L’Edizione Nazionale
Se volessimo tradurre in immagine gli studi filologici su Gabriele d’Annunzio, potremmo figurarceli come una sorta di corpo a corpo fra l’autore, volto a costruire il mito di una poesia che fluisce facile come l’acqua, e il filologo puntiglioso, che recupera fogli, appunti, indici e dimostra, laddove i materiali siano sopravvissuti in quantità e qualità sufficienti, che l’arte dannunziana è frutto di fatica, molta fatica, e di studio, molto studio.
Non sempre il detective vince la partita, perché in parecchi casi gli autografi non sono sopravvissuti, o non sono più a disposizione di chi voglia consultarli (ricordiamo che il mercato dei manoscritti dannunziani è stato ed è tuttora vasto e fiorente), e dalla pagina stampata solo per via indiziaria è possibile ipotizzare il percorso genetico seguito del testo.
Forse per questo motivo, quando negli anni ottanta del Novecento venne riavviata l’impresa dell’Edizione Nazionale, il Comitato scientifico presieduto da Dante Isella (composto da Gianfranco Contini, Domenico De Robertis, Franco Gavazzeni, Pietro Gibellini, Emilio Mariano, Pier Vincenzo Mengaldo, Giorgio Petrocchi, Ezio Raimondi ed Egidio Ariosto) decise di aprire l’edizione con Alcyone, ricco di materiali autografi, e l’attuale Comitato (presieduto da Pietro Gibellini e composto da Raffaella Bertazzoli, Nadia Ebani, Maria Teresa Imbriani, Elena Valentina Maiolini, Clelia Martignoni, Pier Vincenzo Mengaldo, Cristina Montagnani, Gianni Oliva, Giorgio Zanetti e Giordano Bruno Guerri) ha stabilito di allestire edizioni – tutte critiche – solo per le opere di cui fossero sopravvissuti i manoscritti. Questo non impedisce, ovviamente, che ottimi studi filologici siano stati dedicati anche ad opere prive di attestazioni autografe: penso per esempio ad alcuni degli Esercizi dannunziani di Ivanos Ciani pubblicati nel 2001.
Rispetto all’Edizione Nazionale fondata nel 1926 sotto la supervisione dell’autore, e inaugurata nel 1927 con Alcyone, la distanza della nuova impresa è davvero siderale: d’Annunzio con la pubblicazione di «tutte le opere», affidata a Mondadori, intendeva erigere un monumento a sé stesso e alla propria poesia, graficamente splendido, grazie alle cure del maestro tipografo Hans Mardersteig, solidamente inchiavardato in sezioni (Versi d’amore e di gloria, Prose di romanzi, Tragedie, misteri e sogni, Prose varie) e affatto immune da ogni prospettiva non solo filologica, ma storica. Le opere si fissano in una sorta di ‘eterno presente’, una ne varietur che non conosce né pentimenti né possibili sviluppi.
Il percorso della nuova filologia dannunziana (per uno sguardo d’assieme si vedano Montagnani, De Lorenzo 2018 e Maiolini 2019) si avvia sul terreno poetico: alle Laudi sono infatti dedicati due fondamentali corsi universitari tenuti a Pavia da Franco Gavazzeni negli anni settanta e i cui risultati sono confluiti in Gavazzeni 1980; agli stessi anni risalgono Isella 1972 e Gibellini 1975, cui segue l’edizione critica di Alcyone, curata da Pietro Gibellini nel 1988. Ancora una volta è il terzo libro delle Laudi ad aprire la nuova Edizione Nazionale e sarà il primo ad essere ripubblicato, dopo la scoperta di nuovo materiale autografo e con il corredo di un importante commento (di Giulia Belletti, Sara Campardo e Enrica Gambin), sempre a cura di Pietro Gibellini. A fianco di Alcyone Maia: Daverio 1983, Daverio, Pinotti 1987, Pinotti 1990; del 2006 l’edizione critica curata da Cristina Montagnani, cui seguono Montagnani 2007 e 2012. Più tarda l’edizione critica di Elettra, curata nel 2017 da Sara Campardo (con il precedente di Gibellini 1975b). Sempre in ambito lirico, ma al di fuori del progetto laudistico, sono state pubblicate nel 2001 le Elegie romane, a cura di Maria Giovanna Sanjust.
Cinque, sino ad ora, i testi teatrali in edizione critica: La figlia di Iorio, a cura di Raffaella Bertazzoli nel 2004 (con il precedente Bertazzoli 1989), La fiaccola sotto il moggio, a cura di Maria Teresa Imbriani nel 2009 (e si veda in precedenza Ciani 1987), Francesca da Rimini, a cura di Elena Maiolini nel 2021 (con il necessario precedente del commento di Pirovano 2018), Sogno d’un mattino di primavera, a cura di Cecilia Gibellini nel 2023 (e si vedano in precedenza Gibellini 1978 e Zanetti 2008-2009) e Fedra, corredata dal commento a cura di Edoardo Ripari nel 2024 (si veda anche Caliaro 1991).
Solo un testo narrativo, finora: Le vergini delle rocce, a cura di Nicola Di Nino nel 2021 (e si vedano anche Gibellini 1995 e Imbriani 2006).
Il problema delle strutture
Lo studio filologico su d’Annunzio, anche a prescindere dalle diverse edizioni, si può articolare su vari livelli: muovendo dal generale al particolare, è possibile concentrare l’attenzione sul problema delle strutture, sia per quanto attiene alla singola opera, sia per una serie di testi in connessione fra loro (Montagnani 2012). Questo secondo è un aspetto ampiamente indagato: l’esempio più noto resta quello delle Laudi, per le quali d’Annunzio aveva previsto una serie di sette (come le Pleiadi), ma arrivò a stento a coprire le prime tre caselle: Maia, Elettra e Alcyone, giacché Meropee Asterope fanno parte di un percorso ormai differente.
Quasi tutta la produzione dannunziana, a dire il vero, doveva essere riposta in una apposita cartella: le quattro tragedie abruzzesi (di cui solo due realizzate, La figlia di Iorio e La fiaccola sotto il moggio); le tre tragedie malatestiane (due quelle realizzate: Francesca da Rimini e Parisina); i quattro Sogni (due realizzati: Sogno di un mattino di primaverae Sogno d’un tramonto d’autunno); i cicli in prosa: quello della Rosa (Il piacere, L’innocente, Trionfo della morte) e i due solo impostati, quello del Giglio (Le vergini delle rocce) e quello del Melograno (Il Fuoco). Un’istanza in fondo positivistica (la memoria corre subito ai grandi cicli dei romanzieri francesi), da cui il decadente d’Annunzio si liberò, forse, solo nella seconda parte della sua vita, ormai rassegnato al fatto che né la vita né la letteratura sopportavano gabbie troppo rigide.
In qualche caso, di edizione in edizione, è possibile seguire lo sviluppo delle strutture all’interno della stessa raccolta; qualche esempio relativo a opere che precedono le Laudi, a partire da Canto novo (Ciani 1982), sia nella sua versione primigenia, apparsa presso Sommaruga nel maggio del 1882, sia, soprattutto, nella redazione pubblicata da Treves nel 1896. Il primo Canto novo, dopo un sonetto di dedica a Elda Zucconi, si apre con un Preludio, cui seguono cinque libri che raccolgono sessantuno componimenti, secondo una distribuzione numerica disomogenea. I due temi, quello amoroso e quello politico, coesistono senza, in realtà, né fondersi né scandirsi in una reale organizzazione interna; unico trait d’union delle due parti, forse, è il panismo, che indica con chiarezza la volontà di andare, nel solco del classicismo, oltre Carducci. Quasi solo metri barbari nei primi due libri, mentre terzo e quarto vedono i sonetti intercalarsi alle forme classiche e il quinto è riservato al solo metro italiano.
Una, blanda, articolazione metrica che verrà del tutto scardinata in occasione del rifacimento del 1896. Rifacimento per ‘arte del levare’, intanto, giacchè i componimenti superstiti sono solo ventitrè, inchiavardati in compenso in una struttura saldissima e simmetrica: due sezioni, Canto del sole (dodici testi) e Canto dell’Ospite (altri dodici, uno dei quali nuovo), con tre elegie, Offerte votive a Venere, Pan e Apollo, che si collocano in apertura, a metà e in chiusa dell’opera. Anche a uno sguardo distratto, tutt’altro che una struttura di tradizione romanza (se ne veda una conferma nella scomparsa dei sonetti); potremmo anzi dire di una grecità esibita, a partire dalla citazione di Pindaro in epigrafe fino ai debiti contratti dalle tre Offerte nei confronti di testi della Antologia palatina. Un libro di saldissima impostazione, dunque, formale e contenutistica, ma senza storia, senza tempo e senza spazio, un museo, o una antologia, in cui si coagulano singoli attimi di perfezione formale, non un canzoniere, men che meno un poema, nonostante la prossimità – cronologica e ideologica – con le Laudi future.
La tradizione italiana parrebbe scorrere, invece, nell’Intermezzo di rime del luglio 1883 (datato 1884), ancora presso il Sommaruga, anch’esso un caso assai interessante di rifacimento strutturale (Ciani 1974); come spesso accade con d’Annunzio, l’apparenza è però ingannevole. Spariscono, è vero, i metri barbari, sostituiti da quelli della nostra tradizione (i sonetti – tali sono infatti anche i sette componimenti intitolati I madrigali –, i versi martelliani del Peccato di maggio – magari più francesi che italiani, comunque romanzi – e infine le ottave di Venere d’acqua dolce), ma il recupero rimane ancorato al livello metrico-formale. Tutte europee sono invece le fonti dell’Intermezzo di rime: il Maupassant dei due poemetti, tutta la galassia dei poeti maudits, Baudelaire in testa, e ancora Flaubert, Zola sparsi a piene mani nel testo.
Sei le sezioni nel 1883: Sonetti di primavera (otto componimenti), Studii di nudo (quattro), Peccato di maggio (un poemetto), Vecchi pastelli (cinque componimenti), I madrigali (sette) e Venere d’acqua dolce (ancora un poemetto): appare evidente che la raccolta nasce dalla volontà di assommare esperienze diverse, più che di costruire ex novo un percorso, anche riutilizzando materiali preesistenti. Ancora suggestioni figurative negli Studii e nei Pastelli, ancora sensualismo panico nelle altre sezioni. Un destino comune unisce Canto novo all’Intermezzo, stampati fianco a fianco (assieme alle Elegie romane) nell’edizione nazionale dell’Opera omnia del 1929 sotto il titolo di Femmine e Muse; anche l’Intermezzo di rime venne infatti profondamente rivisto in occasione della pubblicazione presso Bideri (Napoli 1894). Emerge senz’altro una volontà strutturale ma, a differenza di quanto accade per Canto novo, la realizzazione resta parziale. Il nuovo Intermezzo (così ridotto si presenta il titolo) annovera trentasette testi nuovi rispetto al 1883, che si aggiungono a una parte degli originari, profondamente rivisti, per un totale di cinquantacinque, distribuiti in sezioni che solo in parte corrispondono, come contenuti, a quelle del 1884: un Preludio in terzine cui il poeta affida il compito di scandire le tappe della propria esperienza lirica, da Primo vere sino al Paradisiaco, a seguire Animal triste (tredici sonetti, cinque dei quali già in Sonetti di primavera), Le adultere (dodici sonetti inediti, forse il tratto maggiormente implicato con le esperienze del Paradisiaco), Eleganze (dodici sonetti, in parte corrispondenti a I madrigali, i due poemetti, più due nuovi componimenti in martelliani), Plastice (sei sonetti, quattro dei quali ripresi da Studii di nudo) e infine Verso l’antica gioia (sei sonetti, uno ripreso da Vecchi pastelli, e un Commiato in sestine di endecasillabi e settenari alternati).
Strettamente connesse alle macrostrutture sono anche le operazioni condotte su un singolo testo, le cui tracce concrete, però, si possono cogliere solo in casi rari: esempio principe è quello di Alcyone, di cui sono sopravvissuti undici sommari autografi, che permettono davvero di cogliere (edizione critica di Gibellini e Gavazzeni 1980), si potrebbe dire mese per mese, il farsi del canzoniere, soprattutto nell’estate del 1902. Da Fiesole alla Versilia, dall’inizio dell’estate al suo declinare, in un movimento che prevede inizialmente solo spazio e tempo. Di sommario in sommario, d’Annunzio precisa meglio il suo progetto: inserisce la tensione panica, la dimensione mitica, il rapporto fra Italia e Grecia (e quindi i due diversi tipi di classicismo) e, dopo la conclusione di Maia (il 18 aprile del 1903), trova il modo di sbloccare anche il canzoniere. Il recupero dell’antico in forma naturale non è più possibile, la forma ‘politica’ della rinascita della Roma imperiale è consegnata a Maia, e dunque è solo in maniera ‘sentimentale’ (per usare la terminologia romantica) che l’autore di Alcyone si riaccosta al passato, tramite gli strumenti che la sua cultura gli offre, con nostalgia. La Roma trionfante di Maia, celebrata nei fasti della Sistina, si ripiega in Alcyone in una dimensione elegiaca: la grandezza del passato si è esaurita, i miti hanno ripreso vita sulle pagine del canzoniere, ma sono poi tramontati e, soprattutto, Icaro è caduto.
Sempre procedendo dal più grande al meno grande, la filologia si applica anche, come è ovvio, alla elaborazione manoscritta del singolo testo; anche qui la tipologia è varia, innanzitutto in ragione della limitata disponibilità delle carte. Non per incuria, certo, perché già durante la vita dell’autore ogni autografo dannunziano venne fatto oggetto di un vero culto feticistico: donato, più spesso venduto, talvolta addirittura smembrato. Resta clamorosa la cessione delle carte di Maia a Senatore Borletti, quando il poeta consegnò all’acquirente solo la metà di quanto pattuito e pagato, trattenendo parecchio presso di sé. In questo specifico caso i due fondi sono sopravvissuti entrambi e l’integrazione è possibile – si veda la Nota al testo dell’edizione di Maia –, ma non sempre la fortuna arride al filologo.
I manoscritti
Attualmente, a parte quanto giace in caveaux inaccessibili, gli autografi dannunziani si concentrano in tre poli fondamentali, a partire dagli Archivi del Vittoriale di Gardone Riviera, sotto la tutela dell’omonima Fondazione. Il lavoro di riordino e di catalogazione delle carte custodite al Vittoriale, iniziato negli anni trenta, fu lungo e complesso, e solo nel 1968 si arrivò alla pubblicazione dell’ancora oggi imprescindibile Inventario dei manoscritti di Gabriele d’Annunzio, pubblicato come numero speciale (XXXVI-XXXVII) dei «Quaderni dannunziani», con aggiornamenti periodici sulla rivista della Fondazione gardonese; a questo, nel 1976, venne ad affiancarsi il Catalogo delle lettere di Gabriele d’Annunzio al Vittoriale («Quaderni del Vittoriale» 42-43).La seconda, importantissima, sede di conservazione degli autografi è la Biblioteca Nazionale di Roma; in questo caso lo sviluppo del fondo è avvenuto per tappe successive, a partire dal 1942. Momenti fondamentali sono stati l’acquisto nei primi anni settanta di vari materiali relativi all’impresa fiumana posseduti da Ferdinando Gerra, che sono andati a costituire la Raccolta Fondo Fiumano Gerra. Dopo la metà degli anni settanta, la Biblioteca ha acquisito sul mercato antiquario importanti manoscritti, fra cui gli autografi della Fiaccola sotto il moggio e della Figlia di Iorio. L’incremento più cospicuo si è realizzato del 1997, quando la Biblioteca ha comprato all’asta l’importante Fondo Gentili, aperto alla consultazione pubblica nel 1999. Resta senza dubbio complessa la ricognizione di questa vasta messe di materiali, anche se resa più agevole dall’allestimento di un catalogo informatico (A.R.I.EL.) che guida lo studioso fra gli scaffali virtuali della biblioteca.>Da non trascurare, seppure di dimensioni minori, è poi il fondo custodito presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, che conserva, assieme ad altro, i materiali già di proprietà di Eleonora Duse, fra cui gli autografi finora sconosciuti di due liriche di Alcyone.
Il lavoro sul testo
Le dieci edizioni critiche sinora approntate – e i molti saggi che le hanno accompagnate – permettono di individuare con sufficiente chiarezza come, in linea di massima, lavorava d’Annunzio. La sua prima attività, senza dubbio, è quella di studio e di documentazione: anche quando, apparentemente, parte da un dato di realtà, che sia l’estate versiliese di Alcyone piuttosto che il viaggio in Grecia della prima parte di Maia, l’elemento autobiografico non è passibile di trasfigurazione poetica diretta, ma deve passare attraverso una serie di filtri. Il primo, la cui importanza non sarà mai abbastanza sottolineata, è quello dei Taccuini, pubblicati in due serie nel 1965 (da Egidio Bianchetti e Roberto Forcella) e nel 1976 (a cura di Enrica Bianchetti): su piccoli quadernini rettangolari lo scrittore annota quanto vede, quanto colpisce la sua immaginazione, ma subito intercala a questi spunti riferimenti letterari, citazioni, rimandi a testi altrui, insomma prefigura, seppure in maniera ancora scheletrica, quale sarà lo sviluppo del testo. O quale potrebbe essere, perché non tutto il materiale annotato confluisce in opere realizzate e, per converso, molti taccuini non sono stati conservati, perché distrutti, dispersi o donati. La filologia dannunziana si è a lungo interrogata su questi materiali, sul fatto di considerarli o meno come facenti parte della compagine testuale; le decisioni non sono state unanimi, ma l’atteggiamento oggi più accreditato pare quello di considerarli materiali genetici (nel senso della critique génétiquefrancese), che fanno parte della preistoria e non della storia dell’opera letteraria. Non è qui il caso di illustrare quali siano, oltre alle Laudi e alle Faville (Martignoni 1975) i testi maggiormente implicati coi Taccuini, ma la lettura delle Introduzioni alle ultime edizioni critiche (penso soprattutto a quella di Cecilia Gibellini al Sogno) documenta ad abundantiam il rilievo che queste «spuntature di impressione immediata» (così Longhi chiamava le sue, forse più immediate, in effetti, di quelle dannunziane) assumono nella genesi di un testo.Altrettanto importante, a mio avviso, è il materiale di studio: d’Annunzio si documenta minuziosamente, assorbe informazioni in maniera onnivora, dalle fonti più disparate. Si tratta di una nozione ampiamente acquisita dalla critica, che oramai da tempo ha superato la prospettiva del ‘plagio’: per d’Annunzio, al di fuori dei libri, non esiste realtà. E questa negazione del mero dato fenomenico, forse, è la vera chiave del suo essere decadente. Inutile, anche in questo caso, ricordare esempi che sono ben noti, come il lavoro sui dizionari, sulle guide turistiche, oltre che, ovviamente, sui testi poetici altrui. Facendo anche qui riferimento alle ultime edizioni critiche, possiamo ricordare il percorso seguito per la Fedra (edizione Ripari), che non è solo un personale confronto con l’archetipo mitico e le sue ricadute sulla modernità, ma comporta la rilettura e la reinterpretazione delle Fedre letterarie, da Euripide a Ovidio, a Seneca, a Racine, a Swinburne: da ognuno il poeta prende qualcosa, molto aggiunge di suo e, come talvolta accade nella grande letteratura, dalla miscela degli ingredienti nasce il capolavoro. O ancora il lavoro di documentazione per la Francesca da Rimini(edizione Maiolini), condotto, oltre che sugli indispensabili materiali danteschi, sui testi dedicati a Ravenna da Corrado Ricci, o su tutta la messe bibliografica suggerita a d’Annunzio da Francesco Novati.
Arrivati al momento della stesura del testo già molto è stato fatto, o quanto meno pensato: il poeta fa preparare una risma di fogli sciolti di cui impiega solo il recto, numerando in genere in alto a destra. Molte carte appaiono oggi quasi in pulito, con minimi interventi correttori inseriti currenti calamo: dalla penna dell’artifex la poesia scorre libera e veloce, come dalla mente di Giove prende vita Minerva. La realtà, ovviamente, è un po’ diversa: d’Annunzio scrive, è vero, piuttosto rapidamente, perché si serve quasi sempre di materiali preesistenti, ma dove la scrittura per qualche motivo si inceppa, dopo qualche tentativo di correzione in loco, il foglio lavorato viene gettato e sostituito con uno nuovo, spesso in pulito o quasi. Abbiamo parecchi esempi di questo modo di lavorare: uno, attinto come sempre dalle ultime edizioni, è quello costituito dalle Vergini delle Rocce (edizione Di Nino), di cui sono sopravvissute, oltre al manoscritto integrale, cinquantadue carte che riportano stesure precedenti rifiutate. E sul verso di questi stessi fogli sono attestati anche appunti, spunti, suggestioni relativi al testo ancora da scrivere. Un esempio noto, ma sempre interessante, è poi quello dei frammenti di Maia (Montagnani 1990): lacerti di carta, spesso stropicciati, con ogni probabilità pietosamente recuperati dal cestino, in cui è possibile cogliere la poesia dannunziana allo stadio nascente, e penetrare in profondità nel laboratorio dello scrittore.
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