di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana
3. Le novelle della Pescara: da Il libro delle vergini, San Pantaleone, I Violenti (1884- 1888)
La presenza di «plusieurs réminiscences» flaubertiane «dès 1882-1883», dall’ultima prosa di Terra vergine (cfr. Ecloga fluviale, dicembre 1882) alla vicina (1883) poesia dell’Intermezzo, attesta che in tale biennio «D’Annunzio a lu Madame Bovary, L’Éducation sentimentale et Salammbô» (Tosi 1981-a1, 70). Di lì a poco egli scoprirà anche i Trois contes (Un cœur simple, La Légende de Saint Julien l’Hospitalier, Erodiade), mettendone subito a frutto la lettura nelle Vergini, la novella eponima del Libro uscito nell’84 presso Sommaruga (Le vergini, Favola sentimentale, Nell’assenza di Lanciotto, Ad altare Dei) ed assunta, unica della raccolta, nel San Pantaleone (1886).
Nella storia della vergine Giuliana (poi Vergine Orsola) d’Annunzio traduce il portato della frequentazione di Flaubert in mimesi stilistica, con l’infoltirsi della resa ipotattica aggettivale a base astratta già accolta in Terra vergine e l’adozione d’una terminologia da «gabinetto medico» (Pancrazi 1953, 199-200), ma soprattutto ne attualizza la lezione nella struttura: con l’importazione di stringhe d’azione sì da rimpolpare la tenuta narrativa e muovere dall’impianto lirico del «bozzetto» a un racconto più ampio. Trasparente è infatti il riferimento alla vicenda di Félicité, eroina dal cœur simple, che, sottoposta a una vita di dolorose privazioni affettive, finisce per sviluppare una forma di mistica idolatria per il suo pappagallo. A prescindere dalle diversità di contenuto, tema «legato» o fondante della novella dannunziana è appunto il misticismo della protagonista, come lo è quello della malattia: febbre tifoide, nel caso di Giuliana, e polmonite fatale in quello di Félicité. Sempre in terreno flaubertiano, che però rinvia a Salammbô, si colloca il motivo della mortificazione corporale, nella pratica del digiuno e astinenza dalla carne cui Giuliana e la sorella si sottopongono (Nardi 1951, 15; Tosi 1981-a1, 70)..
Innegabile, tuttavia, è il perdurante influsso di Zola, accertabile nello stile liricamente espanso e anche in un interessante prelievo dal récit della Faute de l’abbé Mouret: salvatasi dal tifo, Giuliana riscopre gli istinti carnali repressi dall’educazione religiosa, così come era avvenuto a Serge Mouret, rinato alla sessualità dopo una malattia. Visibile è infine l’ascendenza dei Goncourt di Manette Salomon (1867), là dove Giuliana si contempla nuda allo specchio così come faceva Manette: un tassello in sé di modesta entità, non fosse per l’annuncio di quella tecnica contaminatoria a mosaico che caratterizzerà la narrazione successiva e per l’affacciarsi su falsariga goncourtiana d’una écriture en artiste destinata ad agire nel lungo periodo.
Per quanto riguarda le restanti novelle del Libro, echi zoliani ancora si colgono in Favola sentimentale; rinvia infatti al Paradou della Faute de l’abbé Mouret la descrizione zoo-antropomorfica del giardino della villa luogo dell’innamoramento di Cesare per Vinca (TN, 437), e alla pari lo scioglimento diegetico, dal momento che Galatea esala la sua «animula blandula» (TN, 449) a causa dell’amore non corrisposto per Cesare, così come Albine per l’abbandono di Serge.
Il racconto più riuscito e interessante sul piano inter e alla pari intra-testuale è Nell’assenza di Lanciotto. Steso come Ad altare dei «tra il dicembre ’83 e l’aprile ’84» (Scrivano 1980, 21), vi si anticipa quel tema del rimpianto per l’amore non vissuto e delle spinte carnali non appagate che contrassegnerà, all’insegna del maupassantiano Regret, L’idillio della vedova del San Pantaleone. Sicuramente perdurante, poi, è l’influsso transalpino negli usi della palette dannunziana, ove le ricercatezze pittoriche dei Goncourt affiancano taluni stilemi cari a Zola, come la resa impressionistica della couler de la lumière o il calco letterale delle applicazioni sinestetiche a base visivo-termica ricorrenti nella descrizione zoliana del Paradou. Così, vanno senza dubbio rapportate alla Faute de l’abbé Mouret («Le parc […] s’étendait, d’une limpidité verte, frais et profond comme une source», FAM, 77, e similmente 87, 91, 113), note descrittive quali «I grandi pini sorgevano […] nel penetrale del bosco. Tutto in torno, nell’illuminazione verde, alberi, alberi!» e «Dalla finestra […] entrava la luce limpida e rigida come un’acqua sorgiva» (TN, 463, 466; qui e di seguito corsivo nostro).
Nella successiva raccolta del San Pantaleone (Barbèra, 1886) la novella dell’84 Le vergini, divenuta con molte varianti la Vergine Orsola, comporrà un dittico con il lungo racconto degli Annali d’Anna poi (1902) confluito nelle Novelle della Pescara (NP) sotto il titolo di La vergine Anna e, fin dall’accoglimento nell’Episcopo et Cie, anch’esso sottoposto a un fitto intervento correttorio in direzione «dell’assetto definitivo del 1902» (De Marco, TN, 899; Ciani 1975, 101-124). Non poteva del resto sfuggire ai lettori coevi (Mazzoni 1886; Thovez 1896, poi 1921) la fruizione in questi Annali del flaubertiano Un cœur simple: assai più fitta ed estesa che nelle Vergini (e dunque nella Vergine Orsola), essa non solo traspare precisa dalle linee generali della fabula (due popolane, mosse da un travolgente afflato mistico, trovano nella fede e nelle sue pratiche rituali rifugio e consolazione alla loro dura esistenza), ma anche comprende dettagli descrittivi, episodi, singole scene, snodi diegetici rilevanti. Da simile complesso si ricava come, oltre che per indicazioni d’ordine formale, la materia flaubertiana venisse da d’Annunzio fruita quale falsariga alla costruzione del racconto nei suoi passaggi fondamentali. E però, in tanto coincidere, balza agli occhi la differenza d’intenzione autoriale e di tono stilistico: da parte del naturalismo di Flaubert, la denuncia in prosa scarna e asciutta dei perniciosi effetti dell’educazione religiosa su d’un soggetto femminile d’umile estrazione (come già sulla borghese Emma i guasti della cattiva letteratura); da parte di d’Annunzio, invece, una rievocazione imbevuta di color locale, che, muovendo dagli studi di antropologia abruzzese di Antonio De Nino e Gennaro Finamore (De Marco, in TN, 904-909), punta ad effetti d’intenso lirismo al modo di un epos minore e d’una «leggenda sacra» (cfr. Mazzoni 1886, in Forcella 1936, 105).
Approfitta d’una traccia di Un cœur simple, ma combinandosi con altri tasselli flaubertiani, dall’Éducation sentimentale e Madame Bovary, anche la novella Frammento, che, comparsa sul «Fanfulla della Domenica» del 22 marzo 1885, trae spunto dalla fine della relazione del poeta con la giornalista Olga Ossani. Con «la soppressione delle pagine iniziali della redazione in rivista» (De Marco, TN, 978) e con titolo Il commiato, essa verrà trasposta nel San Pantaleone; di qui, con una felice operazione intratestuale, sarà utilizzata nel Piacere: a costituire l’adieu au grand air della Muti a Sperelli (D’Annunzio, PR, I, P, 7-13), ossia l’ingegnoso presupposto analettico che sta alla base della struttura del romanzo.
Diversamente complessa è la lezione che d’Annunzio coglie dal secondo dei Trois contes flaubertiani, La Légende de Saint Julien l’Hospitalier, ponendola a frutto nel San Làimo navigatore (1884) del San Pantaleone, ma non nelle NP da cui il San Làimo resterà escluso per la sua estraneità all’ambientazione regionale della nuova silloge. Immediatamente individuata dalla critica del tempo (Conti 1886, Mazzoni 1886), tale derivazione è certo governata da esigenze di ratio strutturale con il prelievo di stringhe di narrato che, pur con molte diversità nella dispositio, si osservano restare invariate dall’infanzia alla morte dei due “santi” (Tosi 1981-a1, 72). Tuttavia, è soprattutto il valore materico del segno, prezioso, evocativo, musicale, che, in un profondo rispecchiamento agnitivo, qui s’impone a d’Annunzio, tanto da comportare un caso di «mimétisme […] hallucinant» (Tosi 1981-a1, 86; Tosi 1981-a2, 789). La Légende invero segna la scoperta d’un doppio canale percorribile nell’opera di Flaubert: non solo la costruzione d’un tracciato narrativo, ma anche, secondo la definizione cara a Gautier, il volto immaginoso di un exotisme dans le temps e alla pari dans l’espace, duplicità da fruirsi a seconda dei contesti, ora per la prosa narrativa, ora per la poesia come nella direzione estetizzante che è dell’Isotteo.
Auctor principale dei racconti del San Pantaleone è però Maupassant, la cui ascendenza, variamente palesatasi nella poesia dell’Intermezzo (Tosi 1981-a1, 60-62; 1981-a2, 771-772), traspare dalle novelle L’Idillio della vedova, La siesta, Turlendana ritorna, Turlendana ebro, La fine di Candia, La fattura, Il martirio di Giàlluca, L’eroe, tutte accolte nella ne varietur del 1902, sia pure con diversa disposizione e in alcuni casi con altro titolo rispetto alla raccolta dell’86. Riferimenti a Maupassant ancora si coglieranno nel racconto La madia, che tuttavia proviene dalla breve silloge I Violenti (1888).
Segnalate da un gran numero di lettori e studiosi, da Thovez a Lumbroso, da Croce e Maynial a Duplessy, ai successivi Lo Vecchio Musti, Culcasi-Gugenheim, Ciani e Tosi, queste derivazioni lasciano intendere che, quasi sempre ferma restando l’originalità di d’Annunzio, il debito con Maupassant sia di natura composita, cioè ascrivibile a spunti sul piano dell’inventio, a mimesi linguistica nel far corrispondere argot normanno e dialettalità abruzzese, a riprese d’ordine sintattico, ma insieme come, diversamente da quanto avviene e sempre avverrà nel rapporto con Flaubert, spunti ideativi e ragioni formali detengano un ruolo minore rispetto all’importanza della testura narrativa.
All’altezza del San Pantaleone, Maupassant era già un romanziere affermato presso il pubblico internazionale con capolavori quali Une vie (1883) e il riuscitissimo Bel-Ami (1885), sicuramente noti a d’Annunzio come attesta il vivo interesse che per essi egli avrà nelle «prose di romanzi». Tuttavia, l’attenzione dello scrittore abruzzese ora si rivolge senza esitazioni al genere del racconto breve (Maupassant 1959-1960, CN, I-II), non solo perché referente tipologico più immediato, ma soprattutto perché quel conteur d’eccezione offriva indicazioni forti sul piano della tecnica narrativa. In particolare, determinati procedimenti come il frequente impiego maupassantiano dell’analessi costituivano ragione d’indiscutibile attrait, vivacizzando il dettato e favorendo la resa del punto di vista del personaggio. Al contempo la brevitas del maestro francese, che addensava la storia in nuclei essenziali e perciò più facilmente estraibili, ben si prestava a una pratica contaminatoria a mosaico, fra prove del medesimo autore o anche di autori diversi.
È quanto si riscontra avvenire nell’Idillio della vedova (La veglia funebre delle NP), in cui l’antico trasporto amoroso fra cognati, il prete Emidio Mila e Rosa, tradottosi finalmente in amplesso durante la veglia al cadavere di Biagio Mila, si costruisce sfruttando in contemporanea i temi dell’amore non vissuto, ripreso dal Regret di Maupassant («Le Gaulois», 4 novembre 1883; in Miss Harriet, 1884), e quello dell’incontro sessuale accanto al morto ricavato da Après la bataille di Paul Alexis, felice campione delle Soirées de Médan (Alexis 1880). L’originalità di d’Annunzio si manifesta proprio sul piano della tékhne, ossia nella capacità di saldare pienamente due racconti dalla fabula affatto diversa: 1. In Alexis, la baronessa Edith de Plémoran, che reca su d’un carro il feretro del marito ucciso durante la guerra franco-prussiana, presta soccorso a un giovane prete arruolatosi come volontario; rievocato il proprio passato, i due finiscono per intrecciarsi éperdument; 2. In Maupassant, il sessantenne Paul Saval, tormentato dal ricordo del suo amore irrealizzato per Mme Sandres, moglie di un amico, si sente schiacciare dal rimpianto della felicità perduta avendo appreso che la donna, l’avesse egli chiesto, gli si sarebbe concessa. In simile intassellamento, sicuro è il rispondersi anche nel dettaglio di molti rami del récit, e però ragione d’interesse e tramite fondamentale della sutura dannunziana è stato il moto analettico presente in entrambi i modelli, un procedimento cui d’Annunzio mostrava di guardare sin da Terra vergine (Fra’ Lucerta) e dal Libro delle vergini (Nell’assenza di Lanciotto).
La nervatura del flashbackward sta alla base di un’altra rilevante assunzione: il Maupassant dell’Abandonné («Le Figaro», 15 agosto 1884; Yvette, 1885) entro la testura della Siesta, ossia Il traghettatore delle NP. Come Mme de Cadour, l’anziana baronessa Laura Albonico si pone alla ricerca del figlio avuto dall’amante, il cui ricordo l’ha tormentata colpevolmente per quarant’anni. Il ritrovamento di costui, divenuto un rozzo «traghettatore» dal nome di Luca Marino, produce nell’infelice un vero e proprio choc: scivola nel fiume, affogando in quelle acque che aveva appena solcato sulla barca del figlio e il suo cadavere verrà ripescato proprio dall’ignaro Luca. Le coincidenze con L’abandonné sono piene e numerose, tuttavia diverso è lo scioglimento del plot, perché Mme de Cadour non annega, bensì si allontana in preda a profonda amarezza alla vista di Bénédict, un volgare fermier. Il finale ad effetto di d’Annunzio sarebbe dunque ricavato da un altro conte maupassantiano: La femme de Paul della raccolta La Maison Tellier (1881), dove un giovane di buona famiglia, follemente innamorato d’una prostituta, fuori di sé per il tradimento di costei (con una donna, per di più), si getta nella Senna e muore affogato (Botta 1913, 437; Tosi 1981-a1, 64). Anche qui il racconto si chiude con il pescaggio del cadavere. Particolarità della Siesta è il complicarsi della contaminazione testuale con una costruzione a mosaico tutta interna ad un medesimo autore. Sempre in territorio maupassantiano va infatti segnalata anche la rispondenza con Sur l’Eau (in La Maison Tellier, come En canot già su «Le Bulletin français», 10 marzo 1876): conte fantastique in cui un canottiere di consumata esperienza, non riuscendo ad estrarre l’àncora, è costretto a trascorrere la notte in preda a crescente terrore («il me venait des imaginations fantastiques […] J’éprouvais un malaise horrible […] de la terreur», CN, II, La Maison Tellier, 773). L’indomani riuscirà a disincagliarsi, ma l’àncora salirà a fatica, caricata del peso «d’une vieille femme qui avait une grosse pierre au cou» (775). Il reperimento del cadavere «d’une vieille femme» è un esito macabre caro a Maupassant: presente anche nella novella Miss Harriet («Le Gaulois», 9 luglio 1883, Miss Hastings; CN, II, Miss Harriet), esso appare meglio in linea con il finale della Siesta (l’Albonico è «una donna già vecchia») che con il conte del giovane Paul (cfr. Giacon 2016, 137, 169).
Quanto alle altre novelle del San Pantaleone, la fruizione della fonte maupassantiana è diversamente complessa. Tra queste La fine di Candia e La fattura, rispettivamente modellate su La ficelle e L’âne, s’inscrivono in quel tema della beffa che piace all’autore di Farce normande, pronto a sfruttare il burlesco o il caricaturale per porre in luce i vizi d’una società chiusa e provinciale, presso la quale il pregiudizio è verità e la furbizia virtù.
La ficelle («Le Gaulois», 25 novembre 1885; CN, II, Miss Harriet) è la storia di Maître Hauchecorne, un contadino noto come «vieux» o «gros malin», ingiustamente accusato d’aver raccolto da terra un portafoglio, mentre si trattava soltanto d’un pezzo di spago. Schiacciato dalla sua stessa «finauderie de Normand», ché nessuno al paese crede al suo protestarsi innocente, finirà per morire di febbre cerebrale. In tal genere d’ispirazione, La fine di Candia è un piccolo capolavoro di mimesi, poiché, muovendo dalla coralità dialogica verghiana, d’Annunzio è riuscito a trasporre la vicenda normanna all’ambiente paesano d’Abruzzo facendo corrispondere argot maupassantiano e dialetto pescarese, con l’aggiunta d’una vivace trascrizione di mimica gestuale (cfr. TN, 283-284). La vicenda, anche nel motivo che l’oggetto sia riaffiorato con l’aiuto d’un complice, è esattamente la medesima: la lavandaia Candia Marcanda, una «Volpe vecchia», è ingiustamente accusata d’aver trafugato a Donna Cristina Lamonica una cucchiara d’argento; impossibilitata a dar prova della propria estraneità all’accaduto, anch’ella protesta ossessivamente la propria innocenza in mezzo alla feroce derisione generale, sino a balbettarla nel delirio dell’agonia.
La fattura dà invece esempio d’una tecnica contaminatoria audacemente giocata sull’arco della diacronia, che combina l’ispirazione alla celeberrima VIII, 6 del Decameron con il Maupassant del racconto L’âne («Le Gaulois», 15 luglio 1883, Le bon jour; CN, II, Miss Harriet), storia d’una beffa da parte di due loschi figuri ai danni di un oste credulone, cui riescono a vendere, spacciandolo per una grossa preda di caccia, un asino da loro barbaramente trucidato. Uscita su rivista nell’84 come L’incantesimo, La fattura costituisce una sfida soprattutto sul piano dell’elocutio, dalla quale traspare come la rappresentazione regionale di Maupassant abbia fornito il mezzo per aggiornare il dettato di Boccaccio in chiave di moderno realismo linguistico e ambientale.
Caso di fruizione limitata sostanzialmente a un’unica fonte è Turlendana ritorna (già «Domenica Letteraria» e «Cronaca Bizantina», 10 maggio 1885), che si svolge sulla traccia di Le retour («Le Gaulois», 28 luglio 1884, poi CN, I, Yvette): il pescatore Martin, ritenuto morto in mare, dopo molti anni d’assenza fa ritorno al paese per trovarvi la moglie ormai sposata ad un altro e, soprattutto, la casa avita occupata dal nuovo matrimonio. Sorta di regolamento di conti notarili, giacché il reduce è meno desideroso di riprendersi la moglie che di far valere il suo diritto di proprietà (CN, I, 169; Tosi 1981-a1, 66), il racconto è costruito in una prosa mirabilmente asciutta e in un perfetto amalgama tra l’argot del tessuto dialogico e la neutra presentazione della voce narrativa. Altro, pur nella fedele adesione della fabula e nell’evidente mimesi linguistica, è il caso della novella dannunziana, tentativo di conciliazione fra color locale e una pronunciata poetica impulsione. Il motivo del ritorno di Turlendana in groppa a un cammello si presta infatti all’innesto di alcuni cenni d’esotismo flaubertiano (TN, 346-347; Ciani 1975, 49; Tosi 1981-a2, 774-775), che, in un anticipo tematico-lessicale della poesia alcionia (I camelli), ben si sposano con usi di palette ispirati alle finezze transalpine già di Terra vergine, quali l’ipotassi e la morfologia nuancée dell’aggettivo di colore («d’un colore tra il roseo e il violaceo», «Il mare si distendeva […] avendo nello splendore la vivezza d’una turchese della Persia», TN, 341).
Al suo ingresso nelle NP il Turlendana ritorna comporrà un preciso dittico col Turlendana ebro, non a caso comparso su rivista giusto un mese dopo («Domenica Letteraria» e «Cronaca Bizantina», 7 giugno 1885), sia per l’affinità del soggetto che per l’ordine di stretta successione qui assunto. Quasi sviluppo a latere del primo racconto, anche il nuovo Turlendana guarda allo scrittore normanno, ma entro un genere d’ispirazione più libera, che la critica ha affermato basarsi sulla contaminazione del racconto L’âne, per la rappresentazione della morte del cammello come là dell’asino, con qualcosa del finale della Femme de Paul utilizzato nella Siesta: come Paul e Donna Laura prima di scivolare nel fiume, anche Turlendana inciampa e cade sulle scoscesità del terreno presso la Pescara. Va però ancora segnalato che il carattere allucinato dell’ambientazione fluviale in cui finisce nella sua ubriachezza Turlendana e l’atmosfera di crescente terrore (TN, 355-356) rinviano al genere del conte fantastique caro a Maupassant e puntualmente a Sur l’eau (CN, II, 771-773), che s’è visto riecheggiato anche nella Siesta (cfr. Giacon 2016, 138, 169).
Chiude la raccolta delle future Novelle pescaresi Il martirio di Giàlluca, che, qui trasposto sotto il titolo Il cerusico di mare, visibilmente (già agli occhi di Maynial 1904 e di Lumbroso 1905) ricalca il maupassantiano En mer («Gil Blas» il 12 febbraio 1883, subito poi nella raccolta Contes de la bécasse). Il minore degli Javel, rimasto col braccio maciullato per evitare la perdita della rete, davanti ai sintomi di putrefazione procede egli stesso ad amputarselo: l’arto sarà posto in salamoia e dunque sepolto con funebri onori alla presenza dell’intero equipaggio. Alla materia maupassantiana d’Annunzio apporta significative varianti, cancellando ogni traccia di tragicomica ironia e unendo al cinismo della ragione economica la ferocia d’una mentalità barbarica. In navigazione da Ortona alla volta della Dalmazia, il marinaio Giàlluca si scopre affetto da un tumore al collo: sottoposto dai suoi compagni ai più crudeli tentativi d’estirpazione, Giàlluca morirà soffocato per via della suppurazione crescente e sarà gettato in mare, sì da simulare la perdita del suo corpo durante un fortunale occorso nel viaggio.
Esempio di un’imitazione costruita su caratteri propri, di quelle che rendono più grande l’imitatore senza tuttavia eclissare il modello (Tosi 1981-a1, 68; Lo Vecchio Musti, 1936, 60), Il martirio di Giàlluca costituisce anche il tassello d’una fruizione che vede la pratica intertestuale precisarsi in un rapporto di complementarità compositiva. La medesima fonte maupassantiana si rivela infatti utilizzata anche nella novella L’eroe con la ripresa, benché in circostanze diversissime, del consistente episodio della mutilazione e dell’amputazione. L’Ummàlido, tra i portatori eletti della statua di San Gonselvo, caduto in ginocchio per un improvviso vacillare del simulacro, rimane con la mano destra schiacciata sotto l’enorme peso. Impossibilitato al suo ufficio, egli procede da sé all’amputazione dell’arto per poi offrirlo a «Sante Gunzelve» (TN, 195).
Con ciò, l’apporto delle fonti francesi al San Pantaleone non può dirsi del tutto esaurito. Nell’indubbia ispirazione verghiana della novella omonima (Gli idolatri delle NP) s’innesta il robusto apporto immaginativo di Zola. Rinvia invero alla Faute de l’abbé Mouret (Ciani 1975, 51) l’accesa palette che segna l’incipit descrittivo dell’episodio II: «La gran plaga vermiglia dall’orizzonte saliva lentamente verso lo zenit, tendeva ad occupare tutta cupola del cielo. Un vapore di fusi metalli pareva ondeggiare su i tetti delle case […]» (TN, 180). Si tratta in effetti d’un tipo di gusto frequente in Zola, costruito sull’emanazione del campo metaforico del fuoco e del sangue, che d’Annunzio, anche sulla base di altre suggestioni, letterarie (Hugo, Leconte de Lisle) come iconografiche (la pittura del Michetti), verrà coltivando in proprio all’interno della prosa di romanzo (Giacon 2006, 263-267), come nel Piacere (D’Annunzio, PR, P, II, i, 137).
La morte di Sancio Panza (l’Agonia delle NP) ha ricavato un consistente spunto dai Goncourt di Manette Salomon (Lo Vecchio Musti 1936, 58; Tosi 1981-a1, 94, nota 88). Sorta di bozzetto ad effetto umoristico risalente al 1884 («Capitan Fracassa», 6 luglio 1884, e con titolo invariato nel San Pantaleone), s’incentra sull’episodio dell’agonia di Sancio, l’amabile cagnetto di Donna Letizia e della famiglia di lei, ove la descrizione dei moti convulsivi dell’animale richiama puntualmente la goncourtiana scimmietta Vermillon.
Fa poi pensare al Maupassant cronista d’eventi delittuosi La madia, vicenda d’odio cruento («Don Chisciotte della Mancia», 4 marzo 1888) confluita nelle NP dalla raccolta I Violenti (1888): storpio e affamato, l’infelice Ciro avrà il collo barbaramente schiacciato dal fratellastro Luca sotto il coperchio della madia perché colto a trarne un pezzo di pane. Oltre che in Masuccio Salernitano (Il Novellino, XXII), la fonte veniva individuata dalla critica in Le gueux (Lo Vecchio Musti 1936, 61; Tosi 1981-a1, 92, nota 52), ove si narra di Cloche, un mendicante che, reso storpio ad entrambe le gambe da una carrozza, vaga affamato di fattoria in fattoria; scacciato in ogni luogo, viene condotto in galera per il furto di un pollo e trovato l’indomani letteralmente morto di fame («Le Gaulois», 9 marzo 1884; CN, II, Contes du jour et de la nuit).
Proverrà dai Violenti alle NP anche La morte del duca di Ofena, ove, accanto ad echi del Verga di Libertà (Bàrberi-Squarotti, 1981, 155-164), va segnalato il probabile influsso dello Zola di Germinal (1885), che, di necessità ignoto al Verga delle Rusticane, non doveva essere sfuggito a d’Annunzio (Giacon 2016, 138, 159). L’eco zoliana puntualmente si coglie nell’episodio della mutilazione del messo del duca Vincenzio Murro, del quale la folla inferocita esibisce il cadavere penzolante in cima ad un’antenna: un analogo fatto di sangue e ferocia si svolge nel cap. VI della Cinquième partie di Germinal, là dove gli operai di Montsou, da mesi in sciopero contro i proprietari della miniera, stremati da un’orribile fame infieriscono contro il corpo di Maigrat, lo strozzino proprietario della drogheria che si rifiutava di far loro credito, per infine esibirne i genitali dall’alto d’una picca. Tuttavia, diversamente che in Zola e in Verga, la rappresentazione dello scontro con la classe padronale resta in d’Annunzio storicamente indeterminata, proiettandosi, specie con la morte per fuoco dell’Ofena, in una direzione mitica anticipatrice dell’opera tragica, dalla Nave alla Figlia di Jorio (Bàrberi-Squarotti 1981, pp. 160-162).
Nel complesso, tuttavia, queste ultime derivazioni si limitano all’aspetto stilistico e/o ideativo, essendo per lo più sprovviste di quel ruolo narrativamente strutturante ch’era stato degli imprestiti flaubertiani e soprattutto maupassantiani.
Bibliografia essenziale
Bibliografia primaria
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D’Annunzio, Gabriele, Le novelle della Pescara, introduzione di Silvano Sabbadini, Milano, Mondadori, 1969.
D’Annunzio, Gabriele, Le novelle della Pescara, presentazione di Daniela D’Alimonte, Chieti, Solfanelli, 2023.
D’Annunzio, Gabriele, Lettere a Barbara Leoni [LB], a cura di Vito Salierno, Lanciano, Carabba, 2008.
D’Annunzio, Gabriele, L’Innocente, prefazione di Pietro Gibellini, introduzione e note di Maria Rosa Giacon, Milano, Rizzoli (bur), 2012.
D’Annunzio, Gabriele, Prose di romanzi [PR], a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, introduzione di Ezio Raimondi, Milano, Mondadori, 1988-1989, I-II.
D’Annunzio, Gabriele, Scritti giornalistici [SG], a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori 1996-2003, I-II: I (1882-1888), testi raccolti e trascritti da Federico Roncoroni; II (1889-1938), testi raccolti da Giorgio Zanetti.
D’Annunzio, Gabriele, Terra vergine, con un saggio e a cura di Pietro Gibellini, Milano, Mondadori, 1981.
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D’Annunzio, Gabriele, Tutte le novelle [TN], introduzione di Annamaria Andreoli, a cura di Annamaria Andreoli e Marina De Marco, Milano, Mondadori, 1992.
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Bibliografia secondaria
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D’Annunzio a cinquantanni dalla morte, CNSD, Pescara, 9-14 maggio 1988, a cura di Edoardo Tiboni, con la collaborazione di Umberto Russo e Mario Rapagnetta, Pescara, CNSD, 1989.
Studi su D’Annunzio. Un seminario di studio, Chieti, 23-25 novembre 1988, a cura della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Chieti, Istituto di Filologia Moderna, Genova, Marietti, 1991 (a).
D’Annunzio europeo, Gardone Riviera-Perugia, 8-13 maggio 1989, a cura di Pietro Gibellini, Roma, Lucarini, 1991 (b).
Il mondo di d’Annunzio: temi, forme, valori, CNSD, Pescara, 24-26 ottobre 2013, premessa di Pietro Gibellini, a cura del CNSD, «Rassegna Dannunziana» [RD], 65-66, 2016.
Contributi singoli
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Andreoli, Annamaria, D’Annunzio narratore europeo, in D’Annunzio europeo, Atti d’A., 1991 (b), pp. 183-193.
Bàrberi-Squarotti, D’Annunzio novelliere e il Verga. La morte del Duca di Ofena, in D’Annunzio giovane e il verismo, Atti d’A., 1981, pp. 155-164.
Bertazzoli, Raffaella, L’intertestualità nell’opera di Gabriele d’Annunzio, in Il mondo di d’Annunzio, Atti d’A., 2016, pp. 19-36.
Botta, Gustavo, Reminiscenze e imitazioni nella letteratura italiana durante la seconda metà del sec. XIX. Quarta aggiunta alle Fonti dannunziane, «La Critica», XI, fasc. VI, 1913.
Ciani, Ivanos, Storia di un libro dannunziano. «Le novelle della Pescara», Milano-Napoli, Ricciardi, 1975.
Croce, Benedetto, Introduzione a Reminiscenze e imitazioni nella Letteratura italiana durante la seconda metà del sec. XIX, «La Critica», VII, fasc. III, 1909.
Culcasi-Gugenheim, Lucia, Guy de Maupassant, considerato come fonte letteraria di Gabriele d’Annunzio, «Quaderni Dannunziani» [QD], 16-17, 1959, pp. 524-537.
De Michelis, Eurialo, Tutto d’Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960.
De Nino, Antonio, Usi e costumi abruzzesi, Firenze, Olschki, 1879-1897, I-VI.
Doctor Mysticus [Conti, Angelo], San Pantaleone, «La Tribuna», 143, 26 maggio 1886, in Forcella 1936, 873, pp. 99-104 (supra, 1).
Duplessy, Lucien, Quelques sources de Gabriele d’Annunzio, «Mercure de France», CCLVI, 874, 1934, pp. 50-76.
Fatini, Giuseppe, Il d’Annunzio e il Pascoli e altri amici, Pisa, Nistri-Lischi, 1963.
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Gibellini, Pietro, Per un diagramma del verismo dannunziano, in D’Annunzio giovane e il verismo, Atti d’A., 1981, pp. 25-40.
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