiare il mio stesso dèmone».
Quando la scrittura dannunziana giungerà ad accogliere in sé il tema della morte – non più declinato da lontananze contemplative ma dalle dolorosissime vicinanze che ha imposto la guerra –, come è nel caso del Notturno del 1921, allora la religione, le sue figure e le sue figurazioni saranno destinate a cambiare ancora una volta di segno: non più sarà il Cristo contemplato estetica sollecitazione dell’artista né etica esigenza dello scrittore; ma diventerà profetica indicazione di una ineludibile imminenza, quasi promessa di compimento del fato. La morte con cui si apre immediatamente il testo del Notturno è quella, accennata per metafora, dello stesso scrittore:
Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell’azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d’un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d’ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti.
Se la morte è dunque profezia di Cristo, promessa che, come in Cristo, si realizza, la via del Golgota rappresenta allora un percorso per ognuno obbligato: ma d’Annunzio, quando non è ‘tentato di morire’, è sempre ‘tentato di vivere’ in eterno attraverso la propria arte, attraverso la scrittura. Scrivere nei cartigli tenuti tra pollice ed indice, come vuole la parziale finzione narrata col Notturno, è, per lui immaginifico ‘scriba’, l’unico modo per sconfiggere la cecità, la malattia, l’immobilità e, vedremo, la morte.
Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell’officio mio.
Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov’è dipinta all’esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l’orrore della vita?
Ecco la scrittura, l’arte, che tende coi «grandi e limpidi occhi [dell’artista] verso la bellezza», assicura la sconfitta della morte, garantisce sulla possibilità di sopravvivere ad essa sconfiggendo la temporaneità cui siamo condannati dal corpo. Come a Cristo venne assegnata la Croce, strumento di sopravvivenza eterna per l’anima attraverso la morte del corpo, così a d’Annunzio, scriba, vengono consegnati gli «strumenti dell’officio» che gli consentiranno di sconfiggere la morte. Se ne ricorderà, di questo, d’Annunzio nel 1935: via crucis, via necis, via nubis (passione, morte e resurrezione) s’intitola la prima parte del Libro segreto, al quale sono affidate le confessioni delle battaglie interiori dell’ultimo d’Annunzio, il più sofferto e il più profetico dei suoi tanti volumi, scritti lui «tentato di morire». Ma di quella dolorosa battaglia interiore ne era già stato facile profeta l’autore del Libro ascetico della giovane Italia il quale, assimilandosi al Cristo prima della morte, rivelava di sé stesso tormentato abitatore del Vittoriale: «nessuno saprà qual muta battaglia abbia chiuso in sé questo luogo di pace, e quanto sia crudele in questo luogo di pace non aver pace mai».
Insomma, gli anni della solitudine e della reclusione al Vittoriale, gli anni della spasmodica ricerca di una soluzione di scrittura in grado di ‘eternarlo’, rappresentano la via del Golgota, l’ascesa all’ultimo monte che gli si offre per la sua personale resurrezione dopo la morte che sente imminente. E se è vero che d’Annunzio aveva già intuito questa sua possibilità di artista di accedere alla ‘vita universa’ attraverso la sua arte fin dall’inizio, v’è da ammettere che negli anni del Vittoriale, prima di morire, tale intuizione diviene matura e consapevole profezia da rivedere e rileggere confrontandosi direttamente con la materia più alta, mettendo a diretto contatto la sua natura e la sua scrittura di artista, nel Secondo amante di Lucrezia Buti nel 1924, con la natura segreta e con la scrittura segreta di Chi ci trascende:
Quel che m’importa è cogliere in me un qualche mistero umano o un qualche accordo insolito fra la mia forma mentale e la forma universa, per esprimerlo incomparabilmente e inimitabilmente pur nei limiti prescritti dal linguaggio a me sortito. Quel che m’importa è profondarmi fuor d’ogni artifizio a ritrovare la sostanza della poesia, a ritrovare la midolla dell’Albero vitale, la midolla di quel Frassino eternale che in un mito attorto all’asse della terra è l’emblema della eccelsa e ampia e ramosa creazione lirica. Quel che m’importa è dimostrare a me medesimo e agli iniziati come la bellezza lirica sia non soltanto la legge interiore della Terra ma la sua operazione assidua, non meno eccellente di quella attribuita dai teologi alla Grazia celeste; che si palesa per lo spiraglio di taluna apparenza perfetta o di taluna imagine mentale, dall’imo al sommo e dal sommo all’imo, cosicché – per esempio – quel bel fiore e questo mio bel pensiero mi sono come due aditi socchiusi ond’essi a me vennero e per ove saprò io discender alle origini loro, considerando tali aditi in significato di “parte più riposta del tempio non penetrabile, secondo i riti del gentilesimo, se non dai sacerdoti”.
E sono questi concetti che d’Annunzio tornerà a ribadire quasi per confermare a sé e agli altri quale fosse la sostanza vera della sua scrittura, quel sacrificio continuo che gli permetteva, a lui laico e ‘mistico senza dio’, di ascendere alle altezze spirituali e misteriose che erano già state di Gesù. Nel Libro segreto, scritto appunto, ‘tentato di morire’, avrebbe ribadito più esplicitamente il concetto:
Un maestro de’ maestri, ocularius medicus, mi aveva ammonito: ‘se volete dar pace alla vostra vista e alla vostra visione vi bisogna consentire che l’occhio leso, materialmente per volontà vostra conservato nell’orbita con
grave pericolo dell’altro, vi sia estratto. è ormai cieco senza speranza ma di una cecità che vive al di là della retina: di una cecità che vive della vostra più profonda vita cerebrale esprimendola con segni di continuo variati, interpretandola con figure luminose di origine a voi medesimo ignota, registrandola con non so che scrittura geroglifica inspirata da un mistero ove si addensano e si dissolvono tutti i vostri misteri e quelli de’ vostri maggiori
e quelli della vostra discendenza. un altro uomo, assistendo a un tale travaglio direi quasi cosmogonico, impazzirebbe. voi siete sempre più avido di questi spettacoli appariti a voi solo. so che non siete credente ma — come nel ‘Trionfo della Morte’ — mistico senza dio. bene compresi il vostro pensiero — simbolo o enimma — quando mi scriveste che nelle formazioni e trasformazioni luminose del vostro occhio voi vivete la vostra vita futura’.
Nell’occhio luminoso, se pure non vedente, si agitavano quelle immagini, metamorfosi, fantasie, parole, figure che si sarebbero tradotte in scrittura attraverso il travaglio doloroso della produzione dell’opera. Come Gesù – umano e divino al contempo – aveva affrontato il suo doloroso percorso ascetico verso l’eternità dell’anima e oltre i limiti della provvisoria carnalità, così Gabriele d’Annunzio ebbe a dover affrontare il suo doloroso monte degli ulivi con la sua scrittura, anch’essa percorso ascetico verso l’immortalità dell’anima, oltre i limiti della sua (e nostra) caducità corporea.
Un lampo profetico nella scrittura di qualche anno prima gli aveva già consentito di cogliere da una parte la promessa di morte che Cristo con il suo sacrificio ci ha consegnato; dall’altra, la profezia della Resurrezione per chi avrà saputo vivere con passione e combattere per non morire:
Il ritmo della Resurrezione sollevava la terra. Io non sentivo più i miei ginocchi, né occupavo il mio luogo angusto con la mia persona; ma ero una forza ascendente e molteplice, una sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura. Cose ignote, esseri ignoti erano per nascere al suono della mia prossima voce. Non v’era più ombra né paura di morte in me; né pur v’era desiderio o speranza di pace. « Non voglio la pace. Voglio morire nella passione e nel combattimento. E voglio che la mia morte sia la mia più bella vittoria.
Bibliografia essenziale
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Gabriele d’Annunzio, Le faville del maglio. Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile [1896-1907], in Prose di ricerca I, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, note di Angelo Piero Cappello, Milano Mondadori, 2004.
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