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Bene, Carmelo

di Alfredo Sgroi, Enciclopedia dannunziana

Una vocazione dannunziana

Non è dato conoscere con esattezza il momento in cui Carmelo Bene decide di portare in scena Gabriele d’Annunzio. Certamente, ne frequenta l’opera poetica a lungo e con passione costante fin dagli anni della giovinezza, per arrivare infine all’impegnativa affermazione secondo cui il poeta pescarese è stato il più grande fra tutti i poeti italiani: «Se si eccettua Campana, d’Annunzio è il miglior poeta italiano del ‘900, e solo i miei mezzi spaventosi s’adattano alle sue perle» (Intervista a Rodolfo Di Giammarco, «La Repubblica», 25 novembre 1999). Inoltre, già negli anni Sessanta si scontra con il Pasolini acerrimo nemico del Vate, strenuamente difeso dall’attore che fin d’allora non manca di avviare una riflessione sul tema della morte che molte tangenze ha, ad esempio, con Il trionfo della morte (Bene-Dotto 2006, p. 177). Opera, quest’ultima, che non sarà direttamente portata in scena da Carmelo Bene, ma dalla quale attinge molte suggestioni, comprese le riflessioni sull’arte wagneriana.
Quel che è certo, almeno secondo la testimonianza di Luisa Viglietti, compagna e sodale dell’attore salentino nei suoi ultimi anni di vita, è che alla fine del 1998 Bene decide dopo molti indugi di riprendere un «vecchio progetto» (Viglietti 2020, p. 146) di lettura di
Le martyre de Saint Sébastien. Non si sa esattamente quando tale progetto si sia formato nella mente dell’attore. Probabilmente subito dopo la realizzazione del Pinocchio al Teatro dell’Angelo di Roma (10 novembre 1998), ma sicuramente prima della maturazione della scelta alternativa, concretizzatasi con la rappresentazione di La figlia di Iorio. Ad anticipare questa stessa messa in scena, l’attore dirige un turbolento seminario sul verso dannunziano, organizzato al Teatro Valle (Bene- Dotto 2006, p. 403). Quindi avvia un frenetico lavoro di intarsio, condensazione, tagli e suture, con l’obiettivo di ridurre i tre atti dell’opera dannunziana in «una lirica a tre voci» (Viglietti 2020, p. 158). Alle spalle, Bene ha una lunga carriera dipanata lungo un tracciato evolutivo che nell’estrema stagione creativa, quella cioè in cui si colloca proprio l’operazione dannunziana, ha il punto di condensazione e precipitazione. Dato, questo, imprescindibile per la comprensione del senso profondo della performance dannunziana realizzata praticamente in limine mortis.

Una difficile messa in scena

Sono state tante le difficoltà che l’artista si trova ad affrontare in questi frangenti. Anzitutto perché la riduzione del testo, realizzata nell’arco di poche ore, inizialmente prevedeva l’intervento di un’interprete femminile a cui affidare la parte di Mila di Codra. Infatti, originariamente l’attore pensa ad una messa in scena imperniata almeno su due voci: la sua (Aligi) e quella di Mila. Insomma, due co-protagonisti da collocare al centro della scena, in rilievo rispetto al consueto fondale nero. Comincia così una febbrile attività di casting: vengono convocate diverse attrici famose, ma nessuna riesce a convincere Bene, insoddisfatto dalla loro incapacità di realizzare quello straniamento che l’attore pretende. Frattanto comincia a provare lo spettacolo a Otranto, nella sua abitazione. E si avvale, riferisce ancora Luisa Viglietti, di Andrea Macchia e Gaetano Giani Luporini, per la parte tecnica e musicale. Giani Luporini, infatti, compone la musica; i cori e le basi vengono registrati a Lucca.
Per risolvere i problemi della messa in scena del testo dannunziano Carmelo Bene decide inoltre, in vista di un possibile
casting, di svolgere un paio di seminari aperti ad aspiranti attori ed attrici. Il primo vede la partecipazione di alcune attrici, il secondo si tiene al Teatro dell’Angelo ed ha come argomento la prosodia e la metrica della poesia dannunziana. Alla fine, però, la situazione non si sblocca. Allora, scartate tutte le possibilità, Bene decide con una forte dose di temerarietà di scegliere l’unica strada per lui praticabile: interpretare egli stesso Mila, oltre che Aligi. Insomma, l’attore opta per la trasformazione dell’opera corale di d’Annunzio in un recital affidato ad un performer monologante: egli stesso. Convinto che non di un tradimento si tratti, ma di un supremo atto di omaggio alla grandezza dell’arte di d’Annunzio, che egli soltanto può (narcisisticamente) celebrare in modo degno.
Tra il 26 novembre e il primo dicembre del 1999 Carmelo Bene mette dunque in scena, al Teatro dell’Angelo di Roma, il suo «Concerto d’autore» tratto da
La figlia di Iorio, con le musiche di Giani Luporini, le scene di Tiziano Fario, i costumi di Luisa Viglietti. Lo spettacolo viene replicato per sette sere ed è preceduto da un convegno su Il verso dannunziano e il concerto d’autore. Tra i partecipanti, Renzo Tian, Alberto Asor Rosa, Piergiorgio Giacché. La performance dannunziana, preparata con la consueta cura per i dettagli, si inserisce in realtà nel tracciato artistico idealmente iniziato dall’attore nel lontano 1987 a Recanati, con la lettura dei Canti di Leopardi. È allora che egli comincia a sperimentare la sua idea di «teatro senza spettacolo», interamente incentrato cioè sulle modulazioni straordinarie della sua voce. Negli anni successivi non mancano in effetti fecondi incontri con altri poeti, da Laforgue a Montale, da Dante a Campana. Ma d’Annunzio ha una collocazione speciale, prepotentemente affiorata sempre più nettamente nel corso tempo, fino all’approdo a La figlia di Iorio, in cui è superata la frammentarietà delle precedenti letture per fare spazio ad una performance compatta e unitaria: ad una lettura personale, cioè, in cui l’attore concentra in una sintesi i versi della tragedia dannunziana nei quali è tracciata la parabola tragica di Aligi, Mila e Lazaro, sopprimendo tutte le parti considerate secondarie (le battute dei personaggi di contorno), ed impostando lo spettacolo sul resoconto che Aligi fa delle vicende che lo hanno condotto a ripudiare Vienda e a rifugiarsi con Mila sulla montagna.

Poesia è musica: La figlia di Iorio

Carmelo Bene, convinto che tale sia lo spirito dell’arte dannunziana, decide quindi di declamare i versi della tragedia letteralmente immergendoli nella dimensione musicale. E spingendosi al punto, ricorda Luisa Viglietti, da collocare dei «subwoofers proprio sotto gli spettatori, che così avevano la sensazione di essere completamente avvolti dal suono» (Viglietti 2020, p. 162). Un suono non sovrapposto, ma strettamente intrecciato e organico alla musica verbale creata dall’attore con straordinaria maestria.
Prima della messa in scena viene riprodotto in sala un messaggio registrato con cui, non solo si vietava l’uso di cellulari, ma anche di applaudire. Insomma: la musica in cui il verso dannunziano deve sciogliersi non deve in alcun modo essere disturbata da elementi acustici estranei. Inoltre, il volume degli altoparlanti doveva essere impostato su toni altissimi, in modo da scuotere letteralmente gli spettatori. E il successo è clamoroso: tutte le sere il pubblico si accalca nell’angusto spazio della platea, né mancano spettatori di eccezione, come Roberto Benigni e Nicoletta Braschi.
Di particolare suggestione è anche la scenografia, paradossalmente assente, voluta dall’attore salentino: una cornice scura e tenue, quasi diafana. Ancora una volta, per esaltare l’assoluta centralità della parola del
performer, con le sue modulazioni soffuse, salvo esplodere violentemente nei momenti di particolare tensione drammatica (come quando si evoca il parricidio), per poi tornare ad adagiarsi su tonalità sommesse, prima di annichilirsi nella finale afasia tragica.
Alla vigilia dell’esordio Carmelo Bene rilascia un’importante intervista a «La Repubblica»: una vera e propria dichiarazione di poetica. In essa spiega con dovizia di particolari il carattere peculiare della sua proposta dannunziana, il suo rapporto privilegiato con l’opera del Vate, frutto di una scelta sicuramente controcorrente, tenuto conto che la fortuna scenica del teatro di d’Annunzio soffriva di un innegabile declino. Invece l’attore, confermandosi artista eccentrico e imprevedibile, sempre pronto ad andare controcorrente, rivendica orgogliosamente l’originalità della sua riesumazione della tragedia pastorale di d’Annunzio, condotta azzerandone l’impostazione corale. Il risultato, consapevolmente perseguito, è quello di una soluzione scenica inedita e provocatoria. Perfettamente in linea con ciò che d’Annunzio è stato nella vita e nell’arte: un eccentrico sperimentatore capace di infrangere tutti gli schemi. Proprio come Carmelo Bene, che non a caso ribadisce ancora la sua profonda affinità con il Vate. La confermano, fra l’altro, le numerose letture dannunziane che costellano le turbolente apparizioni televisive dell’attore salentino.
Considerando l’ampiezza del repertorio dannunziano da cui l’attore poteva attingere, semmai è lecito interrogarsi sui motivi che lo hanno indotto a puntare proprio sulla
Figlia di Iorio, piuttosto che sugli altri testi poetici ampiamente frequentati nel corso degli anni. Illuminanti indicazioni, in questo senso, possono essere rintracciate all’interno della stessa intervista di Rodolfo Di Giammarco, nella quale l’attore puntigliosamente indica le ragioni che lo hanno indotto a riproporre sulla scena la tragedia pastorale:

Un compito mostruoso – confida – dopo due anni di ricerca sull’autore, di cui ho preferito i versi più belli della Figlia di Iorio con l’obiettivo di un grande adattamento, un elisir dei cinque atti  concentrati in un’ora di fila. Mi costa uno sforzo inaudito, la prestazione che compio in “omaggio alla morte di un agricoltore”, come s’è definito il copione. Ci vuole tutta la mia voce pulita, il completo possesso di registri e modulazioni, la mia tenacia sdrammaturgica, e la mia piena facoltà d’essere poeta in prima persona, per vaneggiare a dovere un altro poeta (Intervista a Rodolfo Di Giammarco, 25 novembre 1999).

Non di cinque atti è composta la tragedia dannunziana, ma di tre. Al di là  di questa inesattezza, ciò che soprattutto conta è la perentorietà con cui si afferma che nessun altro attore sarebbe stato capace di fare vibrare le corde profonde della poesia dannunziana, per limiti tecnici ed estraneità al mondo poetico del pescarese, attingibile esclusivamente da chi, come Bene, sa farsi poeta e delirante dicitore a sua volta. Non basta: anche il pubblico deve essere rigorosamente selezionato, perché le «perle» dannunziane non siano elargite ai porci. Allora, solo a pochi eletti può essere concesso il privilegio di gustare l’opera di d’Annunzio nella sua forma pura, depurata da tutti gli elementi epici; distillata, ridotta a poema. E finalmente presentata in tutta la sua splendida sublimità: «Se ne renderà conto il pubblico dei pochi fortunati presenti. Crocifiggendo l’epos della Figlia di Iorio e riducendo l’intera scrittura a un poema farò vergognare gli ultimi detrattori di d’Annunzio».
Carmelo Bene, in questo senso, ritiene di avere realizzato non una pura e semplice ri-scrittura della tragedia di d’Annunzio, ma di averne esaltato i pregi sondandone i misteri profondi, cogliendo per primo lo spirito profondo di un’opera poetica che i sensi ottusi di una borghesia filistea non possono cogliere. E così rivelare l’incommensurabile valore artistico di un’opera lontanissima dal grigiore prosaico, che in quanto tale è il più efficace antidoto all’eclissi dell’arte moribonda: «Avverto la fine della grazia. L’arte fa schifo, è borghese. Io mi rifugio nel miracolo della
Figlia di Iorio». (Intervista a Rodolfo Di Giammarco, 25 novembre 1999)
E ciò vale in verità non solo per
La Figlia di Iorio, poiché l’attore ripetutamente ribadisce la «qualità vertiginosa, arcana, incomparabile» di altri versi di d’Annunzio. Il quale si erge perciò, nell’ultima stagione creativa dall’attore salentino, al ruolo di punto di riferimento privilegiato nella personale e vigorosa battaglia contro il degrado del teatro e dell’arte nella contemporaneità; battaglia condotta con il medesimo approccio aristocratico, provocatorio, spregiatore della massificazione, a suo tempo prediletto dallo stesso d’Annunzio. Per fare ciò, l’attore salentino ritiene di dover agire in assoluta solitudine, non avendo individuato interlocutori all’altezza, capaci cioè di percepire e portare sulla scena il nucleo poetico dell’opera dannunziana da lui filtrato. Così approda alla scarnificazione assoluta dell’impianto scenico di La Figlia di Iorio; alla totale concentrazione sulle metamorfosi dell’unico interprete, realizzate esclusivamente tramite sorprendenti variazioni timbriche e fonetiche ed esaltate dal ricorso al monologo (Puppa 1990, p. 294).  La parola diventa così il punto di coagulo di tutti gli elementi drammaturgici presenti nel testo di d’Annunzio, nel nome di un «Teatro senza spettacolo» (Giacchè 2022, p. 49).
La versione di Carmelo Bene della tragedia dannunziana è replicata nell’estate del 2000 (il 9 luglio) a Otranto, nell’ambito del «Terra d’Otranto festival», e viene filmata per intero. Al calare della sera, si vede l’attore vestito di nero presentarsi su un palcoscenico
sui generis, in cui si trovano un leggio, un microfono, una lampada per illuminare il testo. Al suo segnale parte una musica cupa, di tono basso. Lo spettacolo, interamente incentrato sulle diverse modulazioni della sua voce, si converte allora in una sinfonia il cui strumento principale è la sua stessa vocalità. Piace a Carmelo Bene, in questo contesto, soprattutto ricreare mimeticamente il vaneggiare del trasognato Aligi. Perché «il grande teatro è vaneggiamento solitario» (Parrini 2014, p. 36); è abbandono all’incanto della poesia che infrange la barriera che separa il sogno dalla realtà; è un riallacciamento alla creazione autenticamente poetica di chi, come d’Annunzio, è stato maestro insuperabile nell’arte di contaminare parole e musica. Perciò, come ha scritto Masolino D’Amico, Carmelo Bene «fu in fondo l’ultimo erede di d’Annunzio: l’unico d’Annunzio possibile, in fondo, di un’età cinica e sospettosa della retorica come la nostra» (D’Amico 2023, p. 15).

Bibliografia essenziale

Bibliografia primaria

Carmelo Bene, Opere, Milano, Bompiani, 1995.
Carmelo Bene,
Intervista, «La Repubblica», 25 novembre 1999.
Carmelo Bene-Giancarlo Dotto,
Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 2006.
Gabriele d’Annunzio,
Tragedie, sogni e misteri, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 2013.
Gabriele d’Annunzio,
Versi d’amore e di gloria, a cura di Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982-1984.

 Bibliografia secondaria

Masolino D’Amico, L’unico d’Annunzio possibile. Dalle cantine alla TV, le sorprese di un mattatore rivoluzionario, «La Stampa», 17 marzo 2002. Riprodotto «Teatro contemporaneo e cinema», 2023, 44, pp. 14-15.
A Carmelo Bene
, a cura di Gioia Costa, Gioia, Roma, Editoria e Spettacolo, 2003.
Piergiorgio, Giacché,
Carmelo Bene. Antropologia della macchina attoriale, Milano, Bompiani, 2007.
Piergiorgio Giacché,
Eugenio Barba e Carmelo Bene, Vite parallele e viaggi perpendicolari, «Teatro e Storia», 2012, 33, pp. 321-332.
Piergiorgio Giacchè,
Nota Bene, Calimera (Lecce), Kurumuny Edizioni, 2022.
Carmelo Bene
. Il teatro del nulla, a cura di Fabrizio Parrini, Firenze, Edizioni Clichy, 2014.
Paolo Puppa,
Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Bari-Roma, Laterza, 1990.
Paolo Puppa,
La voce solitaria. Il monologo d’attore nella scena italiana tra vecchio e nuovo millennio, Roma, Bulzoni, 2011.
Paolo Puppa,
Dario Fo e Carmelo Bene. Due soliloqui opposti e complementari tra un millennio e l’altro, «Italogramma», 2014, vol. III, pp. 19-42.
Carmelo Bene e altre eresie
, a cura di Franco Ungaro, Calimera (Lecce), Kurumuny Edizioni, 2022.
Luisa Viglietti,
Cominciò che era finita, San Giuliano Milanese, Edizioni dell’asino 2020.

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