Cerca
A B C D E F G I K L M P R S T U V Z
Fe Fi Fo Fr
Fon For

Fonti francesi nelle novelle 1

di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana

1. Zola, Flaubert, Maupassant e l’uscita dal modello verghiano

Uscire in prosa dall’angustia dei «tragici idillii» verghiani (d’Annunzio 1892, in SG, II, 112), come in poesia sbarazzarsi del «mago» Carducci (che «mi schiacciava», in Fatini 1963, 258), non sarebbe stato possibile neppure a un genio precocissimo, ancora fresco di collegio, se non grazie all’intervento delle principali auctoritates del realismo e del naturalismo transalpino. Tale fruizione fu effettuata in anni diversi: per primo Zola, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, da Primo vere (1879) a Canto novo e Terra vergine (quest’ultima su rivista fin dal 1880); Flaubert, nel Libro delle Vergini (Sommaruga, 1884); Maupassant, nella raccolta dell’Intermezzo (Sommaruga, 1883) e soprattutto nel San Pantaleone (Barbèra, 1886).
L’assimilazione e la sedimentazione di questi modelli dovevano però essersi attuate pressoché in contemporanea e senza soluzione di continuità nel passaggio da un autore all’altro; più opportuno è infatti pensare a una compresenza dell’eredità di tali
maîtres, che, perdurante in tutto il giovanile apprendistato, da questo variamente si estenderà alla prima prosa di romanzo. Di fatto, trascegliendo simili auctores, l’ex-collegiale avrebbe trasceso il nostro verismo approdando ad esiti certo non tutti ugualmente felici, ma d’indubbia novità rispetto al panorama italiano coevo «si l’on songe que La faute dell’abbé Mouret, les contes de Maupassant et ceux de Flaubert n’étaient pas précisément les œuvres les plus connues en Italie» (Tosi 1981-a1, 89; Tosi 1981-a2, 792).
Tuttavia, a dirigere d’Annunzio verso i narratori d’oltralpe non era solo stato un certo snobistico disdegno nei confronti della provincia italiana; né solamente il precoce
habitus a confezionare, secondo quell’abilissima strategia comunicativa di cui molto s’è scritto, prodotti di mercato allettanti perché giocati sulla distanza da un terreno già noto (da Carducci e Verga, in tal caso). Conta piuttosto insistere sulla speciale fisionomia che presso d’Annunzio da subito appaiono assumere i fontes francesi: trascegliendo quei modelli «selon sa nature profonde», egli aveva in realtà «choisi lui-même» (Tosi 1981-a1, 89; Tosi 1981-a2, 792) in conformità a un rispecchiamento agnitivo e ad una compenetrazione con la fonte in prima istanza diretti dal fascino del segno verbale.
È vero, però, che tale compenetrarsi si mostrava anche fondato su precise esigenze di
ratio artigianale. Nel rilevare l’intertesto del novelliere, si potrà infatti constatare come l’accensione creativa determinata dal segno, quale complesso d’immagine mentale e di valore materico, di sostanza acustica e resa grafica, spesso aderisca alle ragioni della tékhne narrativa, sollecitandola o addirittura ingenerandola, e anche come attrazione materica e logica costruttiva possano, senza mai veramente disgiungersi, far prevalere l’una sull’altra le proprie ragioni. E per quel giovane alle prese con il terreno ignoto della prosa nulla vi sarebbe stato di meglio che attingere l’alfabeto del narrato alle sirene d’oltralpe, affascinanti per immagini e temi, seducenti per la lingua e lo stile, quanto maestre nella costruzione del plot. Nel traguardare Verga attraverso il linguaggio dei sensi e il metamorfismo zoliano, o nel sistematico impiego di nuclei diegetici a derivazione flaubertiana e maupassantiana, non era la propensione all’accattonaggio plagiario a lui ascritta in anni successivi, bensì l’espressione di un disagio sul piano dell’ideazione e soprattutto della strutturazione raccontative, disagio che a d’Annunzio senza dubbio veniva dall’esser figlio della crisi di un’intera civiltà nel post-positivismo di fine secolo, ma che al contempo dipendeva dalla particolare natura della sua stessa costituzione artistica: dalla presenza sempre in impetuoso fermento d’«una volontà di canto prima ancora di aver qualcosa da dire» (Rossi 1981, 44). Ora dunque, affacciandosi alla prosa, il poeta aveva d’istinto eletto i suoi auctores. Non tanto si trattava di stilisti come i Goncourt, dei quali nel Libro delle vergini e nel San Pantaleone qualche influsso è percepibile; né ancora poteva trattarsi di psicologi e analisti come Bourget, cui ci si rivolgerà a partire dal Piacere (1889) sino al Trionfo della morte (1894); i veri maîtres del giovanissimo scrittore erano architetti e ingegneri, la cui grande opera tuttavia racchiudeva interessanti anticipazioni tematiche e formali della cultura e dell’immaginario di fine secolo.
Zola, infatti, non è soltanto il fotografo d’un complesso scorcio di storia «sous le seconde Empire», ma anche il dipintore di ritratti femminili perversi già assimilabili a quelli di un Khnopff, come quello di Rénée nella
Curée, o, come nella Faute de l’abbé Mouret, il cantore d’una libera animalità, d’una religiosità carnale tale da travolgere ogni convenzione sociale e culturale; è alla pari il cronista di crimini tra i più feroci, come nella Terre di cui nel 1887, mentre ancora è in gestazione la raccolta I Violenti, d’Annunzio prenderà le difese sulla «Tribuna». Flaubert, poi, non è solamente il padre della moderna tranche de vie e un chirurgo della parola applicato all’ordre vrai, è, non bastasse, il lussureggiante pittore di Salammbô, del Saint Julien l’Hospitalier e della Tentation de Saint-Antoine. In Maupassant, infine, d’Annunzio vedeva fondersi la sensualità di palette e la capacità scultorea di Zola, il cesello lessicale e l’ideazione immaginosa di Flaubert, con la vocazione per un ritmo diegetico «ferroviario» (Savinio 1982, 33) talvolta attraversato dall’alito d’un terrificante hors-de-là: come in talune novelle del San Pantaleone e loro sicura fonte per l’appunto.
Tali componenti erano state da d’Annunzio tempestivamente recepite; esse dovevano fungere da terreno attrattivo e da denominatore comune per il rabdomantico interprete che in parte egli già era: già sin d’ora abile nel cogliere, sottraendole all’ambiguità di cui l’opera d’arte è intessuta, le direzioni divergenti dalla dominante del sistema, per volgersi ad esse in armonia con le proprie e più profonde. Il che spiegherebbe come, pur nell’assunzione di fonti innumerevoli e diversissime, nei romanzi fine Ottanta-primi Novanta un peso notabile continui a venir esercitato dalle
auctoritates che avevano tenuto a battesimo il novelliere.

2. 1880-1882: Terra vergine

Fu innanzitutto la sensorialità della parola a sospingere in direzione di Zola l’esordiente scrittore. Fu una scoperta non solo precoce, ma anche più ampia di quella di norma segnalata dalla critica, dovendosi supporre che all’altezza di Primo vere, oltre a una source largamente nota quale il romanzo del 1876 La faute de l’abbé Mouret (Paratore 1966; Tosi 1979), egli «conoscesse Le ventre de Paris (1873)» e «Une page d’amour, […] uscito giusto nel 1878, nel pieno della stesura» della prima raccolta (Giacon 2016, 134-135). Lo attesta l’abbinamento sinestestico colore-suono di Initium, 18-19, «e qua e là con ultima pompa / gli alberi cantan la gamma de ‘l verde sonora» (Primo vere, in D’Annunzio, VS, I, 95; qui e di seguito corsivo nostro), che, pressoché ignoto al panorama italiano se si eccettui Carducci (col suo «divino del pian silenzio verde»), rinvia puntualmente alla descrizione delle Halles parigine: «les paquets d’épinards, les paquets d’oseille, les bouquets d’artichauts […] chantaient toute la gamme du vert […]. Mais les notes aiguës, ce qui chantait plus haut, c’étaient […] les taches vives des carottes» (Le ventre de Paris, in Zola 1969-1970, I, 399), preludio alla splendida sinestesia che affiorerà nel Canto, III, X, 4: «[… su ‘l indaco chiaro del cielo /] canta la nota verde un bel limone in fiore» (Canto novo, in VS, I, 204). Del resto, qualcosa si perde della raffinata ‘navigazione’ delle nuvole di Su ‘l Nilo, 22-24, «[…] natan n ‘l perleo / ciel tre nuvole flave / lentissime giù ad austro» (Primo vere, VS, I, 45-46), se non si faccia riferimento ai tópoi del paesaggismo transalpino, in particolar modo a Zola, sì dipintore alla maniera di Hugo di cruente ‘titanomachie’ celesti, ma anche autore di natanti figurazioni di stilizzata eleganza: «la flottille de petites nuées nageant lentement dans le bleu, au-dessus de Paris, se couvrit de voiles de pourpre» (Zola 1969-1970, II, Une page d’amour, 79).
È tuttavia indubitabile che i più intensi e numerosi acquisti il giovane novelliere li facesse presso
La faute de l’abbé Mouret (FAM, in Zola 1969-1970, II), romanzo celebrante la potenza dell’élan vital che trascorre in seno al mondo vegetale e animale e che induce alla faute un giovane abbé, devoto al culto mariano, in nome dell’amore sacrilego per Albine nell’edenica cornice del Paradou. A questo parádeisos, infatti, d’Annunzio attinge per la lingua, lo stile e il complesso tematico dei nove racconti, che, quasi tutti comparsi su rivista nel 1880-1881 come «bozzetti» o «figurine abruzzesi», disegnano un microcosmo istintuale il cui correlativo metaforico è un «analogismo ferino» a forti echi darwiniani (Gibellini 1981, 25-29). Per l’uscita in volume nel 1882 presso Sommaruga, ove essi confluiranno sotto il titolo Terra vergine, d’Annunzio studierà un ordine di successione diverso dalla comparsa su rivista, visibile l’aspirazione a comporre i singoli bozzetti, unità raccontative in sé conchiuse e di modesta tenuta diegetica, entro un’organizzazione almeno all’apparenza più legata e organica.
È il principio del progetto narrativo che da
Terra vergine conduce al Libro delle vergini (Sommaruga, 1884), s’innesta nel San Pantaleone (Barbèra, 1886) e, agendo entro la traduzione herelliana dell’Episcopo et Cie (cfr. Cimini, in D’Annunzio, DH, 30 novembre 1893, XXXVIII, 155-156; Ciani 1975, pp. 93-143), si realizza pienamente nelle Novelle della Pescara (1902). L’esito finale della novellistica dannunziana nulla tratterrà del carattere «puerile» della prima raccolta (D’Annunzio, DH, LXXIX, 236), e però l’esperienza di Terra vergine, che nella seconda edizione (Sommaruga, 1884) si arricchisce di testi significativi come Bestiame e soprattutto la complessa Ecloga fluviale, rappresenta una pietra miliare nella narrativa di d’Annunzio, dettando nella prosa le prime modalità d’una sperimentazione che s’era in parallelo condotta e andava conducendosi nella poesia.
Non a caso il breve volume si apre con la novella eponima, ultima in realtà su rivista, in cui da subito potrà riconoscersi l’intonazione fondamentale della silloge: l’attraversamento di Verga, che trascina con sé una gran ricchezza d’echi sensibili anche nella lirica, traguardato da una specola dichiaratamente zoliana e in parte, come in
Campane, anche vittorughiana (Rossi 1981, 49; Iengo 1991-a, 229-230). Entro tale complesso di modelli, le componenti della lezione transalpina e fondamentalmente zoliana si esprimono nella storia di Fiora e Tulespre e da qui, in forza della studiata dispositio, si diramano nei bozzetti successivi, lasciando traccia evidente sul piano delle immagini e d’una tipologia di motivi strettamente correlati: la possente circolazione vitalistica e sensuale che permea entrambi uomo e natura, la loro complementarità metamorfica e la veste primordiale, sensoriale o pre-coscienziale, del canale d’apprendimento della realtà da parte della maggioranza di questi eroi elementari.
A simile corredo tematico risalgono anche i tratti stilistici più rilevanti dell’intera raccolta.
Lessicalmente, l’insediarsi d’un vocabolario percettivo che riflette l’interscambio fra i due mondi, come nei ricorrenti fremiti, brividi, sospiri, aliti, aneliti… riferiti all’antropomorfizzarsi della natura («Nell’aria fluttuavano delle voci strane, indistinte, come degli aneliti fuggevoli, dei respiri di foglie, dei crepitìi di rame vive, dei frulli d’ale», Campane, TN, 26), o come nei “lucreziani” germe, atomo, materia, humus designanti il metamorfismo del soggetto umano (Fra’ Lucerta, TN, 39).
Sul piano della strutturazione di frase e periodo, la paratassi incalzante, il cui impeto immaginoso risponde alla circolazione vitalistica dell’istinto naturale, e, in senso retorico, la similitudine d’ordine vegetale per descrivere le sensazioni del soggetto: «Da due o tre notti non gli riusciva di chiuder occhio: provava formicolìi, ardori, punture per tutto il corpo,
come se fuor della pelle da un momento all’altro gli dovessero irrompere germogli e rampolli e bocciòli di rose salvatiche a migliaia» (Campane, TN, 26); inoltre, con puntuale coincidenza con i tipi di Primo vere e soprattutto di Canto novo, l’esaltazione sinestetica incentrata sulla «sinfonia varia e possente di colori e di profumi»: «un popolo di fiori […] di ranuncoli orientali che coprivano con le sonorità superbe della loro gamma rossa le note tenere delle clematidi […]» (Fra’ Lucerta, TN, 39); la metafora pittorica, che si esprime in costrutti a base ipotattica come nell’intensa tavolozza, arricchita dalla sinestesia, di Dalfino: «filoni di scarlatto, chiazze di viola, falde tremolanti di roseo, fiocchi scialbi d’arancio, svolazzi di azzurro si fondevano in una stupenda sinfonia di colore […]» (TN, 12); la morfologia fortemente nuancée, talvolta affiancata dal motivo impressionistico della tâche, dell’aggettivo cromatico (verdastro, roseo, violaceo-violetto, nerastro, verdognolo…), e le formazioni ipotattiche incapsulanti minerali e metalli: cielo… di berillo, luna color di rame, mattina… di cobalto e di sole (Cincinnato, TN, 19, 20, 23); cielo d’opale… a chiazze (Campane, TN, 29); «Quella sera l’Adriatico era violetto, d’un violetto carico e lucido come l’ametista» (La gatta, TN, 46); la grande chiarità metallica del cielo (Bestiame, TN, 57).
Tutti questi temi e procedimenti espressivi, che d’ora in poi entreranno a far parte stabilmente del sistema descrittivo dannunziano inclusa la prosa di romanzo, trovano letterale riscontro nello Zola della
Faute de l’abbé Mouret (Tosi 1979). Notoriamente segnalati sono in Terra vergine anche i calchi zoliani nell’uso della paratassi e dello stile nominale (Paratore 1966, 92), sì da generare «une sorte de feu d’artifice, une efflorescence de substantifs, d’adjectives, de verbes, d’images» (Tosi 1981-a1, 87; Tosi 1981-a2, 790-791). Alla pari, evidente è il credito del maestro francese nel caso della sinestesia, in Zola ricorrendo non solo i tipi d’ordine visivo-auditivo, ma anche quelli di genere visivo-termico («Le soleil montait, une poussière de jour plus chaude», FAM, 83) e tattile-olfattivo («d’autres plantes […] les tissaient d’une trame odorante», FAM, 84): una larghezza di campo sinestetico, che, inconsueta al quadro italiano, è ben avvertibile in Terra vergine e di essa ancora risentirà il raffinatissimo tessuto sensoriale dell’Innocente (Giacon, in D’Annunzio 2012, 157).
Nel caso, poi, della metafora pittorica e del suo vario impiego, dall’alterazione morfologica dell’aggettivo cromatico (
-âtre) alla resa ipotattica con un sostantivo astratto, gli esempi non si contano in un fine connaisseur degli Impressionisti quale Zola («Des capucines, aux chairs verdâtres», FAM, 84; parc… d’une limpidité verte, verdures pâles… d’un lait de jeunesse, 77; le blanc rose… neige d’un pied de vierge, 79, e molti altri).
Infine, per quanto riguarda il lessico sensoriale (i
formicolii, vellicamenti, brulichìi…, che sono in Terra vergine quanto in Primo vere e Canto novo), esso è d’uso continuo non solo nella Faute de l’abbé Mouret, ma in un po’ tutta l’opera di Zola, nella quale si esprime l’interesse d’ascendenza positivista, specie tainiana (il Taine del trattato De l’Intelligence), per i fenomeni della percezione.
>A dispetto di tale messe di prelievi, calchi, imitazioni nella lingua e nei temi, già si scorge una differenza profonda rispetto al maestro, in quanto ciò che in Zola era trascrizione del fenomeno percettivo mirata al rilievo del punto di vista attoriale, cioè all’
azione, in d’Annunzio diviene cesura descrittiva a favore d’una sensorialità orientata in direzione liricizzante. Non a caso del récit zoliano egli trattiene di meno rispetto alla lingua e allo stile. Zoliana, tuttavia, la chiusa della novella eponima, in cui, trascinato dalla solidale compenetrazione di uomo e natura e complice l’inneggiante Pescara, avviene il congiungersi di Fiora e Tulespre («Dall’umidità estuosa del terreno pullulava, scoppiava una forza giovine ed aspra di tronchi, di virgulti, di steli […] e in mezzo a quel trionfo di vita vegetativa squillavano altre due giovinezze, fremevano altri amori, passavano Fiora e Tulespre inseguendosi a precipizio […] E la Pescara cantava», TN, 8-9), che puntualmente rinvia all’amplesso di Serge e Albine, episodio in cui la forza travolgente del Paradou si esplicitava nella medesima direzione antropomorfica con tanto di plauso finale: «Et le jardin entier s’abîma avec la couple, dans un dernier cri de passion […]. Et c’était une victoire pour les bêtes, les plantes, les choses, qui avaient voulu l’entrée de ces deux enfants dans l’éternité de la vie. Le parc applaudissait formidablement» (FAM, 115: cfr. Tosi 1979, 12-13; Tosi 1979, in 2013, II, 756-757).
Sempre sul piano della strutturazione raccontativa
un altro interessante prelievo si riscontra nell’esito finale di Fra’ Lucerta, dove, in una sorta di specularità rovesciata rispetto alla Faute, viene attribuito al frate, che muore soffocato dai richiami d’un amore sacrilego, il destino della suicida Albine al ritorno del suo amato abbé in seno alla Chiesa. È una tangenza diegetica di certo interesse per il seguito di questa novellistica, specie per Il Libro delle vergini, in cui la sessualità repressa di Giuliana rinasce, come quella Serge, dopo una malattia (Le vergini), e, come Albine, Galatea muore a causa dell’amore non corrisposto per Cesare (Favola sentimentale).
Chiude significativamente la raccolta la più tarda, posteriore alla
princeps, Ecloga fluviale («Cronaca Bizantina», 1° dicembre 1882; Sommaruga, 1884), che, nel simbolismo metamorfico del «viluppo d’uomo e di cavallo», sembra già preludere al primitivo mitico delle Laudi (Mutterle 1988, 267-268, in De Marco, TN, 873). Anche in questo racconto la presenza zoliana è più che mai ribadita nella prepotenza dell’impeto carnale che pervade Ziza, ossessionato dall’amore per la zingara Mila; nella fenomenologia sensoriale e metamorfica, ora fattasi più complessa e raffinata: «Un formicolìo tenue saliva allora pel sangue […]; pareva che il sangue irradiandosi incontrasse dei nodi, e intorno a quei nodi stagnasse con un fermento nascosto, come la linfa su per un tronco d’albero giovine: in quei punti cominciavano le prurigini, si diffondevano tormentose a fior di pelle» (TN, 70-71).
Sempre di fattura zoliana sono impieghi di
palette quali madreperla del cielo (TN, 65), verginità opalina del mare (67), trasparenza verdognola del berillo e tono eguale d’ardesia (72), quest’ultimo scoperto calco su ardoise, stilema caro alle descrizioni parigine in chiave luministica di Zola. Accanto ad essi fa ora comparsa il motivo della polvere d’oro (pulviscolo aureo del sole, 67; fluttuamento polveroso di oro, 72; «qualche cosa di latteo e di aureo fluttuava nell’aria», 74): ricorrente in Zola, ma già tόpos della descrizione transalpina da Hugo a Gautier, anche questo nuovo acquisto di Terra vergine s’installerà nella lunga durata del sistema descrittivo dannunziano.
Tuttavia, la similitudine
riferita agli occhi di Mila in preda ad amoroso abbandono, «fra le ciglia le tremolavan le iridi per un istante, perdendosi nel bianco […] come due stille nere nel latte» (TN, 66), attesta che all’altezza di Ecloga fluviale d’Annunzio ha ormai scoperto l’opera di Flaubert, giacché il dato descrittivo della novella è calco evidente d’un passo di Madame Bovary in cui si rappresenta lo svenimento di Justin alla vista d’un salasso di Charles Bovary: «la syncope de Justin durait encore et ses prunelles disparaissaient dans leur sclérotique pâle, comme des fleurs bleues dans du lait» (cfr. Thovez [1896] 1921, 41; Tosi 1981-a1, 84; Tosi 1981-a2, 786). L’eco di Flaubert, all’origine d’uno stilema designante bellezze femminili languide e voluttuose – da Barbara Leoni (D’Annunzio, LB, 18 giugno 1887, IX, 73) a Conny Landbrooke nel Piacere (PR, I, ii, 40) –, si coglierà con puntualità maggiore, ma unitamente a originali variazioni, in più luoghi dell’Intermezzo di rime (La lotta, 3-4, VS, 299; Studii di nudo, II, ii, 3-4, VS, 317; Peccato di maggio, v, 119-120, VS, 322).
È un processo di graduale approssimazione alla nuova fonte flaubertiana, che, tratto abbrivio in
Terra vergine (1882), continua nella poesia (1883), per dunque far ritorno alla prosa nelle raccolte del Libro delle vergini (1884) e del San Pantaleone (1886).

Bibliografia essenziale

Cfr. Fonti francesi nelle novelle 2.

Condividi: