di Raffaella Bertazzoli, Enciclopedia dannunziana
Avviando la stesura delle Elegie romane, nell’estate del 1887, il giovane d’Annunzio intendeva, forse, compiere un’operazione di mimesi poetica. In quello stesso, infatti, anno si commemorava il centenario del viaggio goethiano in Italia (1787-1788) e anche quello dell’opera poetica – le Römische Elegien – più di altre legata al soggiorno romano del poeta tedesco. Silloge edita nella rivista «Die Horen», dal titolo classicheggiante (rinvia alle Ore, antiche deità greche), fondata da Schiller nel 1796. Alla pubblicazione seguì lo scompiglio e la morale riprovazione della borghesia benpensante di Weimar.
Con il pretitolo di Elegie romane, d’Annunzio pubblica il 24 luglio 1887 sul «Fanfulla della Domenica» Villa Medici, elegia in quattro tempi, celebrativa del suo nuovo amore (aveva conosciuto Barbara Leoni nell’aprile), sullo sfondo di una Roma splendida e complice. Quella stessa Roma (ma con contorni un poco più classici), che un secolo prima aveva conosciuto la passione amorosa (c’è chi la vuole solo letteraria) di Goethe per la dolce e semplice Faustina, «die Geliebte». Negli anfratti ombrosi delle sue ville, Roma assiste, attraverso la poesia, al rinnovarsi del mito, sebbene rivisitato nelle forme di una più addomesticata ritualità.
Raggruppando componimenti scritti in un lasso temporale molto esteso (luglio 1887 – maggio 1892), il libro dannunziano testimonia un processo poetico-compositivo variegato e complesso. Coeva alla stesura di testi dell’Isottèo e della Chimera, la silloge vive parallelamente alle esperienze delle prose giornalistiche e dei primi romanzi. Lambisce, quindi, il tempo della massiccia ricomposizione dell’Intermezzo (1892-1894), in anni cruciali per lo snodo della scrittura paradisiaca. Processi capitali per la maturazione letteraria del giovane scrittore, che vedrà chiudersi quella fase temporale sulla prima importante pagina del suo apprendistato poetico.
Cade altissimo, e forse intempestivo, il primo accenno al volume. In una rubrica di Cronaca sul «Fanfulla della Domenica» del 7 agosto 1887 (era da poco uscito il componimento Villa Medici), l’editore annuncia la pubblicazione della raccolta elegiaca, accennando anche ad un romanzo ancora in fieri, dal titolo «Barbara Doni» (il nome allude alla Leoni, la futura Ippolita del Trionfo della morte, che nella elegia Villa d’Este è ribattezzata «Vittoria Doni»), che non sarebbe mai apparso. Nel trafiletto si precisa: «Il nostro amico e collaboratore Gabriele d’Annunzio pubblicherà nel prossimo autunno, oltre le Elegie romane, di cui i nostri lettori hanno avuto un saggio, un romanzo di costumi contemporanei».
Tuttavia, è solo nel luglio del 1889, quando aveva composto sette elegie, che d’Annunzio stringe la trattativa con Emilio Treves per la stampa del suo libro. Scrive all’editore il 29 luglio:
Ho quasi pronte le Elegie romane. Comporrebbero un volume non grande; ma bisognerebbe che il formato fosse più tosto ampio perché i distici sono tipograficamente ingombranti. Io credo che a voi convenga essere, da ora innanzi, il mio editore, esclusivamente, come a me conviene essere edito da voi. Non sarà difficile quindi intenderci.
Il 15 settembre 1889 (ne aveva scritte dieci), il poeta ritiene necessario rinviare ancora la pubblicazione alla «primavera del 1890, in marzo o in aprile» Ma le elegie composte non formavano un libro, benché «non grande», se il 7 agosto d’Annunzio precisa al Treves: «Le Elegie romane non sono ancora pronte». Nel settembre 1890, d’Annunzio programma un altro rinvio al «1° marzo 1891». Il 1° gennaio 1891 ancora un annuncio sulla «Vita Nuova»:
Gabriele d’Annunzio lavora alacremente a due raccolte di versi, della prima delle quali [Poema paradisiaco] un saggio magnifico è comparso sulla «Nuova Antologia» ultima. L’altra è quella delle Elegie romane che sono circa una ventina.
Sopravvenuta la rottura tra il poeta e l’editore, per il rifiuto che quest’ultimo aveva frapposto alla pubblicazione dell’Innocente, anche le trattative per le Elegie si interrompono.
Chiusi i rapporti con Treves, almeno per quel tempo, d’Annunzio si rivolge altrove, e nel febbraio 1892 prende accordi definitivi con Zanichelli. Inizia da quel momento la sistemazione dei testi: il volume viene diviso in quattro libri, di cui l’ultimo composto quasi interamente negli ultimi mesi. D’Annunzio era entrato in contatto con l’editore bolognese nell’estate del 1891, grazie ai buoni uffici dell’amico giornalista Edoardo Scarfoglio. Presentando il suo progetto, il poeta scrive il 25 agosto di quell’anno allo Zanichelli: «Le Elegie romane sono una ventina, e comporrebbero un volume simile nella mole di quello delle prime Odi barbare». Il contratto, tuttavia, si perfeziona parecchi mesi dopo, e il 1° marzo 1892 d’Annunzio annuncia: «Oggi le spedisco il manoscritto delle Elegie romane»; mentre il 18 dello stesso mese precisa: «L’avverto che aggiungerò in fine al volume due altre elegie; e le mando l’epigrafe che deve essere stampata dopo il frontespizio». Il volume verrà pubblicato dallo Zanichelli nella collezione elzeviriana (explicit 30 maggio 1892), recando sotto il titolo l’indicazione cronologica «[1887-1891]» e la dedica «Al poeta Enrico Nencioni». Una sede tipografica simbolica, la stessa delle Odi barbare – che furono, per il giovane Gabriele del Convitto Nazionale Cicognini, quasi livre de chevet. Testo puntigliosamente compulsato anche durante il periodo delle prove elegiache.
Momenti della storia compositiva del volume e del suo lungo iter editoriale, si possono seguire nel carteggio con Barbara Leoni, che corre parallelo alla produzione poetica, e dal quale, in vicenda alterna, trasmigrano spunti e commenti ai versi. Annunci del volume apparvero sulle pagine dei quotidiani o delle riviste, che via via ospitarono, in forma sparsa, quasi tutti i componimenti della raccolta.
Nella fase editoriale conclusiva (febbraio-maggio 1892), si infittiscono le testimonianze sul work in progress. Importante una lettera, poco nota, del 29 febbraio 1892, in cui d’Annunzio informa Barbara di aver terminato il riordino dei testi, che trova «simmetrici» e legati da «rispondenze segrete». A quel tempo, tuttavia, mancava ancora (con eccezione della Certosa di San Martino) tutta la sezione quarta, destinata ad accogliere le suggestioni della memoria e della nostalgia per Roma. In quella stagione napoletana, d’Annunzio avrebbe inserito nel suo ‘canzoniere’ testi eccentrici, trasformando il liber in un compositum, aperto e chiuso su temi romani. Così a Barbara nel febbraio:
Ho riordinato tutte le Elegie. Debbo spedire il manoscritto domani o dopodomani. Bisognerebbe che tu facessi un pacco di tutte le Elegie pubblicate su i giornali […]. Il volume delle Elegie sarà molto bello. È diviso in tre parti; ed è organico. Temevo che nel riunire questi versi, composti in tempi dissimili, troppo si conoscessero le disuguaglianze. In vece c’è tra loro una rispondenza segreta. C’è perfino una certa simmetria nelle parti: tutte e tre si compongono di sei Elegie: – in tutto diciotto.
Pochi giorni dopo, il 1° marzo, d’Annunzio ringrazia Barbara per la tempestiva spedizione: «Ho lavorato tutto il giorno. […] Grazie della premura con cui mi hai spedito i giornali. […] Addio, addio. Che tristezza rileggere le elegie del 1887, le prime. Ti ricordi? Villa Medici!». Il 5 maggio, mentre corregge le bozze, d’Annunzio è ancora impegnato nella composizione di testi elegiaci e scrive: «Jeri aspettai il tuo avviso. […] Rimasi tutto il giorno in casa a lavorare, a correggere le prove delle Elegie e a comporre il Congedo che mancava ancora». Con la lettera dell’8 giugno d’Annunzio comunica finalmente a Barbara l’avvenuta stampa del volume, e accompagna l’epistola con un esemplare: «Ti mando un libro: le Elegìe».
La raccolta avrebbe avuto anche una stampa parallela, con testo latino a fronte: due componimenti (Il vespro e Ave Roma) vennero pubblicati in un opuscolo per le nozze Paparini-Balestra nel 1893 (Roma, Forzani e C. Tip. del Senato) con la traduzione latina di Annibale Tenneroni; successivamente il Tenneroni curò un’altra stampa (1897), voltando in latino i seguenti componimenti: Il vespro, Elevazione, Villa Ghigi (parti I e II), In San Pietro (II), Il pettine, Ave, Roma, Vestigia. L’edizione, fuori commercio, fu stampata in trecento copie (dedica al poeta Adolfo De Bosis) su carta a mano con l’indicazione editoriale dei Fratelli Treves, ma in realtà uscì per i tipi dell’Unione Cooperativa Editrice di Roma. Nel 1905 la Libreria Editrice Lombarda di Arnaldo De Mohr e Tom Antongini pubblicò l’edizione completa delle elegie con stampa dicroma: il testo originale in nero e la traduzione latina di Cesare De Titta in rosso. Da questa edizione in poi, il volume porterà la dedica in memoriam al poeta Enrico Nencioni.
La seconda edizione del volume elegiaco è del 1911. Venne pubblicata dai Treves e tenuta come originale per le successive ristampe. Seguono: l’Edizione nazionale dell’Opera omnia (1929), quella del Vittoriale degli Italiani del 1939. A partire dall’Edizione nazionale, le Elegie verranno raggruppate con Canto novo e con Intermezzo nella sezione intitolata Femmine e Muse, e così anche nelle successive edizioni mondadoriane dei Versi d’amore e di gloria, I (1950 e 1982).
Dalla prima edizione zanichelliana del 1892, il volume non subì mutamenti significativi. Venne cassata l’epigrafe ovidiana, preposta al testo finale del Congedo; «Tu tamen i pro me, tu, cui licet, aspice Romam!» (Ovidii Tristium L. P. [Liber Primus]), mentre a partire dell’edizione del 1911 la numerazione romana, relativa alla partizione in libri (Libro I), viene sostituita, con l’indicazione esplicita: Libro primo.
Non è certo se, all’altezza della sua prima elegia (Villa Medici, 16 luglio 1887), d’Annunzio avesse già chiaramente concepito l’idea di un libro di versi in onore della donna amata. Sul manoscritto il poeta indugiò nel definire il titolo, che risulta essere, in un primo tempo, semplicemente: Elegia romana. In un secondo tempo il poeta trasformò il titolo rematico in un pretitolo collettivo, Elegie romane, e assegnò allo specifico componimento il titolo tematico di Villa Medici. L’elegia è suddivisa in quattro parti (con Villa Chigi è il testo più esteso) e riassume gli elementi fondanti dell’intero Libro primo: l’amore per Barbara, vissuto sullo sfondo della celebre villa romana, tra una natura umanizzata. La villa medicea diventa, a sua volta, teatro per la ricreazione del mito; preziosa la lingua che si snoda nel lungo verso barbaro e si inerpica nelle volute di una sintassi variata e classica su modello carducciano. La donna amata viene celebrata dea tra le dee, immersa nelle forme di una classicità parnassiana e di uno stilnovismo secolarizzato; donna non venuta «in terra a miracol mostrare», ma ella stessa «maraviglia» che le stelle annunceranno ai cieli.
Chiarito, poco dopo, il disegno elegiaco – l’annuncio del libro è dell’agosto ’87 – d’Annunzio scrive il secondo testo dal titolo Elevazione. Segue nell’ottobre Sogno d’un mattino di primavera e quindi un lungo silenzio, fino alla primavera del 1888.
All’altezza delle prime tre liriche, il rapporto tra le Elegie e i componimenti goethiani, oltre che dichiaratamente onomastico e metrico, non pare fondarsi che su generici contatti con i modi classici con cui Goethe aveva celebrato il suo amore per Faustina. Estranea, nelle liriche dannunziane, una poesia che richiami forme da Antologia Palatina, familiari al Goethe romano. Gli imprestiti classici – quando vi siano – passano attraverso la mediazione dei neoclassici e dei parnassiani, le cui citazioni divengono emblematicamente calchi: basti l’esempio del testo che apre la raccolta (Villa Medici), che recupera, nella riscrittura dei grandi miti della grecità (II parte), larghi frammenti di un testo di Théodore de Banville (La source). Accanto a echi delle Metamorfosi di Ovidio, a qualche spunto omerico e virgiliano, a reminiscenze dei testi sacri, si riconoscono suggestioni dai libri di Shelley, Swinburne, Flaubert, Verlaine e altri. D’Annunzio sembra ignorare l’essenza poetica delle Elegien, almeno fino al gennaio del 1888.
Da quel momento, l’interesse per la raccolta goethiana si fa più deciso, arrivando ad influenzare, oltre all’assetto della silloge elegiaca, anche testi coevi, come La Chimera. Il 22 gennaio, d’Annunzio pubblica sul «Don Chisciotte della Mancia» un’ode con il titolo provvisorio, ma significativo, di Gennaio romano – Rileggendo le «Römische Elegien». Il componimento entrerà successivamente a far parte della Chimera, come primo testo della corona dedicata a Donna Francesca. Abbiamo detto, titolo significativo in quanto ora d’Annunzio rilegge e lavora sulle Elegien goethiane operando non solo sul componimento della Chimera, in una vera e propria ripresa di passi di alcune delle più note liriche goethiane, ma concertando e predisponendo, tramite rimandi espliciti, un assetto preciso ai suoi versi elegiaci.
Un primo, chiaro rinvio alle Elegien è rappresentato dalla lirica il Vespro, composta nel giugno 1888 e posta in apertura al volume per la sua funzione di vero e proprio proemio tematico alla raccolta. Il testo vuol essere la riproposizione della elegia prima di Goethe («Saget, Steine, mir an, o sprecht, ihn hohen Paläste!»), in cui viene analizzato il motivo dominante della scrittura elegiaca, in rapporto ai due pilastri tematici che la sorreggono: la celebrazione dell’amore per Barbara e la manifestazione entusiastica per la bellezza di Roma. Non per la Roma classica, ma per quella rinascimentale dei grandi palazzi e delle zampillanti fontane, che fanno da sfondo a percorsi poetici di sogni chimerici, sotto cieli dal cromatismo acceso: «Quando […] / io mi partii, com’ebro, dalla sua casa amata, / […] tutta sentii dal cuore segreto l’anima alzarsi / cupidamente».
Sembra che d’Annunzio abbia voluto apertamente riconoscere nell’incipit le ragioni del suo rapporto con la poesia goethiana. La natura intertestuale è rafforzata, ben più che da semplici riecheggiamenti, come evidenzia il rimando esplicito all’auctoritas dell’epigrafe, che designa l’indissolubilità dei due temi cantati: «Eine Welt zwar bist du, o Rom; doch ohne die Liebe / wäre die Welt nicht die Welt, wäre denn Rom auch nicht Rom» («Tu sei un mondo, o Roma! Ma senza l’amore il mondo non sarebbe il mondo, Roma stessa non sarebbe Roma»).
Nel coevo Piacere, d’Annunzio innesta nell’atmosfera romana del romanzo la suggestione che i versi del poeta tedesco suscitano nei due innamorati. Riportando in traduzione l’elegia terza, nella quale Goethe fa esplicito riferimento al suo rapporto non platonico con Faustina, elegge le Römische Elegien a ‘libro galeotto’.
Una mediazione francese in prosa del testo goethiano gli consente, al momento della stesura del romanzo, di entrare agilmente tra i versi tedeschi, fino a ricavarne calchi precisi. Si tratta delle Poésies de Goethe, tradotte da Henri Blaze e uscite a Parigi presso Fasquelle senza indicazione di data (ma con prefazione del 1843). I riscontri operati sul testo del Blaze, di cui si conserva al Vittoriale un esemplare appartenuto a d’Annunzio, ci permettono di riconoscere con certezza in questa versione in prosa lo strumento sul quale il poeta ha lavorato con una assoluta precisione. Per la traduzione del Blaze, d’Annunzio mostra un’adesione che non userà per le versioni di Shelley e Swinburne, condotte da Rabbe o da Mourey.
I motivi centrali della poesia goethiana, l’amore e Roma, vengono ribaditi dal poeta negli ultimi versi del Congedo delle elegie, testo eccentrico rispetto alla partitura simmetrica della raccolta, divisa in quattro libri di sei componimenti. D’Annunzio riprende quella prima citazione sulla grandezza di Roma e dell’amore, anche se qui la trascrizione poetica offre un’idea di universale grandezza: «Nulla è più grande e sacro. Ha in sé la luce d’un astro. / Non i suoi cieli irraggia soli ma il mondo Roma».
Nel loro assetto definitivo, deciso solo nella operosa primavera del 1892, i testi elegiaci dannunziani vengono in tal modo a circoscriversi tra due rimandi espliciti all’opera di Goethe, giustificando anche formalmente il riferimento, tanto letterariamente connotato, del titolo. Dello stesso tempo, è l’idea di suggellare la raccolta con l’epigrafe goethiana: «Le mando l’epigrafe», scrive il 18 marzo 1892 allo Zanichelli, «che deve essere stampata dopo il frontespizio».
Altrettanto rilevante appare il rapporto di mimesi metrica che la raccolta dannunziana intrattiene con le Elegien, forse proprio al fine di superare l’ancor prepotente influenza del Carducci barbaro, rilevata, tra l’altro, nel modo con cui d’Annunzio innesta su un’eco di Goethe un tocco carducciano. Sulla scia della quinta elegia del poeta tedesco, d’Annunzio scrive: «Talor su le falcate reni il forte / numero de l’esametro contò» (Chimera, Donna Francesca, I, vv. 63-64). Al semplice «Hexameter» dell’originale, scevro di aggettivazione (come pure nella traduzione francese in prosa del Blaze: «hexamètre»), d’Annunzio aggiunge l’aggettivo «forte» stimolato dall’«eroico esametro» delle Ragioni metriche, in cui anche Carducci s’era fatto memore del Goethe: «l’eroico esametro puote / scander la via sacra de le lunate spalle» (Odi barbare). La minima spia linguistica accosta, dunque, i due poeti in una circolarità di echi goethiani.
Le soluzioni poetiche della raccolta dannunziana saranno, tuttavia, altra cosa. Basti qui accennare all’atteggiamento sentimentale, colto attraverso il cromatismo della scrittura. D’Annunzio si pone emotivamente su un piano quasi antitetico rispetto alla poesia di Goethe, risolta quasi sempre in uno sfolgorante plein air, nel godimento di un mondo cui: «Febo, il Dio, / tutte evoca le forme ed i colori». Tale differenza si fissa in frequenze lessicali significative, riassuntivamente identificate nella coppia antitetica «ombra / luce», cui si accompagna il correlativo binomio «ansia / serenità». Termini poetici che caratterizzano, con maggiore o minore intensità, l’andamento delle due raccolte, influenzando l’essenza stessa della poesia. Alla Sonnigkeit goethiana si contrappongono i toni spesso malinconici e ripiegati della poesia di d’Annunzio, secondo la parabola di un’esperienza amorosa che coincide con la stanchezza per una vicenda letterariamente esaurita.
Già a partire dai versi iniziali di Villa Medici, la poesia nasce sui toni cupi di un disagio esistenziale, che si manifesta anche sensorialmente: «Tu non mi dài la pace, o Sole sereno, e l’oblìo / se i cari luoghi io cerchi vago de’ raggi tuoi!». Fanno da rincalzo coevi passi di lettere a Barbara: «Che agitazioni profonde mi dà questo sole». Il sentimento che vi domina si declina in rapporto all’ansietà, al rimpianto, al tremore di fronte alle palpitazioni amorose, alle mutazioni stagionali. D’Annunzio si riconosce, misurando il proprio Io con il mondo esterno, in una predisposizione tutta intimistica. I rapporti nascosti e simbolici tra le cose, come scrive Guy Tosi, affiorano insieme all’interesse per l’Amiel del Journal intime: «Lorsqu’en 1888, dans un article de critique d’art intitulé I paesisti […] d’Annunzio parle de “penetrazione dell’anima umana nell’anima delle cose”, de “comprensione simpatica delle cose naturali”, il a déjà lu Amiel qui évoque son propre effort pour “saisir l’âme des choses”, sentir la vie “par le dedans” et la “reproduire sympathiquement”» (Tosi 1976, p. 276).
Gli studi critici hanno sottolineato la presenza nella poesia elegiaca dannunziana di un alternarsi continuo di espressioni passionali e di ripiegamenti malinconici. Croce riconosceva che «se qualcosa di dolce si sente in lui, è stanchezza e tristezza di amore esaurito […] come specialmente nel Poema paradisiaco e nelle Elegie romane». Borgese coglieva soprattutto la «tenebrosa immobilità» della poesia. Gargiulo sottolineava il motivo angoscioso della stanchezza, mentre Palmieri chiariva che «l’amore […] ondeggia tra l’entusiasmo e l’abbattimento, l’abbandono e la ribellione». Il commento di Praz e Gerra insisteva sull’analisi di una «sintesi poetica della storia d’amore con Barbara, dall’incanto dei primi mesi alla inevitabile fine». Nel più recente commento alle elegie, Niva Lorenzini si soffermava sugli elementi formali della raccolta, sottolineandone la natura di testo composito, che «rende complessa la decodifica»; mentre precisava che si rende necessario «rimuovere l’interpretazione piuttosto rigida che ne fa un ideale punto di passaggio e congiungimento tra raffinatezza espressiva ed estenuata musicalità».
Serbatoio di varie esperienze poetiche, per la sua struttura e per l’alto grado di referenzialità letteraria, la raccolta si offre come testo comprensivo di alcuni modelli codificati. Liber elegiaco, che si intitola a Goethe, ma che rimanda, per certa tematica del ricordo e della nostalgia per Roma, all’Ovidio dei Tristia. Canzoniere di una stagione sentimentale, con un componimento proemiale, Il vespro (canonicamente non primo in senso cronologico), in cui si fissano i punti spazio temporali della vicenda. Ma non solo. Nel testo che apre la raccolta, il poeta pare condurre una riflessione a ritroso, sebbene non del tutto esplicita. Affiora l’idea del «sogno», quasi tema conduttore della silloge, ma con contorni simbolicamente «fallaci»; mentre il riferimento alla «Chimera», che promette «beni ignorati», squarcia il velo sulla sua terribile «follia». La riflessione è proiettata nel passato, il tempo verbale si fa assoluto e, unico caso nel libro, si ascrive a coniugazioni remote: «partii, sentii, m’apparve».
Nel testo conclusivo, d’Annunzio chiude la raccolta nel segno di una Ringkomposition, in cui si celebra la sacralità di Roma, sogno del poeta lontano. Il «van rimpianto» dell’esule ricorda il petrarchesco «van dolore», e allude a motivi, tutti giocati sul piano letterario: alla vanità di un tutto, destinato alla inesorabile caducità e alla sua risoluzione in «cenere fredda»; ma forse il «van rimpianto» rinvia anche all’idea di una reductio della poesia, che riconosce nel «verso vano» l’incapacità a legittimarsi per sé. Sebbene non lontano, il tempo assoluto dell’esperienza poetica, celebrata nella formula estetizzante del motto celebre («il Verso è Tutto»), si stava dileguando nei meandri nebbiosi dei percorsi paradisiaci. La poesia, non più dantescamente sentita come proiezione del «libro della memoria», diventa invece veicolo di qualche piccolo frammento dell’anima, così come suggerisce la riflessione dell’explicit: «Sol chiusi in te, o Libro, dell’anima mia qualche parte».
Da un iniziale insieme di cellule poetiche, un liber fragmentorum che aspetta una sua organica disposizione (in una prima stesura autografa, una parte del Sogno di un mattino di primavera si intitolava «Frammento»), d’Annunzio costruisce il suo canzoniere, raggruppando i testi per ordine tematico e non cronologico, venendo così a formare una storia dell’Io in quattro tempi, letterariamente sviluppata lungo l’asse sentimentale: dall’amore per Barbara, al suo spegnersi, attraverso il recupero del tempo della memoria (privata o letteraria).
La volontà di simmetria tematica della raccolta costrinse d’Annunzio a forzature nella sistemazione dei testi, che spesso tradiscono i loro stretti rapporti cronologici, esibendo parentele lessicali e formali, anche se non spaziali. Non sarà difficile cogliere, infatti, l’eccentricità, rispetto alla sua collocazione nel Libro primo, di un testo come Sera su i colli d’Alba, cronologicamente più tardo rispetto agli altri componimenti (1890). La Sera albana si appaia tematicamente e formalmente a un testo come La sera mistica (1889), che infatti le è temporalmente più vicino, ma soprattutto, come il primo, parla di ripiegamenti sentimentali, di pia solitudo, di tensioni paradisiache. Come non riconoscere nella stessa Sera su i colli d’Alba anticipazioni francescane che troveremo nella religiosità dell’alcionia Sera fiesolana? Gli echi sono suggestivi: «torme d’olivi, e voi con braccia protese alla sera, / bianche nel bianco lume, religiose».
Dal punto di vista strutturale, si possono riconoscere nella raccolta tre larghe campate, rette da testi di sostegno come: Villa Medici, Villa Chigi e Nella Certosa di San Martino. Sono i componimenti più articolati ed estesi della raccolta, suddivisi in sezioni (i primi due), mentre l’ultimo si svolge in un unico andamento ampio. Vi si riassume, colta in momenti diversi, la storia del libro: l’amore per Barbara, il suo spegnersi e il conseguente superamento. Villa Medici, prima elegia composta, presenta una situazione amorosa speculare a quella di Villa Chigi, luoghi dell’amore e dell’«odio», componimenti dove lo spunto biografico funge da élan alle affabulazioni poetiche. La specularità di alcuni elementi tradisce una scrittura sorvegliatamente letteraria, forzante spesso il dato reale. Le situazioni si sovrappongono: negli itinerari labirintici dei giardini i due amanti si congiungono e si allontanano. Al sommo di una scalinata, Barbara offre la sua bocca all’amante (Villa Medici); mentre, simbolicamente, la vicenda amorosa si consuma in un silenzio di morte, mentre gli amanti scendono una scala «umida, angusta, dove l’ombra parea di gelo» (Villa Chigi). Le mani si univano in un contatto d’anime allora, mentre ora la mano è pallida e aggrappata al muro, «morta». Il paesaggio, umanizzato in entrambi i testi, vive la gioia degli amanti: «ridono» le fontane d’un «riso inestinguibile»; «gemeranno» poi, mentre Barbara, in un crescendo di immedesimazione panica, soffrirà delle ferite inferte al tronco dalla scure.
Nell’acceso simbolismo di una macabra raffigurazione, boccheggia Barbara nel lago del proprio sangue, vittima di un sogno allucinato e di un desiderio di espiazione, che si concluderà letterariamente nell’atto finale del Trionfo della morte. La donna paradisiaca, immortalata tra la raffigurazione di una dea e di una madonna (nei versi finali di Villa Medici sono evidenti suggestioni dell’iconografia religiosa), si mescola alle funeree ossessioni del testo chigiano, che risente della scrittura ravvicinata dell’Invincibile.
La descrizione dell’ultimo incontro dei due amanti Nella Certosa di San Martino, è in realtà un pretesto per parlare d’altro: del ripiegamento del proprio Io e del colloquio che il poeta intrattiene con i suoi «sogni», nelle forme di una scrittura franta, punteggiata, come sarà quella paradisiaca. Nella «vacuità, tristezza, immobile tedio» si dipanano i luoghi della poesia, che si perde nel senso della vanitas e della Morte: «E, reclinando il capo, non altro sentii che l’interna / vacuità fra il rombo della tua fuga, o Vita».
Il libro quarto è dunque la continuazione di certi solipsismi già accostati nella sezione terza, luogo del paesaggio come condizione dell’anima, in cui Barbara esce di scena. È la sezione della memoria, dove la presenza di Barbara è possibile solo per rimandi interni, che hanno la funzione di continuare idealmente il discorso della raccolta, ma con altro segno. Il libro prosegue come autocitazione: la poesia esiste in quanto rimanda a se stessa. Composti e assemblati negli ultimi mesi, con il volume già nei torchi, i testi finali ripropongono frammenti di poesia già scritta. La seconda parte della poesia Nel bosco I è tutta riscritta sul fluire del ricordo: ora la poesia di Barbara non esiste più, se non come affabulazione memoriale; la donna è ormai «Ombra» e la morte non è più «una favola». Accade così che i testi che hanno ancora come argomento centrale la figura di Barbara, anche se in veste di vittima sacrificale (Il voto, In un mattino di primavera, Il meriggio, tutti della primavera del 1892), vengano posti nel Libro secondo, interamente dedicato ai toni macabri e cruenti di una simbologia amorosa, quanto mai letteraria. La sezione quarta verte anche sull’identificazione dell’autore con l’artifex: l’alter ego non è più Goethe, il poeta della Sonnigkeit classica, ma Ovidio, il poeta mesto e nostalgico di Roma.
Sono i ripensamenti, i tremori, i timori di una poesia che si esprime in «une crise psychologique, morale, intellectuelle, artistique» sebbene – precisa Guy Tosi – «abondamment nourrie de lectures» (Tosi 1976, p. 224). Crisi esistenziale, dunque, ma anche crisi letteraria. Sono di certo le letture dei parnassiani e dei simbolisti che offrono alla poesia dannunziana di quel momento i toni del mistero, del sogno, del paesaggio, sentito come stato dell’animo. Ma non si dimentichi l’influenza schopenhaueriana, diretta e mediata, che, a quest’altezza, è ormai familiare a d’Annunzio. Se ne sono colti messaggi evidenti Nella Certosa di San Martino, dove il poeta si abbandona ad una privata Erlösung, rifugiandosi nel cerchio mistico-estetico dell’Arte, dopo essersi simbolicamente liberato (attraverso l’atto sacrificale) della schiavitù dell’Amore.
Nell’agosto del 1892, licenziato da poco il libro elegiaco, d’Annunzio avrebbe scritto sulla «Tribuna»: «Noi camminiamo di nuovo, io penso, verso le vette mistiche. Avendo le radici nelle profonde viscere della vita, l’arte espanderà la sua nuova fioritura, originale e suprema, in un’atmosfera di sogno». Di questa forma onirica si erano già vestite le elegie, attraverso una foresta di simboli, per dirla con Baudelaire, o lungo una linea sinestetica, che percorre tutta quanta la poesia: le cose «bevono luce» e «parlano amore», i sogni «si alzano». Il mondo diviene apparenza: «parere» è termine su cui si coagula quasi ogni forma sensitiva, verbo chiave che indica, ma stravolgendola, la percezione diretta della realtà.
Un «riso inestinguibile», di omerica memoria, esce dalle bocche delle fontane e solo marginalmente da quella di Barbara, per correre, come motivo conduttore, attraverso tutto il primo libro. Un’ombra cupa e funerea sorvola i versi del secondo libro, già luogo della memoria negativa, con un desiderio di distacco emotivo; si osservino gli attacchi: «Era il ritorno», «Ella era meco», «Ella era innanzi», «Discendevamo il colle», «Era il mattino», «Era un silenzio orrendo». È invece solo un’ombra lieve ad aleggiare sulle descrizioni della terza sezione, che si apre con La sera mistica e ritorna ai tempi pacati del presente. Il colloquio, quasi adrianeo, del poeta con la propria anima, muta qui il segno, indicando nell’«oblìo» del Lete l’approdo finalmente riconosciuto.
Non a caso, d’Annunzio prenderà dal Carducci barbaro di Mors l’idea del «rombo» della morte, da opporsi all’idea della fine come «favola», sempre di ispirazione carducciana. Nel primo testo del dittico Nel bosco, d’Annunzio, infatti, rievoca nostalgicamente i tempi in cui «la morte parveci una favola», così come faceva Carducci nella barbara Saluto d’autunno: «Lontana favola / per noi la morte!». E da Schopenhauer, mediatori il Conti della Beata riva e l’Amiel dei Fragments d’un journal intime (pubblicato in Francia nel 1883), d’Annunzio impara un nuovo modo di guardare alla realtà, con occhi partecipi.
Subentra, al contempo, anche quel senso di pessimismo, che travolge tutte le cose: l’amore si trasforma necessariamente in disgusto e compare la «caligine» dell’errore. Si delinea un disorientamento intellettuale e morale, ma si profila anche il preludio del riconoscimento assoluto della Wille, della volontà di marca schopenhaueriana, che, dopo l’assolutizzazione pessimistica del Trionfo della morte, recupererà gli aspetti squisitamente estetici di tale pensiero filosofico. Tuttavia, la riproposizione del mito è ora inficiata di pessimismo: gli dei, abitatori degli spazi del ‘moderno’ dimenticano i luoghi della mitica terra. Si affaccia il simbolo dell’aquila, direttamente mutuato da un testo di Shelley (anche se già carducciano), ma forse volutamente teso verso i vertiginosi spazi nietzschiani.
Se dunque si vorrà riconoscere un percorso nel libro, sarà necessario seguire quello del simbolismo onirico, elemento tutto letterario, che porta dal meditato «sogno fallace», al sogno che fa nascere «ingannevoli forme»; dai sogni che si sciolgono «in putredine» alle visioni allontanate («lungi, o sogni, dall’anima nostra»). E riconoscere quell’ultimo grande momento dell’elegia napoletana, in cui il sogno diviene espressione dell’Io vissuto intimamente, egotisticamente, nella ricerca dell’Assoluto: «Rompi il tuo cerchio al fine! […] – Non uscirà già mai da me – io pensava – il mio sogno, / poi che non basta il cielo, poi che non basta il mondo / a contenerlo». Versi significativamente parafrasati nel Trionfo della morte: «Essendo vano ogni sforzo per escire dalla solitudine del proprio io, bisogna a poco a poco rompere tutti quei vincoli che ancora ci legano alla vita comune […]. Ristretto per tal modo il cerchio della propria esistenza materiale, bisogna adoperarsi con tutte le forze a rendere […] vasto ed intenso il mondo interiore».
Da quel primo, lontano spunto biografico, l’amore per Barbara, il percorso e l’approdo della raccolta elegiaca si fanno sempre più complessi e distanti. Quale fosse stata la vicenda biografica con la donna amata, nel corso dei lunghi anni elegiaci, appare dato esterno e quasi insignificante. La reale vicenda amorosa probabilmente non corrisponde al percorso poetico della raccolta. Il liber serve a d’Annunzio per raccontare di sé, allargandosi sul suo «mondo interiore», sprofondando nel suo magico «cerchio». In un momento cruciale per la sua esperienza letteraria, d’Annunzio compone una poesia, alimentata (secondo accenti schopenhaueriani) di pessimismi sussurrati, ma pronta ad accogliere (tra breve) la fase nuova e affascinante che troverà, nel pessimismo tragico alla Nietzsche, i nuovi modi del canto.
Bibliografia essenziale
Edizioni apparse in vita
Gabriele d’Annunzio, Elegìe Romane, Bologna, Zanichelli, 1892.
Gabriele d’Annunzio, Opere di Gabriele d’Annunzio. Le Elegie Romane, Milano, Editrice Lombarda, 1905.
Gabriele d’Annunzio, Le Elegie Romane, Milano, Treves, 1911.
Gabriele d’Annunzio, Elegie Romane, Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio, Verona, Mondadori, 1929.
Gabriele d’Annunzio, Elegie Romane, tradotte in latino da Annibale Tenneroni, Milano, Treves, 1897 (edizione parziale).
Gabriele d’Annunzio, Elegiae Romanae Gabrielis d’Annunzio latinis versibus expressae, tradotte da Cesare De Titta, Fidentia Fruemur. Anxani in Aedibus R. Carabba, 1900.
Edizioni postume
Gabriele d’Annunzio, Femmine e Muse. vol. 2, Il Vittoriale degli Italiani, 1939.
Gabriele D’Annunzio, Elegie romane, ed. critica a cura di Maria Giovanna Sanjust, Milano, Mondadori, 2001.
Edizioni commentate
Gabriele d’Annunzio, Commento alle poesie liriche di Gabriele d’Annunzio, a cura di Ferruccio Bernini, Bologna, Zanichelli, 1928.
Gabriele d’Annunzio, Il fiore della lirica, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1935.
Gabriele d’Annunzio, Poesie, Teatro, Prose, a cura di Mario Praz e Ferdinando Gerra, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966.
Gabriele d’Annunzio, Crestomazia della lirica. Elegie romane, Poema Paradisiaco, Odi navali, a cura di Enzo Palmieri, Bologna, Zanichelli, 1959.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, ed. diretta da Luciano Anceschi, vol. I, a cura di Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982.
Gabriele d’Annunzio, Poesie, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Garzanti, 1978, 19823.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore, a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995.
Gabriele d’Annunzio, Tutte le poesie, vol. I, a cura di Gianni Oliva, Roma, Newton Compton, 1995.
Bibliografia secondaria
Henri Frédéric Amiel, Fragments d’un journal intime, Torino, Einaudi, 1978-1981, voll. 4.
Giorgio Bàrberi Squarotti, Invito alla lettura di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mursia, 1982.
Sergio Cigada, Flaubert, Verlaine, e la formazione poetica di D’Annunzio, «Rivista di letterature moderne comparate», marzo 1959.
Angelo Conti, La beata riva, a cura di Pietro Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000.
Alida D’aquino, intr. a Concordanze dell’«Isottèo» e delle «Elegie romane» di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1990.
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Maria Rosa Giacon, La degradazione del simbolo: il giglio in Dante Gabriele Rossetti e in Gabriele d’Annunzio, «Atti e memorie dell’Accademia Patavina di scienze, lettere e arti», XCII, 1980
Maria Rosa Giacon, L’«imagination re-créatrice» e l’«au-delà nuageux de toutes les choses du nord» nel paesaggio dannunziano, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993.
Ernesto Guidorizzi, D’Annunzio e Goethe, le «Elegie romane», in D’Annunzio e il classicismo, Atti del convegno di studio di Gardone Riviera, in «Quaderni del Vittoriale, 25, 1980.
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