di Antonio Zollino, Enciclopedia dannunziana
Il rapporto fra Gadda e d’Annunzio si pone anzitutto sul piano storico e biografico, potendo registrare una precoce e inequivocabile espressione nella lettera che l’autore lombardo, unitamente a due colleghi liceali, invia a d’Annunzio il 21 maggio 1915, dunque quasi alla vigilia della dichiarazione ufficiale di guerra, nella speranza di ricevere una dispensa dagli obblighi di studio che consentisse loro di raggiungere immediatamente il fronte: qui d’Annunzio viene chiamato in causa «in un’ora angosciosa della vita» come «colui che ha instituito ed accresciuto nel nostro spirito la coscienza della vita nazionale» e «che ha raccolto e affinato nella Sua tutte le nobili voci, tutti i voti più puri e più fervidi della nazione»: a lui i tre ragazzi chiedono conforto e aiuto per aggirare una «prescrizione ministeriale» intesa a trattenerli agli studi durante il mese di giugno che vedrà l’inizio fervoroso della lotta: ora, è impossibile – proseguono i tre nella lettera – che la nostra anima possa venire costretta dagli interessi non generosi d’un bilancio di convenienze future, mentre altri ha posto d’onore e di gloria nella linea di combattimento.
Il giovane Gadda aveva dunque condiviso senza riserve l’interventismo del Vate nazionale, come confermano peraltro diverse attestazioni rinvenibili in opere come Il castello di Udine e La meccanica. In quest’ultima, l’atmosfera di quella stagione cruciale viene così rievocata:
Gli studenti a Milano ed altrove, avevano gridato ‘Morte a Giolitti!’, ‘Viva la guerra!’, ‘Viva D’Annunzio!’, e noi stessi non lesinammo la voce de’ polmonacci nostri di allora, in sì fortunata concomitanza d’eventi.
Ovviamente, la predilezione per d’Annunzio non si limitò al personaggio pubblico, come attesta qualche scia più che altro lessicale rinvenibile nelle poesie giovanili di Gadda: è lo stesso autore a notare che già nel suo primissimo testo poetico, Poi che sfuggendo ai tepidi tramonti, un lessema come «pomario» era «parola, allora dannunziana: (Carducci e molto D’Annunzio a memoria)»; ma si potrebbe anche notare, al v. 3 dello stesso componimento, lo stilema dei «pascoli de’ monti» che pare tolto di peso dai celebri Pastori alcionii.
Molto probabile, poi, che il favore accordato a d’Annunzio fosse condiviso col fratello Enrico, dal momento che nella collezione dei libri di Carlo Emilio tutt’ora conservata al Burcardo di Roma si trovano almeno due volumi con nota di possesso autografa di Enrico, Il piacere e i Canti della guerra latina di Merope: fatto questo, considerata la tragica fine dello stretto congiunto, che potrebbe aver dato la stura a diverse criptiche parodie a carattere più o meno aviatorio di brani del Notturno del Forse che sì forse che no reperibili fra le righe della Cognizione del dolore.
La perdita, in occasione della cattura nella rotta di Caporetto, dei «cari libri», ovvero dei testi dannunziani e carducciani e di quelli a carattere scientifico, viene mestamente denunciata nel Giornale di guerra e prigionia: con Gadda, finiscono infatti in mano agli austriaci
2 vol. di Fisica del Murani
2 di Calcolo del Todhunter
3 Laudi del D’Annunzio
1 Prose del Carducci.
E poco dopo, nel Natale del 1917, il prigioniero Gadda annotava ancora sul suo Diario:
Anche pensai oggi ai miei cari libri: lasciai in mano dei tedeschi le tre Laudi del D’Annunzio, le prose del Carducci (il testo mio durante il liceo, regalatomi da mia madre), i due Todhunter, i due Murani.
Le cocenti delusioni conseguenti alla partecipazione e all’esito stesso della guerra, unitamente al pesante lutto per la perdita del fratello Enrico non sembrano tuttavia, almeno sul momento, scalfire più di tanto l’ammirazione per il Vate: nei testi gaddiani collocabili fra gli anni Venti e gran parte dei Trenta i pareri sull’opera e sulla complessiva figura di d’Annunzio appaiono connotati da un sincero apprezzamento, pur a fronte di caute riserve, come attestato nelle Annotazioni per il secondo libro della Poetica:
Il D’Annunzio acre e marchionale del Piacere – del Laus Vitae – che in epoca di piena democrazia (1890) dipinge il verdiccio pelo del bertone – del gran demagogo – il D’Annunzio ha un senso, una vendetta, uno sprezzo, un’anima sia pure superficiale ma certa e nitida e ferma. È un meraviglioso riferimento espressivo.
Altresì, in una «nota compositiva» del Racconto italiano (dove peraltro il Trionfo della morte viene chiamato in causa per risolvere una questione narrativa relativa all’assassinio di un personaggio femminile) Gadda riconsidera il personaggio d’Annunzio in una delle sue opinabili manifestazioni, quale esempio di rischio da evitare nella stesura del proprio testo. Anche in questo caso, tuttavia, il giudizio è espresso in termini coloriti ma abbastanza misurati:
Occorre però che l’indegnità morale non voglia travestirsi come se fosse dignità. Ché allora, a meno di un gioco complessissimo e che per ora non vogliamo analizzare, si ha il fiasco, si ha il riscaldamento a freddo. Così come quando il vecchio porcone D’Annunzio si traveste da San Francesco. – Ma la personalità del D’Annunzio è più complessa di quanto non paia e forse più ingenua e perciò più nobile di quel che non paia. E allora bisogna andar cauti nei giudizî.
In un dialogo con se stesso della Meditazione milanese si commenta poi un celebre e scabroso passo dannunziano, discutendo appunto il proprio eventuale «d’Annunzianesimo»:
Il critico: «In complesso gabellate come vostra filosofia del Nietzschanesimo e del D’Annunzianesimo rancido. Ricordate il primo verso del libro di «Maia»: «Gloria al latin che disse ‘Navigare è necessario, non è necessario vivere» e la inscrizione o sigla d’annunziana delle laudi, e tutto il libro dell’«Elettra» che conoscete quasi per intero a memoria. Tanto l’amore per la vita eroica è in lui vivo ch’egli osa rivolgere la sua rampogna al Figlio di Dio:
O Galileo, men vali tu che nel dantesco foco
il piloto re d’Itaca Odisseo
Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
E debile il tuo gesto. Eccita i forti
Quei che forò la gola al molle proco.»
Rispondo: «È merito certo del Poeta questo suo anelito verso la potenza e il lavoro, e la gloria e la navigazione, questo sdegno del poltrire e del permanere e del conservare per conservare. Il suo motto di altri anni più tardi è ‘per non dormire’ – e sebbene nella sua vita, come fan tutti del resto, sia stato molto indulgente verso sé stesso: e abbia, come pochi sanno, saputo ben pettinare e ravviare e ungere ancora de’ poetici balsami l’arruffata chioma delle sue diverse marachelle, giustizia gli va resa quanto allo spirito eroico. Giustizia al fante del Veliki Hrib e del Faiti Hrib.
Che le marachelle del Poeta vadano, se non proprio condonate, considerate con indulgenza, ovvero ricomprese in una visione umana e non agiografica, è anche la tesi di Grandezza e biografia, recensione in difesa di alcune scelte poco diplomatiche della biografia Vita segreta di Gabriele d’Annunzio di Tom Antongini, uscita nell’aprile 1938. Vale la pena di riportarne qualche passo, trattandosi di opinioni assai aggiornate e nient’affatto di circostanza, che denotano anzi un’invidiabile e non comune (se si guarda oltretutto all’impostazione di tanta critica successiva) consapevolezza dei corretti termini entro cui inscrivere l’approccio alla figura e all’opera di d’Annunzio:
L’aviatore del Carso, il trasvolatore di Vienna, il liberatore di Fiume, il poeta delle Laudi non mendicherà la nostra ben dosata reticenza. Perché aver tanta paura, noi, per Lui, che mai non ne ebbe? […] Era un marinaio che canta nel sole: e noi promuoviamolo a palombaro, nei fondali della ‘umanità’ e del ‘tormento’. Che non ci furono: perché se ne fregava dell’uno e dell’altra: il bello è questo […] Egli è d’Annunzio, non è Cartesio, non Pascal. E come d’Annunzio non può farsi ad essere il beneficiario della nostra bene intenzionata reticenza, idolo inane e ridipinto, tra i fumi di idolatre bugie.
Ma il 1938, anno della dipartita del Vate, segna anche un fondamentale punto di snodo nella ricezione dannunziana da parte di Gadda: quasi in perfetta contemporaneità con le prese di posizione di Grandezza e biografia, gli scritti a stampa registrano in effetti i primi segni d’insofferenza per d’Annunzio personaggio e autore, condensati nella figura pur polivoca (con tratti in effetti anche carducciani e marinettiani) di Caçoncellos che campeggia nel Primo tratto della Cognizione, pubblicato sul numero di «Letteratura» del luglio-settembre 1938. Ma già in una lettera del 6 gennaio 1937 al cugino Piero Gadda Conti il bizzoso autore lombardo esprimeva così il suo compiacimento per il saggio Vita macaronica del francese dannunziano, appena apparso su «Letteratura»: «L’articolo antidannunziano di Contini mi ha divertito e mi pare che l’Istrione ‘abbia trovato la frusta per il culo suo’: proverbio di Terni».
Dopo poco più di un decennio, l’irritazione nei confronti di d’Annunzio, e specie per ciò che riguarda il Fuoco, diverrà palese in una gustosa lettera a Contini risalente al 14 gennaio 1949:
Il mio poco entusiasmo per il labbrone dai capelli rossi [=Foscolo ] e per il buffone di Buccari e terrone di Castell’a mare raggiunge l’acme: nei momenti di disperazione, da mancanza di circolante si tramuta in accesso,
e seguono pesanti giudizi sul Fuoco, considerato quale «elenco di gesti inutili», «litania di scemenze»:
Ho riletto le ultime cento pagine del «Fuoco», in uno di questi accessi. Deh! perchè non un tuo saggio o almanco saggetto, essaietto, sulla inanità vacua di un simile elenco di gesti inutili? di inutili enunciati della fica-passa di Asolo e di più inutili del biscaretto invasato dal dio? Psicologicamente, un narcisso di terza classe che porta a spasso il pistolino ritto della sua personcina (unico personaggio in tutta l’opera: gli altri non esistono): certa sua prosa, una litania di scemenze. Nessun interesse narrativo, nessuna capacità di avvincere nemmeno la lettrice quattordicenne al racconto. Una pompa da Paflagone per far bere
un bicchier d’acqua a Stelio, per fargli mangiare pochi fichi secchi. Il nano è «il barbaro enorme». La «grande tragica» è la sorca.
Giudizi che risulteranno peraltro confermati a stampa dieci anni dopo, oscenità a parte, nell’articolo La battaglia dei topi e delle rane (1959).
Lo stesso personaggio di d’Annunzio, nella sua fattispecie vittorialesca come già il Caçoncellos della Cognizione, viene ferocemente messo alla berlina in Eros e Priapo, con l’accusa di
gabellare velleità per voluntà, e prurigine e inane sogno per opera perfetta: e berci, e trombe e ragli: e spari di cannone voto di nave Puglia da tenere addietro l’ittudesco, e lo schiavo.
Salvo poi, nel finale della stessa opera, e pur dichiarandosi tutt’altro che «idolatra [..] di Gabriele», riconoscergli, «meriti grandi o grandissimi, con fraterno o filiale e vero e commosso affetto».
A ben vedere, in effetti e a prescindere dal precoce e giovanile entusiasmo, il rapporto fra Gadda e d’Annunzio si snoda tutto intorno a questa ambivalenza. E tuttavia, in un senso o nell’altro, è dato facilmente accertabile che Gadda non si dimentichi mai di d’Annunzio, nemmeno nei momenti più alti e delicati della propria carriera d’autore: così, nella Scheda autobiografica della prima edizione del Pasticciaccio (1957), d’Annunzio offre il destro per un amaro e laconico paragone: «Visse dieci anni a Firenze: 1940-1950: gli anni belli, quand’era venuto il bello. Niente Capponcina». In Versilia (1950) il parallelismo si era fatto assai più circonstanziato:
Un pedante dalla penna incatramata non può dimenticare il sonetto versiliese del Carducci, le ‘rupi ardue di bianchi marmi’: nè l’oleandro, nè l’otre, nè il cervo, nè il centauro, nè Cinosura, nè il trotto del quadrupedante cavallo sul tappeto d’aghi del pineto, nè la pioggia per entro il medesimo del divino Gabriele: l’onda di crisopazio è d’altro lido certo, scaglioso, roccioso, inostricato, nero, ligure o làbronico lido. Qui Gabriele poetò, amò, nuotò, cavalcò. Odo, odo il trotto del suo caval sauro irrompere dai lecci e dalle querci della Versiliana – la splendida e vasta villa che lo ospitava dentro il parco principesco alla marina di Pietrasanta – tòc tòc tòc fino al traghetto del Magra, di là dal Cinquale e dal Frigido e dal Poveromo, di là da tutte le gore e da tutti i fiumiciattoli senz’acqua ne’ quali egli è riuscito a nuotare, co’ suoi ‘bicipiti’, o almeno con la fantasia: e, all’ingiù, verso la foce zanzarosa del Fiumetto, verso il Tonfano. I pini superstiti (alla lottizzazione e alla guerra) eccoli, come allora invece nel folto, scagliosi e irti: le ginestre, i mirti, i ginepri puntuati di coccole: le tamerici, non meno di allora, salmastre ed arse nel libeccio o nello spiro di maestro: maledettamente arse, quest’anno, lungo lo stradale a mare dove gli scrittori cinquantottenni vanno in bicicletta in tenuta da bebè, e in auto gli industriali e le belle. No, non il caval sauro, per noi, ma una volgare bicicletta noleggiata da Beppino, quaranta lire l’ora. Non le sessanta camere e sale della Versiliana, nè l’annesso parco vicereale di centosettanta ettari: per noi una cameruccia da forno crematorio: – il rapporto fra il nostro alloggio e quello del Poeta eguaglia il rapporto fra il nostro lavoro e il suo: giustizia è resa davanti la Tambura, e la Pania.
Al termine della rivisitazione della Versilia dannunziana, condotta attraverso stilemi di riconoscibilissima provenienza alcionia, si trova, dunque, un significativo confronto fra la condizione e l’opera dello scrivente e quelle del più fortunato Poeta; malgrado le invettive e gli improperi, malgrado tutte le incolmabili differenze d’animus, d’Annunzio rimane comunque un termine di paragone a cui riferire, nemmeno troppo scherzosamente, la propria consistenza d’uomo e di scrittore.
Divagazioni e garbuglio, pubblicato nel 1968 su «Paragone», accoglie infine quello che, con tutta probabilità, si deve considerare l’ultimo riferimento a d’Annunzio nell’opera gaddiana: si tratta del ricordo, legato a Bartolomeo Colleoni, del secondo sonetto dedicato a Bergamo in Elettra, Le città del silenzio:
A Bergamo nacque il condottiero, un vivace di nome Bartolomeo celebrato da un sonetto del poeta Gabriele nella sua nobile silloge Le città del silenzio;
parere che conferma ancora una volta la predilezione dello scrittore lombardo per «quel libro dell’‘Elettra’, che», come abbiamo visto, «conosceva quasi per intero a memoria».
A fronte delle numerose citazioni ed evocazioni, di cui si è dato qui un campione non esaustivo, i riflessi dell’opera dannunziana non mancano certo nella scrittura di Gadda, sia in termini di riscontri lessicali che nella stessa costruzione della prosa gaddiana con l’adozione di uno strumento tipicamente dannunziano quale il leit motiv, come hanno evidenziato gli studi critici sull’argomento, per il vero ancora oggi abbastanza circoscritti e comunque partiti solo pochi decenni fa, dopo la pubblicazione nel 1983 del fondamentale saggio di Giuseppe Papponetti Fallimento e congedo del superuomo nel rapporto Gadda/d’Annunzio nella «Rassegna dannunziana» e quindi l’anno dopo, con titolo leggermente modificato, in «Otto/Novecento». Eppure, era stato lo stesso Gadda, nel 1950, a dichiarare senza mezzi termini che
Il Carducci, prosatore e poeta, è stata la mia lettura per molti anni dell’adolescenza, dopo il Manzoni e prima del D’Annunzio.
I tre nomi stanno fra loro come tre schegge d’una bomba, lo so: e tuttavia le cose andarono così.
La presenza di d’Annunzio nell’opera di Gadda, in effetti, al di là di quanto si potrebbe superficialmente ritenere, è talmente concreta che può persino interessare, nelle primissime pagine del Pasticciaccio, uno scherzoso particolare della figura fisica del protagonista: si noti allora come nella descrizione del «dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan» agisca curiosamente il ricordo di Bébé Silva, una delle etère del Piacere:
Ella somigliava un collegiale senza sesso, un piccolo ermafrodito vizioso […] con i capelli corti, lanosi, un po’ ricci, che le coprivano la testa a guisa d’un caschetto d’astrakan.
E, nella conclusione del medesimo romanzo gaddiano, si potrà osservare che la celebre protesta d’innocenza della Tina: «No, sor dottó, no, no, nun so’ stata io» ricalca con indiscutibile somiglianza le ultimissime parole di una delle Novelle della Pescara, La fine di Candia, che si conclude appunto con un analogo tentativo di discolparsi in forma vernacolare: «No so’ stata io, signò… vedete… perché… la cucchiara…».
La scrittura gaddiana non ha insomma lesinato il suo tributo all’esperienza dannunziana, anche se la critica, probabilmente fuorviata da etichette «troppo rudemente collocative» (cito dal gaddiano Fatto personale… o quasi), ha troppo spesso liquidato il riferimento al Pescarese sotto la specie univoca della parodia, evidenziando al limite l’ascendenza dannunziana solo a particolari fini detrattivi come nel caso di Arnaldo Bocelli, nel 1957, sulle pagine del «Mondo», per cui:
L’amor della parola, il culto dello stile, propri alla sua generazione cresciuta fra D’Annunzio e la Ronda, sono divenuti in Gadda foia, delirio, cattivo gusto di tanto inutile parossismo.
Oppure si veda il parere di Gianni Brera (1996), che intravede in Gadda «un dannunziano salvato dal vernacolo»; per un importante critico militante come Luigi Baldacci (1983), Gadda era invece definibile quale un «dannunziano di genio»:
Come dominatore del sistema Gadda somiglia a D’Annunzio. Sono possessi congelati, da vocabolario. Non è, nemmeno quella di Gadda, una lingua attestata a un preciso livello di storicità che la faccia lingua. È tutto il serbatoio, è tutta la lingua di tutti i tempi. Ma l’ordine di questo dannunziano di genio è continuamente disturbato da uno spiritello che vuol trascinare quella sublimità nel basso e nel vile.
Un autore, Gadda, che nella Cognizione del dolore, sempre secondo Baldacci «quando parla davvero, cioè quando si libera, parla come D’Annunzio».
Come s’è detto, solo in anni recenti il complesso rapporto fra Gadda e d’Annunzio ha ricevuto parte dell’attenzione che meritava. Ma certamente, soppesata a tutt’oggi la sostanziale esiguità della bibliografia critica in rapporto alle dimensioni della questione, c’è ancora molto da lavorare.
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