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Il In Is

In memoriam

di Claudio Mariotti, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Benché sia ormai acclarato che tutte le liriche del libretto In memoriam debbano datarsi posteriormente alla prima edizione di Primo vere, sulla scia di ciò che scriveva Filippo De Titta – del quale è nota l’inaffidabilità – molti hanno ritenuto che fossero il primo frutto dell’ingegno del futuro Vate, visto che nel racconto Il Fanciullo, l’amico d’infanzia attribuisce la composizione del sonetto n. IX al d’Annunzio dodicenne: «Così [si riferisce al sonetto n. IX] canta a dodici anni; ed è la prima, la verace rivelazione del suo intelletto» (in Di Carlo 2007, p. 179). Non solo: nella cronistoria dannunziana di De Titta riportata da Rosati, si afferma chiaramente l’antecedenza dei sonetti: «Ma queste due prime pubblicazioni [“Primo vere” e “All’augusto sovrano Umberto I di Savoia nel 14 Marzo MDCCCLXXIX”] non furono in realtà i primi versi scritti, ma preceduti dal Piccolo canzoniere della nonna. In memoriam, edito poi nel 1880 a Pistoia dal Niccolai» (in Rosati 1978, p. 43). Il che, per altro, era contraddetto da ciò che era scritto poco dopo: «I sonetti del Canzoniere furono scritti alcuni, quando la nonna viveva e Gabriele aveva 13 anni, ed altri dopo la morte» (ivi). Successivamente, Di Pretorio 1907, p. 3 avrebbe riassunto così: «Questi sonetti affettuosi e gentili [quelli di“In memoriam”] benché pubblicati dopo il Primo vere, secondo il De Titta, cronologicamente, furono scritti prima, e dànno la rivelazione genuina e purissima del Poeta».
La realtà è del tutto diversa come testimonia un passo della missiva a Chiarini del 3 maggio 1880 in cui si fa presente di aver lavorato intensamente, senza sosta, al libriccino (in Fatini 1959, p. 140):

Sono stato tutto questo tempo senza scriverle perché ho avuto da arrabattarmi moltissimo intorno ad un lavoretto che le manderò fra giorni. Ho studiato e scritto con una eccitazione febbrile, stranissima, una eccitazione che mi viene due o tre volte l’anno, che mi dura un mesetto, e poi se ne va, lasciandomi con il capo confuso e con una scontentezza indefinita nell’anima. Non so che sia.

Ne danno conferma anche le lettere spedite dal 25 aprile al 21 maggio 1880 al proto della tipografia Niccolai, nonché padre del prefetto del Cicognini a cui Gabriele era molto legato (si leggono in Rossi 1984). Da una missiva del 3 maggio 1880, inoltre, si apprende che l’opera, inizialmente composta di dodici sonetti, fu aumentata di otto (ivi, p. 51): 

Ora le mando ancora altri otto sonetti da aggiungere a quei dodici già composti. Ogni sonetto ha il suo numero d’ordine; i primi dieci che lei ha già stanno bene come prima; dopo il decimo deve venire l’undicesimo che le mando e poi via via gli altri com’è indicato in questi.

Incrociando questi dati con il manoscritto dell’autografoteca Bastogi (oggi alla Biblioteca Labronica di Livorno e su cui vd. Pescetti 1927) in cui in prima battuta al n. XI figurava il sonetto ora al n. XVII, così come al n. XII quello che ora è al n. XVIII, si deduce che il nucleo originario era composto dai seguenti sonetti: i nn. I-X e gli attuali nn. XVII e XVIII; gli altri otto furono scritti in un secondo momento (il terminus ante quem è il 3 maggio 1880) e sono i nn. XI-XVI e XIX-XX. Lo spostamento avvenne per ragioni strutturali: nei nn. XVII e XVIII la nonna è già morta, nel n. XI, invece, è, come in quelli precedenti, ancora viva. 
Degno di nota, inoltre, è che parte dei componimenti, nello specifico i nn. XV-XX, riportino in calce alcune date che forse alludono alla loro composizione. Ho già messo in luce in Mariotti 2025 che le singole datazioni apposte da d’Annunzio devono prendersi con il beneficio d’inventario, visto che il Cicognino altera molto spesso i dati, cambiando addirittura i luoghi. Così, in In memoriam, le liriche nn. I-X e XVII-XVIII, ossia quelle più antiche, avrebbero come terminus ante quem il 2 settembre 1879 (indicazione della n. XVII), mentre le altre otto (nn. XI-XVI e XIX-XX) come terminus post quem il 23 febbraio 1879 (in calce alla n. XVI). Il che è contraddetto, ad esempio, dalla n. XIX che, sicuramente posteriore ai primi dodici sonetti, è datata però al 18 agosto 1879 risultando così a loro precedente.
L’opera viene stampata nel maggio del 1880, intorno al 20 visto che, come si rileva da una lettera a Giusfredi (in Rossi 1984, p. 52), in quella data al Cicognino viene il dubbio che 100 copie del libretto non bastino e chiede che la scomposizione dei caratteri venga ritardata, segno che il lavoro era già compiuto. Sappiamo poi che il 23 maggio il proprietario della tipografia venne a Prato con il pacco delle copie (Fatini 1959, p. 143). Il nome sulla copertina è Gabriele d’Annunzio, mentre lo pseudonimo «Floro Bruzio» (Floro, alludente alla giovinezza del poeta, era già stato usato per Primo vere, mentre «Bruzio» rimanda alla terra natale, l’Abruzzo) che richiama il carducciano «Enotrio Romano», è relegato tra parentesi. 
In seguito, l’opuscolo venne rifiutato dall’autore che, a detta di De Titta, ne distrusse gli esemplari (in Di Carlo 2007, p. 200):

Questi meravigliosi sonetti [di “In memoriam”] ora sono quasi sconosciuti, perché ci fu un’epoca in cui Gabriele distrusse quante copie di quel libretto gli vennero in mano; ma una copia fu da me salvata, che ha correzioni a penna fatte da lui. 

Parrebbero confermare tutto ciò le parole che il 3 giugno Gabriele scrisse a Chiarini pregandolo di strappare il libriccino: «Se il mio In memoriam non l’ha ancora letto, oh! mi faccia il piacere, non lo legga più, lo strappi, lo strappi; io mi vergogno» (in Fatini 1959, p. 168). Tuttavia, bisogna prendere queste affermazioni con cautela, visto che sono dettate da una parte dall’impazienza di leggere il desiderato giudizio di Chiarini, dall’altra da una comprensibile diminutio sui di fronte all’importante critico. Ad ogni modo, era opinione comune che il ripudio del libriccino di cui parla De Titta fosse dovuto alla recensione negativa che ne fece Chiarini sul «Fanfulla», il 24 ottobre 1880 anche se i rapporti fra i due si rinsaldarono poco dopo, stante questa dichiarazione dannunziana (in Chiara 1985, p. 285):

Ho creduto…, specialmente dopo una certa bibliografia fanciullesca sull’In Memoriam, ho creduto che Ella fosse sdegnato meco; e non osavo ricomparirle dinnanzi, temendo di irritarlo ancor più. Ma come ho sofferto!

Il mio novello Primo vere ha fatto la parte di mediatore, timidamente; e vedo che Ella mi ha perdonato. Grazie, grazie, grazie!

Inoltre, a sigillare la ritrovata concordia, Chiarini lo invitava a passare il Natale a casa sua, a Livorno, come del resto testimonia una lettera del gennaio 1881 all’illustre critico (in Ledda 2004, p. 78).
Si deve a Tiboni, che ha rinvenuto un esemplare alla Biblioteca provinciale di Pescara con alcune correzioni autografe (compreso il nuovo sottotitolo, Piccolo canzoniere della nonna), l’ipotesi che il futuro Vate fosse intenzionato a farne una seconda edizione. Il che, per altro, concorderebbe con quanto confidato da d’Annunzio a Mario Foresi (in Fatini 1959, p. 168) e con il fatto che nel gennaio del 1881 uscì sul «Gazzettino letterario» di Ferrara la lirica estravagante Triste maggio che recava il sottotitolo «dopo la morte della nonna», cosa che induce a supporre che dovesse appartenere al nuovo ciclo per la cara defunta. Non sapendo quando avvennero le correzioni autografe – l’edizione consultata da Tiboni ad oggi è irreperibile – si possono fare almeno due congetture: è molto probabile che la seconda edizione del libriccino si debba collocare a ridosso del 1881 e se non fu mai portata a termine – il che si aggiunge al lungo elenco delle opere che d’Annunzio pensò e non scrisse mai – è perché fu suggestionato da nuovi modelli europei, i cui barlumi erano già nella seconda edizione del Primo vere; la distruzione delle copie – è congettura del tutto condivisibile di Tiboni – dovette invece avvenire o poco prima o poco dopo il 1897 per ragioni politiche, ossia le diffamazioni sulla sua questione familiare sollevate da alcuni oppositori durante la lotta elettorale che si concluse però con la vittoria del poeta il 29 agosto del 1897. In quell’occasione, infatti, la raccolta dedicata alla nonna sarebbe potuta essere strumento di scherno, non tanto per la bontà del lavoro, ma per la questione del cognome. Questo perché Rita Lolli era la nonna paterna, avendo sposato Camillo Rapagnetta, padre di Francesco Paolo che fu adottato dalla zia Anna Rapagnetta in d’Annunzio, assumendo così il cognome che trasmetterà al figlio Gabriele. La congettura di Tiboni è supportata da quanto scriveva d’Annunzio a Antonino Liberi anche se solo nel 1933: «una profanazione della sua infanzia […] che rinnovava la malignità della bassa lotta elettorale […] sopra l’autentica predestinazione del suo nome d’Annunziatore» (in Tiboni 1992, p. 116).
Nel gennaio del 1912, preparando l’amico Hérelle un’antologia in francese delle sue poesie, d’Annunzio scriveva: «Penso che forse sarebbe opportuno cominciare il volume col Chant nouveau e porre in appendice – à titre de curiosité – l’In memoriam e il Primo vere. Temo che il lettore avrà una falsa impressione da quelle bambocciate» (in Cimini 2014, p. 693). Per poi ribadire poco dopo, non solo che il volume delle traduzioni non poteva aprirsi con l’opera In memoriam, ma che quest’ultima era una vana elucubrazione. In una lettera successiva, Hérelle, accettando di ridurre il numero degli epicedi, aggiungeva che il giudizio dannunziano era eccessivamente castigatorio. Il volume delle traduzioni in francese verrà edito solo nel 1926 e conterrà, proprio in appendice, ben sette funeralia segno che, benché «bambocciate», l’insistenza di Hérelle aveva pagato. Tuttavia, il Vate escluderà la raccolta dall’Edizione Nazionale Opera Omnia

Contenuto e struttura

Il libriccino si compone di 20 sonetti più un Congedo in distici elegiaci. Inutile dire che la forma sonetto potrebbe essere stata suggerita dai componimenti mortuari di Chiarini apparsi sul domenicale «Fanfulla».
Una considerazione va fatta sulle poesie nn. XIX e XX. Stando alla dedica, questi puerilia («A mia nonna | sonetti») dovrebbero essere solo sonetti (anche se un’evidente eccezione è il Congedo, in distici elegiaci, che però fa storia a sé, provvisto com’è di un occhiello). Sicuramente nelle intenzioni dell’autore i due epicedi a questa forma dovevano appartenere: lo confermano sia la lettera al  Giusfredi del 3 maggio 1880: «A proposito i due ultimi sonetti (XIX e XX), che nella forma della strofe sono diversi da gli altri» (in Rossi 1984, p. 51), che quella a Chiarini del 23 maggio 1880: «Venti sonetti sgorgatimi tutti dal cuore, tutti, tutti, tutti» (in Ledda 2004, p. 75). Ora, all’apparenza, le due liriche non rientrano in questa classificazione, tant’è che il metro è stato variamente indicato da chi del volume In memoriam si è occupato: Giannantonio 1992, p. 62 parla di «quattro strofe di endecasillabi e settenari liberamente alternati»; Chiarini 1880 di «altri due brevi componimenti», Masci 1950, p. 17 di diciotto sonetti, un congedo e «due liriche di quattro strofe», mentre uno dei pochi a indicarli come sonetti è stato Capovilla 2006, p. 8.
Nell’Ottocento è continuo il recupero di forme metriche antiche e si inserisce nel quadro di una pratica di ripresa e rilancio già iniziata da Tommaseo e proseguita da Carducci e dai suoi seguaci come Severino Ferrari, Enrico Panzacchi e Olindo Guerrini nella cui produzione si trovano numerosissimi esempi di forme arcaiche del sonetto (ad esempio quello minore). Inoltre, negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento continua è la rielaborazione di questo metro (penso a Remigio Zena e a Luigi Capuana), anche se una sua sperimentazione è già ravvisabile in area francese con Baudelaire e Verlaine. Date queste premesse, il Cicognino se da una parte riprende l’arcaico sonetto rinterzato (sperimentato poi in Calen d’Aprile, nell’Isottèo), dall’altra vi apporta delle variazioni, cosa non rara nella sua produzione maggiore (si pensi alle ballate di Il fanciullo nell’Alcyone). Il rinterzato non è altro che un ampliamento del semplice sonetto e si ottiene inframmezzando un settenario dopo ciascuno dei versi dispari delle quartine e dopo il primo e il secondo verso di ciascuna terzina; i settenari rimano con il verso che li precede o con quello che li segue. L’inventore è tradizionalmente considerato Guittone e un esempio è O benigna, o dolce, o preziosa (AaBAaB AaBAaB CcDdC DdCcD). Una variante del rinterzato è quella del sonetto doppio in cui nelle terzine è rafforzato con il settenario solo il secondo verso, come nei due esemplari della Vita Nuova: O voi che per la via d’Amor passate (AaBAaB AaBAaB CDdC DCcD) e Morte villana, di pietà nemica (AaBBbA AaBBbA CDdC CDdC). D’altronde, già anticamente si riscontrano delle forme secondarie di questi due tipi comuni (rinterzato e doppio): Biadene 1977, pp. 49-51 ne propone molti esempi, anche indugiando, nelle pagine successive, su quelle che chiama «forme degenerate», ossia quelle dove non è possibile la regolare divisione in piedi e volte. Lo sperimentalismo dannunziano prevede da una parte l’inserimento di sdruccioli – che per tradizione sostituiscono le rime – dall’altra la variazione nel numero dei versi e nella loro disposizione nella fronte e nella sirma. Nello specifico è rilevante per la fronte del n. XIX, oltre agli sdruccioli, l’inversione iniziale di endecasillabo-settenario (come nell’anonimo citato da Biadene, p. 49), il settenario in terza sede al posto dell’endecasillabo nonché la cassatura del primo endecasillabo del secondo terzetto (lo schema ottenuto è aBcdC eFcgC, con a, B, d, e, F, g sdruccioli); nella fronte del n. XX, invece, oltre agli sdruccioli, è degna di nota la mancanza del primo endecasillabo del secondo terzetto (schema AbCdB EbFgB con A, C, d, E, F, g sdruccioli). Per la sirma, identica nei due componimenti, il poetino lavora sulla base dello schema CDD CDD sostituendo la rima C e il rinterzo di D con due sdruccioli e invertendo la disposizione endecasillabi-settenari ai vv. 2-4, ottenendo lo schema CdEd con C, E sdruccioli. Come si vede la struttura del sonetto non è così profondamente alterata, visto che viene mantenuta la divisione in due piedi e in due volte. Insomma, si tratta di un sonetto rinterzato ridisegnato o se si preferisce manipolato. 

Stile e interpretazioni

Nel libretto si avverte con chiarezza non solo la presenza di Giosue Carducci e di Olindo Guerrini, ma anche di Giovanni Marradi e di Giuseppe Chiarini che per la morte del figlioletto aveva fatto uscire sul «Fanfulla della Domenica» alcune liriche, poi confluite nella seconda edizione delle Lacrymae. Non stupisce quindi che l’illustre critico, che poco prima con la sua famosa recensione aveva consacrato il Cicognino e lo aveva posto all’attenzione della critica, il successivo 24 ottobre sempre sul «Fanfulla» disapprovasse i funeralia dannunziani:

Tutto ciò, diciamolo francamente, ci fa molto dubitare che il D’Annunzio abbia dell’arte quell’alto concetto, senza del quale è impossibile levarsi oltre la mediocrità. […] Ciò che manca in quelle poesie non è solamente l’arte, un’arte cioè che non sia il semplice riflesso dell’arte altrui, ma il risultato della meditazione ed elaborazione di un artista originale; ci manca anche il contenuto poetico; questo sopra tutto ci manca. Queste nuove poesie […] non segnano, e non potevano segnare, un progresso notevole nell’arte del poeta.

È certo che l’opera In memoriam è ancora stilisticamente lontana dalle molte novità dei volumi successivi ed è vicina, invece, ad una poesia tradizionale, come quella della prima edizione del Primo vere. Né è verosimile ritenere significativa, come qualcuno ha ritenuto, l’influenza del poemetto In memoriam di Tennyson, se non per qualche immagine o per qualche verso. In ogni caso, in un articolo più tardo, d’Annunzio avrebbe elogiato la poesia dell’inglese, probabilmente anche perché in lui vedeva riflesso se stesso (in Andreoli-Zanetti 2003, p. 102):

Alfredo Tennyson, spirito curioso e assimilativo […] incominciò a esperimentarsi in imitazioni e in esercizii di metrica e di retorica puri, mostrando fin da principio un’abilità e una volubilità così insolite […] egli non altro faceva se non quello che è mai dovere di ogni poeta moderno: – egli intendeva i suoi primi sforzi a rendersi assoluto signore dell’elemento di cui si compone l’arte letteraria, convinto che nella forma è la più resistente virtù vitale dell’opera d’arte.

Le differenze fra i due volumi sono avvertibili sin dal metro: Tennyson adotta una struttura ritmico-rimica personalissima, detta “In memoriam stanza”, composta da quartine di tetrametri giambici, con rima ABBA, mentre il Cicognino il tradizionale sonetto. L’elegiaco, invece, è riservato al Congedo. Inoltre, a differenza del libretto del giovanetto, nell’opera tennysoniana l’io poetico non si identifica solo con l’autore, ma rappresenta la voce degli esseri umani tutti. Il fatto poi che pubblichi il poema solo nel 1850, a diciassette anni di distanza dalla prematura scomparsa dell’amico Hallam, gli permette non solo un’analisi introspettiva profonda, strutturata su frammenti lirici, ma anche di riflettere sulla propria epoca in cui domina la perdita di stabili certezze. 
Nel processo elaborativo del libretto è possibile distinguere un criterio ordinativo – il che testimonia che è stato costruito come testo unitario – ossia la disposizione diaristica, eccezion fatta per il sonetto proemiale e il Congedo. Così tra il sonetto n. II, in cui l’ava affronta la malattia in serenità e il n. XX, in cui si invoca il ritorno di lei per ritrovare quell’armonia perduta, il racconto viene costruito per ricordi ossessivi e ripetitivi: la bellezza di lei segnata dal dolore (nn. III e VII), il presentimento della fine (nn. V, VIII e XI), i bei momenti passati assieme (nn. IX-X, XIV e XIX), il pensiero della sua assenza (nn. XV-XVI, XVIII). Il tempo non è lineare, ma è quello della memoria ossessiva, tant’è che le stagioni si succedono senza una rigorosa cronopoetica: al n. I siamo a dicembre, in autunno con il n. V, in primavera con i nn. VI-VII, in pieno inverno con IX, poi di nuovo primavera (n. X), ancora in inverno (a novembre) ai nn.  XI-XII e XIV-XVI, autunno al n. XVII, primavera al n. XVIII, estate al n. XIX, per chiudere in autunno – stagione dei morti, ma stagione con la quale si erano chiusi anche gli amati Postuma – al n. XX. La conferma dell’assenza di questa linearità consecutiva – si ha quindi più che uno sviluppo romanzesco una dimensione lirica –  è dato dalla presenza in calce ad alcuni sonetti di presumibili date di composizione che si succedono senza criterio. A tal proposito basti dire che il n. XVI riporta febbraio, il n. XVII settembre, il n. XVIII aprile. Niente di strano: essendo il racconto di una perdita, le istantanee di vita si dispongono in maniera disordinata, così come in subbuglio è il cuore dell’autore. Tutto ciò pone il libro dannunziano in una precisa tradizione, quella petrarchesca. Infatti, le poesie di In memoriam si potrebbero definire liriche in vita e in morte di Rita Lolli: non casualmente nell’approntare la seconda edizione verrà specificato il sottotitolo Piccolo canzoniere della nonna. Inoltre, l’operazione è la stessa: costituire una storia d’amore scandita scegliendo una serie di eventi, senza contare che da Petrarca il Cicognino apprende anche la tecnica di connettere microtesti mediante riprese lessicali o ritorni di immagini. A proposito delle quali, merita segnalare il fiorire della natura nella n. VI: «Era una festa di peschi fiorenti / di rose, di gerani e di viole» (vv. 1-2), così come nella successiva n. VII: «C’era nell’aria un profumo gentile, / profumo di viola e di mughetto» (vv. 1-2); o ancora il motivo della sera della n. V: «in ciel languia / un di que’ blandi vesperi autunnali» (vv. 2-3) che ritorna nella n. VIII: «Mentre ne ’l riso d’un’azzurra sera» (v. 1); infine la processione di un funerale della n. VIII: «passarono i Fratelli in lunga schiera / che portavano un morto a ’l Camposanto»  (vv. 3-4) che è riproposta nella n. XII: «e là una schiera bruna d’incappati / portanti sopra il feretro di un cadavere» (vv. 12-13). In ultimo, che gli epicedi scaturiscano dalla rielaborazione dei Rerum vulgarium fragmenta è detto senza giri di parole proprio dal sonetto proemiale («O voi che dentro l’urna sepolcrale») che è un’eco, mascherata da una citazione da un sonetto di Chiarini, dal proemio del Canzoniere: «Voi ch’ascoltate e in rime sparse il suono». In entrambi, inoltre, viene istituito il discorso su una divaricazione temporale tra passato e presente. 
Lo strumento utilizzato da d’Annunzio per celebrare la nonna è, per dirla con l’amato Petrarca, la «memoria innamorata» (Rvf, LXXI 99) ossia il ricordo dei bei momenti trascorsi assieme. L’atto dello scrivere si presenta così come la formalizzazione della memoria che fissa le tracce del passato, tra sogni e immaginazione: «Chiusi gli occhi assai tardi, ed ho sognato / la mia nonnina tutta sfolgorante» (XVII, 5-6). Talvolta la rievocazione di ciò che è stato può essere così sconvolgente che il poeta vorrebbe scacciarlo da sé: «Scaccia da me questi feroci lèmuri / che mi fanno paura!…» (XX, 17-18). Inoltre, l’ava è mitizzata tanto da essere descritta solo per barlumi, riflessi e simboli: i componenti della testa – capelli, occhi, viso – sono destoricizzati e diventano ineffabili, così che la nonna appare una trasfigurazione angelica: «Tu ci stavi a sentir trasfigurata / come un viso di santa de l’Angelico» (X, 9-10); più volte è riformulata stilnovisticamente, è assemblata con alcuni pezzi del tradizionale repertorio della donna angelo con occhi splendenti e riso inebriante, così da far esclamare al poeta che deve esser «nata in paradiso» (VII, 10). La scrittura diviene quindi non solo strumento per richiamare il passato felice e ricucire le ferite, ma anche discorso della mancanza immedicabile dell’oggetto del desiderio. Tuttavia, nel Congedo il poetino trova la speranza per superare il dolore: vero è che il paesaggio è cupo e spettrale, vero che l’animo del poeta è ammalato, ripiegato sulla propria sofferenza, ma la citazione petrarchesca in epigrafe, nonché gli ultimi versi, sono una sorta di ricongiungimento oltre la morte.

Bibliografia principale

Gabriele d’Annunzio, In memoriam: versi, Pistoia, Tipografia Niccolai, 1880. L’opera è stata ripubblicata in Fracassini 1922, Fatini 1935 e Bianchetti 1950. È in corso un’edizione critica e commentata presso l’Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio a cura di Claudio Mariotti.
Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di Egidio Bianchetti, Milano, Mondadori, 1950.
Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici (1889-1938), a cura e con una introduzione di Annamaria Andreoli, testi raccolti da Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2003, vol. II.
Gabriele d’Annunzio, Il fiore delle lettere: epistolario, a cura di Elena Ledda, introduzione di Marziano Guglielminetti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004.
Gabriele d’Annunzio, Primo vere (1879), edizione commentata a cura di Claudio Mariotti, Lanciano, Carabba, 2016.
Gabriele d’Annunzio, Primo vere, edizione critica e commentata a cura di Claudio Mariotti, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani, 2025 («Edizione Nazionale»).
Gabriele d’Annunzio, Filippo De Titta, Carteggio (1880-1922) e altri documenti dannunziani, a cura di Enrico Di Carlo, Lanciano, Carabba, 2007.

Bibliografia secondaria

Leandro Biadene, Morfologia del sonetto nei secoli XIII-XIV, Firenze, Le Lettere, 1977.
Guido Capovilla, D’Annunzio e la poesia “barbara”, Modena, Mucchi, 2006.
Piero Chiara, Prato nella vita e nell’arte di Gabriele D’Annunzio, Prato, Cassa di Risparmio e Depositi di Prato, 1985.
Giuseppe Chiarini, A proposito di un nuovo poeta, in «Fanfulla della Domenica», a. II n. 18, 2 maggio 1880, pp. 1-2 (riproposto in appendice a Gabriele d’Annunzio, Primo vere (1879), cit., pp. 263-274).
Giuseppe Chiarini, In memoriam, in «Fanfulla della Domenica», a. III n. 43, 24 ottobre 1880, p. 4 (la recensione apparve anonima).
Filippo De Titta, L’infanzia e l’adolescenza di Gabriele D’Annunzio nelle memorie di un compagno abruzzese, a cura di Beniamino Rosati, in «Prospettive Settanta», a. IV n. 4, ottobre-dicembre 1978, pp. 33-53.
Luigi Di Pretorio, Un Museo d’Annunziano [sic], in «L’Abruzzo letterario», 5 ottobre 1907, p. 24.
Giuseppe Fatini, Il Cigno e la Cicogna: Gabriele d’Annunzio collegiale, Firenze, La Nuova Italia, 1935.
Giuseppe Fatini, Il Cigno e la Cicogna (Gabriele d’Annunzio collegiale), Pescara, Edizioni Aternine, 1959.
Tomaso Fracassini, Gabriele d’Annunzio convittore, Firenze, La Nave, 1922 (seconda edizione).
Valeria Giannantonio, L’esordio poetico di D’Annunzio, Napoli, Loffredo, 1992.
Filippo Masci, La vita e le opere di Gabriele D’Annunzio in un indice cronologico analitico (1863-1949), Roma, Danesi, 1950.
Luigi Pescetti, L’autografoteca Bastogi: le carte dannunziane, estratto da «La Rivista di Livorno», a. II fasc. III, 1927, pp. 3-16 + 2 riproduzioni.
Aldo Rossi, Nota su D’Annunzio precoce “maestro di tutte le arti”», in «Poliorama», a. 1984 n. 3, pp. 50-56 (l’articolo è siglato «A.R.»).
Raffaele Tiboni, Scritti dannunziani, Pescara, Ediars, 1992.

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