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L’ La Le

L’Innocente

di Maria Rosa Giacon, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

L’Innocente, secondo romanzo del ciclo della Rosa, narra di un infanticidio, di un adulterio, dei continui abusi d’un marito fedifrago. È dunque un’analisi “clinica” spietata della vita di coppia, e anche il racconto di una malattia, anzi di più malattie.
Questo spaccato di psicopatologia fu concepito tra alberi in fiore e canti di usignoli nell’«aprile-luglio 1891» presso il Convento di Santa Maria Maggiore a Francavilla, ospite dell’amico pittore Francesco Paolo Michetti, come già accaduto per Il Piacere (scritto nel 1888) e per L’Invincibile (prima stesura, avviata nell’estate ’89 e poi rimasta incompiuta, di quello che diventerà in seguito il Trionfo della morte). Qui d’Annunzio si sarebbe immerso in una «capolavorazione» assai più consistente di quella del Giovanni Episcopo, il breve romanzo dostoevskijano che, suggellato dalla data 21 gennaio 1891, era stato la sola spremitura riuscitagli dopo il «calamitoso» servizio militare e la separazione, sul finire del ’90, dalla moglie Maria Hardouin di Gallese: pochi mesi dopo avrebbe invece intrapreso un racconto dal plot intrigante e precursore di mode da immettersi con successo nel mercato. Sussidio imprescindibile per rintracciare le tappe della stesura è il carteggio con l’amante Barbara Leoni (indicato d’ora in poi come LBL), ora lontana dal poeta ma sua compagna presso il Michetti nell’estate del 1889. E sotto gli occhi «più belli di Roma» alcune schegge della lavorazione sarebbero scorse fin dal mese di marzo. Infatti, nel rievocare all’amante i dintorni francavillesi (LBL, 15, 17, 20 marzo, 2 aprile 1891), d’Annunzio approntava taluni cartoni descrittivi che confluiranno nei capitoli I-III del romanzo. Si è invero prossimi all’atto ufficiale di nascita del 15 aprile: «Il racconto che scrivo è intitolato Tullio Hermil. È pieno di tristezza e di sentimenti rari e profondi». Tuttavia, il primo nucleo della genesi è da ricondursi ad un periodo anteriore, quando sui cuscini di damasco dello stanzone di Via Gregoriana d’Annunzio aveva accennato a Barbara la «tela» di quel «racconto dell’infanticidio [c.d’A.]» che, a stesura ormai in corso, egli le richiamerà a memoria il 19 maggio: «[il Tullio Hermil] è […] il racconto dell’infanticidio… Ti ricordi? Ti accennai la tela, una sera, a cena, nella gran sala di Via Gregoriana […]». Pertanto, già nel tardo autunno-inverno del ’90 il suo pensiero era dominato dalla cellula ideativa dell’assassinio, come anche dimostra il fatto che, mentre la storia di Episcopo, omicida suo malgrado, compariva sulla «Nuova Antologia», egli scrivesse a Emilio Treves di avere per il momento messo da parte L’Invincibile per un altro «libro», Gli Assassini, «quasi pronto» (LAT, 23 febbraio 1891). Di «pronto», in realtà, non c’era proprio nulla, se non l’aspirazione a un possibile ciclo delittuoso in cui, accanto all’Episcopo, «il racconto dell’infanticidio» si collocava a pieno diritto. Quanto a quest’ultimo, a maggio il tracciato compositivo appare ancora in fieri, essendo l’opera definita «racconto», non «romanzo». Per la verità in quei giorni l’autore sta sperimentando tutta la complessità della nuova elaborazione: il Tullio Hermil non solo gli si è allungato di sotto la penna, ma anche risulta di «penosissima esecuzione» (LBL, 19 maggio). Con ogni probabilità la difficoltà maggiore riguardava non tanto l’inventio dei materiali, quanto la dispositio degli eventi e la regia delle dramatis personae. Nel novembre del ’93 d’Annunzio avrebbe scritto a Georges Hérelle che L’Innocente «rappresenta un solo fatto centrale [c.d’A.], importantissimo, intorno a cui si aggruppano i fatti minori in relazione diretta con quello» (Cimini 2004, p. 147), ma nel maggio del ’91 il problema consisteva appunto nel come aggrupparli. Presto, tuttavia, si palesa una svolta decisiva, com’è vero che il 10 giugno d’Annunzio è ormai in grado di comunicare alla Leoni il titolo definitivo dell’opera e la diversa struttura da essa assunta: «[…] la novella intitolata Tullio Hermil è divenuta […] un romanzo e […] sono quasi alla fine […] si intitolerà L’Innocente». Dalla lettera del 16 giugno si evince che la «fine» in realtà è lontana, ma che le difficoltà d’aggruppamento sono state superate: la stesura è arrivata al capitolo IX, l’ultimo della complessa sequenza dedicata, a partire dal VII, alla vicenda di Tullio e la moglie Giuliana nell’hortus conclusus di Villalilla. Infatti, con premessa nelle lettere del 6 maggio e del 6 giugno riguardanti un «melico» usignolo, d’Annunzio ora scrive a Barbara di aver composto «tre pagine […] vivissime» sul canto di «un usignuolo [c.d’A.]», la cui descrizione costituisce la chiusa del capitolo IX. Inoltre egli rammenta alcuni luoghi rintracciabili nei capitoli VII e VIII: il «giardino pieno di alberi di lillà», la predilezione di Giuliana per lo Chablis e le «Molte piccole grazie» che da Barbara si trasferiranno alla moglie di Hermil. In queste pagine è racchiuso il «fatto centrale»: Tullio, riaccesosi d’amore per Giuliana e da lei corrisposto, s’illude d’avere la felicità a portata di mano; tanto più atroce, allora, sarà la scoperta che la donna reca in sé un frutto adulterino. A tal punto, il racconto può correre direttamente allo scioglimento finale, ossia all’uccisione dell’innocente Raimondo: «Vado rapidamente alla catastrofe», scriverà il 18 giugno. La lettera del 25 successivo rinvia al complesso dei capitoli X-XV, cui ben si attaglia il commento «Ho fatto strazio di Giuliana e dell’amore e di tutte le cose che sembrano pure e belle». Tra giugno e luglio, pertanto, il romanzo può crescere ormai senza intoppi. Le ultime tracce sicure della stesura sono quelle del 12 luglio, in cui Gabriele dà consigli a Barbara sofferente d’anemia servendosi delle prescrizioni messe in bocca al dottor Vebesti per l’anemia di Giuliana (XXXIII), e del 16 luglio, quando egli afferma di aver assistito in compagnia di Michetti a una cerimonia battesimale, riconducendoci alla materia del XXXVIII che contiene la descrizione del battesimo di Raimondo. Il blocco dei capitoli XXXIX-LI, con al centro l’infanticidio, dovrebbe quindi essere stato composto dal 16 luglio in poi. Infine, dall’accompagnatoria del manoscritto spedito a Emilio Treves il 5 agosto (LAT) si apprende che d’Annunzio, a seguito d’uno studio dal vero, avrebbe apportato un’aggiunta sostanziosa alla parte finale del romanzo, fra l’altro rimaneggiando la cronaca dell’agonia di Raimondo sulla base di un’esperienza reale (Hérelle 1984). Pertanto, benché il 14 luglio avesse annunciato al Treves che il romanzo era ormai compiuto, la stesura doveva esser giunta a ridosso dell’invio del manoscritto.
La vicenda editoriale de L’Innocente fu dapprima travagliata. Trovandolo troppo scabroso, Treves si rifiuta di pubblicare L’Innocente inoltratogli in tutt’uno con l’Episcopo per un’uscita congiunta. Dopo questo diniego inaspettato e quello dello stesso Cesare Zanichelli, d’Annunzio scende a Napoli, dove, faute de mieux, il romanzo comparirà in edizione pre-originale sul «Corriere» partenopeo (10 dicembre 1891-8 febbraio 1892). Ricevuto dal Treves un altro secco no all’edizione in volume, d’Annunzio tratta la pubblicazione dell’Episcopo con Luigi Pierro e quella de L’Innocente con Ferdinando Bideri, presso il quale la princeps uscirà nell’aprile del ’92. Il romanzo, però, non incontra il successo previsto, tanto che nel 1895 ne rimangono ancora 1000 copie invendute: sarà Treves a rilevarle subentrando a Bideri (Gerra 1976, Salierno 1987). A comprendere il mutato orientamento dell’editore, v’è da ricordare che nei tre anni dalla pubblicazione bideriana la fama de L’Innocente si era diffusa all’estero, a partire da quando, nel ’93, presso il prestigioso Calmann-Lévy, compariva L’Innocente francese: l’Intrus, notabile fatica di Georges Hérelle, un erudito dagli interessi ad ampio spettro che aveva scoperto il romanzo sul «Corriere di Napoli». Nel ’95, pertanto, Treves pubblica le copie rimanenti come quinta edizione, mentre la sesta comparirà nei tipi dell’editrice milanese nel 1896. Dopo la Treves, L’Innocente verrà edito nel 1929 nell’ambito dell’iniziativa dell’«Istituto Nazionale» per la pubblicazione dell’Opera omnia e, nel 1939, per conto della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. Ancora nel 1939 e sempre sotto gli auspici del Vittoriale, Mondadori promuove l’imponente edizione di Tutte le opere di Gabriele d’Annunzio, ove L’Innocente riapparirà nella sezione, già della Nazionale, Prose di romanzi (1940). Questa edizione, non priva di lapsus e refusi, parte ereditati dalla Nazionale parte aggiuntisi (De Michelis 1978), costituirà la base per le molte successive, tra le quali, in primo luogo, quella comparsa nel 1988 per «i Meridiani» Mondadori.

Contenuto e struttura

Il romanzo si articola in (1) un paratesto, (2) un lungo antefatto e (3) una dettagliata ricostruzione, in LI capitoli, delle circostanze che hanno condotto all’assassinio dell’innocente.

(1) Tullio Hermil, pur ritenendo che il tribunale degli uomini non possa giudicarlo, avverte l’urgenza di confessare un efferato delitto.

(2) Spirito eletto, dunque a tutto legittimato, egli ha costretto la moglie Giuliana a un crudele «patto di fraternità» per godere liberamente di altri amori, in primo luogo della violenta passione per Teresa Raffo. A Roma, primo luogo dell’ambientazione, nulla porrà fine al dominio dei sensi di cui Hermil è schiavo, neppure la pietas per la moglie uscita da un serio intervento ginecologico. Solo dopo la rottura definitiva con Teresa, Tullio vorrà intraprendere una vita diversa, trasferendosi con Giuliana fuori Roma, nella dimora di campagna della famiglia Hermil.

(3) Nella georgica cornice della «Badiola», Tullio accarezza il sogno velleitario d’una rinascita morale, torna a desiderare con prepotenza la legittima compagna e anela a riconquistarla (I-III). Il suo ardore non riesce però a cancellare il sospetto che Giuliana l’abbia tradito con Filippo Arborio, scrittore di romanzi dalla «psicologia acutissima», fra cui Il Segreto, a lei ambiguamente dedicato (IV). Una visita all’edenica dimora di Villalilla corona l’opera di seduzione d’Hermil (VII), ma il successo è turbato da un brutto mancamento di Giuliana. Rientrato alla Badiola, Tullio apprende che la moglie non solo lo ha tradito, ma anche reca in sé il seme di un altro (X). E d’altri non può trattarsi che dell’Arborio, verso il quale Hermil incomincia a covare propositi di mortale vendetta (XIV). Giuliana, determinata al suicidio, invoca l’aiuto di Tullio sì da non suscitare sospetti nei familiari, ma Hermil non si presta al funereo progetto e le concede il perdono… Salvo sottoporla ai più selvaggi amplessi per uccidere la vita che le s’agita in ventre, incurante di porre a repentaglio anche quella dell’infelice (XV-XIX). La gestazione continuerà, tuttavia, fra le cure mediche e l’affetto degli Hermil che, all’oscuro del concepimento illegittimo, sono già tutti innamorati di «Raimondino». Fuggendo da quel tormento, Tullio si reca a Roma alla caccia di Filippo Arborio. Appreso che il rivale è condannato da un morbo insanabile, Tullio non perdona però all’«intruso», verso il quale rivolge implacabili intenti delittuosi (XXV). Nonostante la sua problematica venuta alla luce (XXX-XXXI), il bimbo prospera di giorno in giorno. Presenza assidua al capezzale di Giuliana, viva per miracolo e sofferente di grave anemia (XXXIII), Tullio avverte l’odio per l’«intruso» progressivamente occupare il suo intero orizzonte mentale. Subito dopo il battesimo dell’innocente, egli comincerà a studiare un mezzo per ucciderlo sì che la sua morte sembri «naturale». Un’osservazione allarmata della madre di Tullio (XL), «Oggi, verso sera, ha tossito un poco», aiuta quest’ultimo a congegnare il suo piano: nell’ora della Novena di Natale, sbarazzatosi della nutrice, e ambiguamente complice Giuliana, Hermil esporrà l’infante all’aria gelida (XLIV); l’effetto sarà micidiale, ma prenderà tutto l’aspetto d’una affezione bronchiale. Dopo una penosa agonia, Raimondo muore senza che nessuno sia venuto a conoscenza dell’infanticidio (XLVIII-LI): un delitto perfetto.
La struttura di tale insieme è lineare soltanto all’apparenza. Le parole dell’assassino in limine fabulae postulano la figura d’un narratore autobiografico e ne collocano il racconto a un anno dall’infanticidio. Nell’apertura dell’antefatto si suggeriscono le coordinate spazio-temporali di quella che sarà la storia di Hermil: «Il primo ricordo è questo», alla Badiola, di aprile, durante il settimo anno del matrimonio con Giuliana. Ma questa linea temporale viene subito abbandonata per la rievocazione delle coordinate anteriori al narrato principale: Tullio ripercorre gli ultimi tre anni del suo matrimonio fino a ricongiungersi, nel capitolo I, all’effettivo inizio della vicenda. L’intero romanzo si colloca dunque entro un contenitore analettico ben più sfaccettato di quello del Piacere. Ora infatti l’analessi è ad articolazione multipla: il ‘memorialista’ dal presente (l’attualità del discorso-confessione) muove al passato più vicino come a quello più lontano, e talvolta perfino ricorda di aver ricordato, come avviene nel capitolo L, in cui la descrizione dell’agonia di Raimondo costituisce un allucinato flash-back scavato entro la materia del ricordo principale.
Pur non presentando la complessità de L’Innocente, auto-diegetici memoriali delittuosi di parricidio, infanticidio, uxoricidio, o forme di violenza psicologica causanti il suicidio, proliferavano nell’ambito del naturalismo francese e del realismo russo: dal Maupassant dei «contes du prétoire» al Bourget di André Cornélis e Le Disciple, dal Dostoevskij di Krótkaja (La mite) al Tolstoij di Sonata a Kreutzer e La potenza delle tenebre, in traduzione francese sin dagli anni Ottanta. A questi sicuri apporti l’ideazione dannunziana avrebbe agglutinato quelli della letteratura scientifica positivista con le sue investigazioni, sia oltralpe che da noi, sulla psicopatologia delinquenziale. Un contesto d’indagini che d’Annunzio, con le figure di Wanzer e Ginevra, mostrava di conoscere assai bene già dall’Episcopo e che ora informa in dettaglio il sistema dei personaggi e la loro regia: col ritratto del «genio delinquente» Tullio Hermil (Lombroso 1872 e 1888) e con la dinamica in odore di sado-masochismo interna alla coppia Tullio-Giuliana (Régis 1880), una coppia che, con la tacita complicità di Giuliana, si farà «criminale» (Sighele 1893). Molti tuttavia sono anche i cartoni biografici da cui muovono le personae del romanzo. Come già in Andrea Sperelli, ma con tecnica più raffinata, d’Annunzio trasponeva in Hermil alcuni tratti della sua personalità e struttura mentale. Raro, eletto e pertanto ingiudicabile, Hermil ha certo qualcosa del Raskòl’nikof di Delitto e castigo, ma la sua ideologia aristocratica rammenta da vicino la dannunziana sperimentazione del vivere «inimitabile»; alla pari richiamano la fisionomia dell’autore l’ipercerebralità, la violenza dell’appetito sessuale, la selvaggia gelosia di Tullio – che tainianamente discende da un feroce condottiero spagnolo –, per non dire dell’affinità ‘professionale’ col doppio di Hermil, lo scrittore Filippo Arborio, un altro seduttore ipercerebrale. Inoltre, l’insensibilità di Tullio verso la moglie Giuliana rammenta quella del fedifrago Gabriele verso Donna Maria; Hermil è «malato nella volontà» come un paziente di Théodule Ribot (Ribot 1883), ma è noto che anche d’Annunzio era incapace di «concepire un sacrificio» se riguardante i sensi (Gatti 1956). Giuliana, a sua volta, pur avendo ricevuto molto dalla letteratura decadente e dalla stessa Maria Ferres, adombra Maria Hardouin dei duchi di Gallese, la moglie di d’Annunzio dal fascino sottile, costretta a sororale abnegazione e che, sempre come Giuliana, ha propensioni al suicidio (lo tentava nel giugno del ’90). La focosa Barbara, invece, ha prestato i caratteri della sua personalità impetuosa e volitiva all’insaziabile Teresa Raffo, e però alcuni suoi attributi seduttivi si sono travasati in Giuliana. Infine, come si vede da LBL (18 aprile e 12 luglio), sono di Barbara l’infermità d’ordine ginecologico e la sofferenza anemica di Giuliana, largamente ricreate nell’antefatto e nell’arco dei capitoli XXXI-XXXIII. Era un vecchio amore quello di d’Annunzio per la medicina (Giannantoni 1929), risaliva ancora agli anni romani, quando aveva seguito le lezioni del fisiologo Jacob Moleschott – dedicandogli nell’87 un lungo articolo sulla «Tribuna» (Castelli 1913) – e frequentato le aule di varie specialità. Ma ora, qual fonte migliore dell’amante? Infine, per la caratterizzazione dei personaggi minori quali il laborioso Federico Hermil, dedito al «bene operare», i servi fedeli Calisto e Giovanni di Scòrdio, come per il rasserenante georgismo del romanzo, d’Annunzio attingeva largamente al Tolstoij di Guerra e pace e di Anna Karenina; mentre per il ritratto di Anna, la fiera nutrice di Raimondo (XXXIX), egli traeva ispirazione dalla fotografia d’una popolana ad opera del Michetti (Barilli 1995), anticipando così il colore abruzzese della grande tragedia a venire.

Stile e interpretazioni

«L’Innocente […] appare “il più romanzo” dei romanzi dannunziani» (Gibellini 2023, p. 241): di certo è il più facilmente godibile, per lingua, stile e relativa tenuta del plot. Meglio riuscito, infatti, è qui il bilanciarsi tra le esigenze oggettivizzanti del realismo ottocentesco e le spinte, contrarie, d’un soggetto poetante che, agendo sulla sostanza testuale profonda, mira allo smantellamento del tessuto evenemenziale esterno per la centratura d’un «fuoco» tutto trasposto nell’interiore. Da tal punto di vista, L’Innocente prelude alla testura interiorizzata de Le vergini delle rocce e del Fuoco, ma anche segna la via al realizzarsi della funzione io entro la prosa della grande stagione memoriale. E però, nel 1891, d’Annunzio non era ancora in grado di promuovere una strategia corrosiva se non da dietro le pieghe: per snervare la «favola» ottocentesca, l’avrebbe dapprima dovuta ri-scrivere in maniera massiccia ed estesa. Quanto è dire che ne L’Innocente fanno per la prima volta il loro ingresso materiali struttivi, linguistici e stilistici che, conformi al dettato dell’impersonalità realista, potenziano il ruolo dell’attore al fine di ridurre i segni della presenza autorale: d’Annunzio li impiega come utili ready-made, sì da raffrenare le spinte decostruttive nella superficie, lasciandole libere di lavorare nel profondo. Pertanto egli non guarda più, come ne Il Piacere, ai ‘decoratori’ Goncourt, bensì agli ‘ingegneri’ maestri del suo esordio da novelliere: Zola, Flaubert, Maupassant, da cui attinge interi nuclei diegetici, microrganismi raccontativi, suggerimenti di lingua e di stile (Giacon 2012). In particolare, le cellule di narrato costruite sul modulo della coppia (la passeggiata a due, la colazione degli amanti) sono care a tutti questi grandi, e in special modo lo è la visione/ascolto alla finestra che, grazie all’impiego della deissi spaziale (davanti, in alto, in basso) e di lessico sensoriale, evidenzia a tutto tondo il «fuoco» del personaggio facendo della descrizione (a carico dell’autore) il luogo dell’azione percettiva (dell’attore): un’eco sicura si coglie nella larga fortuna di finestre e balconi ne L’Innocente, in cui la figura di Tullio e talvolta quella di Giuliana sono sottolineata da marcatori di tipo gestuale (aguzzare la vista, indicare un punto), e da notazioni tattili e termiche (cingere il collo con le braccia, la viva mollezza del fianco, stringere il ferro freddo fra le dita, tenersi abbattuto contro il davanzale). Nello specifico, poi, la trama dell’infanticidio e il tema della nascita illegittima ricalcano, in tutt’uno con la forma del memoriale auto-diegetico, il Maupassant dei racconti La Confession e Un parricide, nel quale l’assassino è un altro intrus. Delle figure zoliane del voyeur e dell’espion ora approfitta Hermil, che spia e origlia nel suo incessante vagare per gli interni della Badiola: prima nel ruolo del marito geloso, poi dell’assassino. Sono riprese che agiscono anche sul piano stilistico, perché la paratassi che accompagna la frenesia motoria di Tullio è zolianamente ritmata sul passo del personaggio. Affatto in linea con simili acquisti è il trapianto, giustificato dalla nuova ambientazione, di vasti settori di lingua a intonazione media. Rispetto al romanzo del 1889 si lasciano in buona parte cadere elementi come quasi direi, a guisa di; si riduce la preposizione analitica (de lo, de la) a favore di quella articolata; aulicismi grafici come susurro, romore, constituzione resistono, ma in novero ristretto; il lessico letterario culto (amasia, lionato, frutice, viragine) è bilanciato dall’ampia immissione di vocabolario scientifico (magnetizzare, acidocarbonico, paralisi bulbare progressiva); alla pari, la sintassi si alleggerisce di certo peso intellettualistico, acquistando movenze più sciolte e discorsive. Inoltre, anche grazie alla prova stilistica del Giovanni Episcopo, i personaggi ora dialogano in una lingua più normale o comunque credibile, come quando la madre di Tullio gli comunica la gravidanza della moglie: «– Non ti sei accorto che Giuliana è incinta? […] – Incinta! – balbettai […] – Non sapevo… Giuliana non m’ha detto nulla […]. È una sorpresa». Hermil, poi, interloquisce di continuo con se stesso, tentando di dipanare il suo intrico interiore o arrovellandosi sulla fedeltà di Giuliana. È una tecnica di dibattito di chiara ascendenza russa, specie dostoevskiana, che qui si concreta in forme di marcata drammatizzazione, da scena a più voci, dalle movenze vivaci e quasi spontanee.
Tuttavia è presente ne L’Innocente una sorta di doppio fondo. La figura di questo narratore-personaggio comporta l’approssimarsi a una categoria dell’io responsabile di spinte destrutturanti o fortemente innovative rispetto al modello realista. Tullio Hermil è infatti un personaggio largamente onnisciente, in cui dunque tende a cancellarsi la distinzione fra il sapere compiuto del narratore e quello, parziale, dell’attore, sicché il ruolo dell’uno di frequente si confonde con quello dell’altro. Al contempo, l’andirivieni memoriale dell’io narrante, quel moto di sfumati trapassi dal presente del discorso al passato della storia e viceversa, si traduce in un ordine raccontativo regolato non dallo sviluppo degli accadimenti esterni, bensì dalle esigenze analitico-associative del soggetto. Di continuo interrotta dal dibattito introspettivo di Tullio, la tenuta del plot si frastaglia perdendo di compattezza e, a dispetto del fitto punteggiato cronologico d’ispirazione naturalista (in anni, mesi, giorni talvolta), spesso si congela. Insieme, dipendendo da tale fuoco interno, la durata degli accadimenti, o convenzionalmente la lunghezza dei capitoli, si fa assolutamente irregolare e imprevedibile: d’Annunzio rompe la tradizionale corrispondenza fra durata della materia e durata dell’azione, procedendo ora al rallentatore, come nella giornata di ben 3 capitoli (VII-IX) trascorsa dagli Hermil a Villalilla, ora correndo con ritmo sempre più celere «alla catastrofe», come nelle pagine che vanno dalla progettazione del delitto alla morte di Raimondo. Significative novità si rintracciano anche sugli altri piani del narrato. Così, i rumori del quotidiano (il ticchettio di un orologio, un suono di passi) si caricano d’un simbolismo inquietante, calato in pieno clima «fantastico», che par riflettere lo stato d’animo di Tullio ma che risulta in definitiva estraneo alla progressione degli eventi. Nella visione/ascolto alla finestra o nella passeggiata, si rompe il coincidere realista di percezione e descrizione: dapprima sensorialmente evidenziato dalla cornice liminale (finestra/balcone), il fuoco del personaggio progressivamente si annulla nel dispiegarsi del prepotente istinto lirico-pittorico dannunziano, e qui si pensi alla ricercata palette degli esterni della Badiola e del parco di Villalilla (verdegrigio, gridellino, tra bigio e turchiniccio), o all’irrompere dell’ecfrasis musicale nell’episodio dell’usignolo (Giacon 1992, Giammarco 2004). Che l’autore si dimentichi delle proprie creature – là dove invece, nel racconto realista, tutto riconduceva a loro – si fa evidente anche nella paratassi deambulatoria d’originaria ispirazione zoliana: a prima vista necessitata dalla vicenda interiore di Tullio, essa in realtà risponde a un impulso ritmico tendenzialmente spostato fuori della narrazione. Ancora più evidente è il caso della sintassi paesaggistica, compiuta realizzazione di quel paysage de l’âme ereditato da Frédéric Amiel (Tosi 1976). Grande conquista dello stile de L’Innocente, la sua struttura accoglie procedimenti di marcata liricizzazione, quali l’infittirsi delle rispondenze minimali del corpo sillabico e il musicale dilatarsi del periodo oltre i confini del punteggiato paratattico, sicuro preannuncio di quel lungo respiro alcyonio che sottende e insieme supera la segmentazione del verso (Giacon 2016). Inoltre, in parte maturato nelle pagine de L’Invincibile, si fa vistoso l’impiego del leitmotiv, come il riecheggio del lamento di Lisa Bolkònskaja in Guerra e pace, «Che avete fatto di me?», riferito a Giuliana sin dal capitolo IV. In breve, si è prossimi al simbolismo elegiaco – da «nota bassa» (De Michelis 1960) – del verlainiano Poema paradisiaco. Per questi aspetti e altri L’Innocente può definirsi l’opera d’uno scrittore che concepiva la prosa di romanzo quale dominio, sia pur differenziato, della funzione poetica. D’altra parte, era questa la via dannunziana per uscire dai «vincoli della favola» ottocentesca e approdare, come reciterà la dedica michettiana del Trionfo, all’«ideal libro di prosa moderno che – essendo vario di suoni e di ritmi come un poema […] – […] portasse alfine in sé […] la particolar vita – sensuale sentimentale intellettuale – di un essere umano collocato nel centro della vita universa». La nuova forma raccontativa invero comportava un’attenzione all’io ben più ricca e sfaccettata che quella ricevuta dal naturalismo bourgettiano e anche dal realismo russo. Di fatto, la stessa fisiologia del Taine, indagando – al confine tra fisico e psichico – sulla formazione di sensazioni e sentimenti (Taine 1870), aveva dimostrato come l’interiore fosse un mondo di ben ardua cattura e di tale lezione l’Hermil dannunziano avrebbe certo risentito. Dissociato, tortuoso, inafferrabile a se stesso, egli è un sicuro progenitore di tanti personaggi novecenteschi.
Non solo per la sua crudezza pertanto, anche per la generale complessità interpretativa, L’Innocente non fu subito apprezzato dal pubblico e dalla critica, neppure da un lettore esperto come il Capuana, che fu anzi responsabile d’una pesante stroncatura sulla «Tavola Rotonda», la rivista del Bideri, nel 1892 (ora in Capuana 1972). Poche le voci che allora in Italia si levarono a favore del romanzo e queste soprattutto vennero non da letterati, bensì da studiosi quali il criminalista antropologo Enrico Ferri e il docente di diritto penale Scipio Sighele, che nella figura di Tullio videro confermate le proprie teorie (Sighele 1892, Ferri 1896). Di contro, all’estero, molte le recensioni elogiative che L’Innocente raccolse fra il ’91 e il ’93: tali gli articoli comparsi su «Le Figaro», la «Saturday Review» e la «Frankfurter Zeitung», quest’ultima con un noto intervento di Hugo von Hofmannsthal, comparso anche sulla «Tavola Rotonda» nel dicembre del ’93 (ora in Hofmannsthal 1991). Alla pari, a segnalare il crescente interesse per l’opera, è il fiorire tra i tardi anni Novanta e i primi del Novecento di traduzioni in tutti i paesi d’Europa, anche in quella dell’Est, e negli Stati Uniti (Giannelli 1968). D’altro canto, proprio la rinomanza internazionale del romanzo innescava accuse di plagio. Scoppiata in Francia, con un articolo del ’93 sulla «Liberté» (Cimini 2004, p. 138), e di lì in Italia (Thovez 1896), l’affaire plagiaria dannunziana vide come principali imputati il calco flagrante della Confession di Maupassant entro l’episodio dell’infanticidio e l’innegabile ripresa della maupassantiana Une partie de campagne in quello dell’usignuolo di Villalilla. In realtà simili accuse, che coi veleni di Gian Pietro Lucini investiranno l’intera opera di d’Annunzio, erano viziate da un moralismo risentito e soprattutto dalla mancata riflessione sul rapporto tra materia delle fonti e laboratorio creativo. Limiti critici ben resistenti, com’è vero che i primi cenni ad una corretta intuizione dell’intertestualità di d’Annunzio non si daranno che negli anni Quaranta-Cinquanta (Gargiulo 1941, Trompeo 1958). A partire dai Sessanta, la generale rivalutazione dell’arte dannunziana e l’approfondirsi dell’approccio formale da parte della critica condurranno ad una complessiva rilettura anche de L’Innocente: dai temi ai rapporti intertestuali e/o culturali, dallo stile alla struttura del romanzo (tra cui De Michelis 1960 e sgg., Guglielminetti 1964, Paratore 1966, Ricciardi 1970, Beccaria, Marazzini 1975, Nardi 1976, Tosi 1976, 1985, Romboli 1986). Al contempo, il rinnovato interesse per L’Innocente si esprimerà in sede d’arte visiva nell’intrigante per quanto discutibile interpretazione di Luchino Visconti (1976), comunque sollecitando la fortuna dell’opera presso un pubblico allargato. Per gli anni Ottanta, vanno segnalati gli studi sulla cultura scientifica del romanzo, ripercorsa nei suoi presupposti italiani e stranieri (Cavalli Pasini 1982), come nella prospettazione di psicologia, psichiatria ed enciclopedia culturale di d’Annunzio e del suo tempo (Roda 1984). Nell’ultimo decennio del Novecento (1992) usciranno, con un’ampia sezione dedicata al L’Innocente, gli atti del XV Convegno Nazionale del Centro Studi pescarese, cui si deve un aggiornamento critico essenziale. L’attenzione al romanzo non è cessata nel nuovo millennio, come fan segno la comparsa di un’altra edizione commentata (BUR 2012, con illuminante prefazione di Gibellini), approfondimenti interpretativi di rilievo (Giannatonio 2001, Giammarco 2004, Mauro 2011) e saggi su aspetti specifici (Giacon 2014, 2016).

 

Bibliografia essenziale

Edizione di riferimento:

Gabriele, D’Annunzio, L’Innocente, in Prose di romanzi, 2 voll., a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, introduzione di Ezio Raimondi, Milano, Mondadori («i Meridiani»), 1988-1989, vol. I  (1988 a cura di Annamaria Andreoli).

Edizioni apparse in vita:

Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, «Corriere di Napoli», 10-11 dicembre 1891, 8-9 febbraio 1892.
Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, con un disegno di Giulio Aristide Sartorio, Napoli, Ferdinando Bideri, 1892.
Gabriele D’Annunzio,  L’Innocente, Milano, Treves, 1896.
Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, in Prose di romanzi, Istituto Nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio, Verona,  Mondadori, 1929, XIII.
Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, Roma, L’oleandro, 1934.

Edizioni commentate:

Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, a cura di Maria Teresa Giannelli, Milano, Mondadori («Oscar»), 1968.
Gabriele D’Annunzio,  L’Innocente, in Prose di romanzi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini (v. supra).
Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, a cura di Gianni Oliva, Roma, Newton Compton, 1995.
Gabriele D’Annunzio, L’Innocente, a cura di Maria Rosa Giacon, Milano, Mondadori («Oscar»), 1996.
Gabriele D’Annunzio,  L’Innocente, prefazione di Pietro Gibellini, introduzione e note di Maria Rosa Giacon, Milano, BUR, 2012.

 

Bibliografia secondaria

Maria Giulia Balducci, Per un’interpretazione dell’«Innocente», in Dal «Piacere» all’«Innocente», Atti del XV Convegno Nazionale del Centro Nazionale di Studi Dannunziani, Chieti-Penne, 15-16 maggio 1992, a cura di Edoardo Tiboni, con la collaborazione di Ivanos Ciani e Umberto Russo, Pescara, Ediars, 1992, pp. 81-105.
Raffaello Balestrini, Aborto, infanticidio ed esposizione d’infante. Studio giuridico-sociologico, Torino, Bocca, 1888.
Giorgio Bàrberi Squarotti, Invito alla lettura di d’Annunzio, Milano, Mursia, 1982.
Giorgio Bàrberi Squarotti, Lettura de «L’Innocente», in Dal «Piacere» all’«Innocente», cit., pp. 7-31.
Renato Barilli (a cura di), L’ultimo Michetti. Pittura e fotografia, Firenze, Alinari, 1995.
Gian Luigi Beccaria, Figure ritmico-sintattiche della prosa dannunziana, in Id., L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, d’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975.
Luigi Capuana, Scritti critici. Gabriele d’Annunzio. III, a cura e con una introduzione di Ermanno Scuderi, Catania, Giannotta, 1972, pp. 104-113 [già «Tavola Rotonda», 17, 24 aprile 1892].
Alighiero Castelli (a cura di), Pagine disperse; cronache mondane, letteratura, arte: Gabriele d’Annunzio, Per una festa della scienza, «La Tribuna», 4 novembre 1887, Roma, Bernardo Lux, 1913, pp. 389-397.
Annamaria Cavalli Pasini, La scienza nel romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento, Bologna, Pàtron, 1982.
Mario Cimini (a cura di), Carteggio d’Annunzio-Hérelle (1891-1931), Lanciano, Carabba, 2004.
Ermanno Circeo, Saggio sul d’Annunzio narratore, Roma, Signorelli, 1966.
Eurialo De Michelis, Tutto d’Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960.
Eurialo De Michelis, Lapsus e refusi in d’Annunzio, «Atti e memorie dell’Arcadia», 1978, 2, pp. 73-110.
Eurialo De Michelis, Le «ripetizioni», in Id., Ancora d’Annunzio, Centro Nazionale di Studi Dannunziani, Pescara, Ediars, 1987.
Francesco Desiderio, Tullio Hermil: velleità ed immaginazione, in Dal «Piacere» all’«Innocente», cit., pp. 133-138.
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Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte, Genova, Ligure, 1896.
Alfredo Gargiulo, La via d’uscita della «bontà» («L’Innocente»), in Id., Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1941.
Guglielmo Gatti,Vita di Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1956.
Ferdinando Gerra, La storia editoriale de «L’Innocente», «L’osservatore politico e letterario», 1976, 3, pp. 15-30.
Maria Rosa Giacon, Al fondo della perduta «innocenza»: le invenzioni di Tullio Hermil, in Dal «Piacere» all’«Innocente», cit., pp. 107-131.
Maria Rosa Giacon, «Impones plagiario pudorem». D’Annunzio romanziere e l’affaire des plagiats, «Archivio d’Annunzio», 2014, 1, pp. 43-72.
Maria Rosa Giacon, Spazio letterario/spazio stilistico. Il paesaggio di ‘carta’ dell’«Innocente», «Archivio d’Annunzio», 2016, 3, pp. 21-49.
Marilena Giammarco, Sul limitare dell’Ombra. Il giardino dannunziano ne «L’Innocente», «Italies. Littérature, Civilisation, Société», 2004, 8, pp. 259-274.
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Barbara Spackman, Pandora’s box, in D’Annunzio a Yale, Atti del Convegno della Yale University, 26-29 marzo 1988, a cura di Paolo Valesio, «Quaderni dannunziani», 1988, 3-4, pp. 61-73.
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Pietro Paolo Trompeo, L’usignolo cantava, in Id., L’azzurro di Chartres ed altri capricci, Caltanissetta, Sciascia,1958.
Mario Verdone, «L’Innocente» dal romanzo al film, in Dal «Piacere» all’«Innocente», cit., pp. 151-154.

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