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L’ La Le

Le martyre de Saint Sébastien

di Carlo Santoli, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Nella dimora di Arcachon il poeta lavorò a Le martyre de Saint Sébastien e precisamente fra l’estate del 1910 e il marzo 1911. In quest’arco di tempo egli conobbe il musicista, Claude Debussy, con cui instaurò un’intensa collaborazione (Tosi 1948). Il Vate risente della suggestione dei Ballets Russes di Diaghilev, non solo fondando «sulla danza e sulla tecnica del gesto l’espressione drammaturgica», ma anche rivelando un’eccezionale «capacità di fondere la parte scenografica e coreografica con la composizione musicale, in un’unica sintesi» (Giachery 1991, p. 171). Emerge, però, una crisi finanziaria: la Capponcina deve essere venduta e, probabilmente, ai primi del 1911, allorché dovrà vivere a Parigi «quasi di continuo […] per le prove del […] Mistero, che è di una grandiosità senza pari e richiede studii lunghissimi e minutissimi», scrive in una lettera del Fondo Galletti (Archivio di Stato di Milano) all’amico Francesco Coselschi. Nel camerino di Ida Rubinstein, si inginocchia ai suoi piedi, come rievocherà in un taccuino:

A Parigi […] la sera del ballo russo Cleopatra. La visita nel camerino della Diva, condotto da Montesquiou. C’è Barrès, c’è Rostand, ci sono altri letterati francesi imbarazzati, agghindati. Con la solita temerità, vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, mi getto a terra – senza sentire su me l’abito a coda di rondine – e bacio i piedi, salgo su pel fusolo fino alle ginocchia, e su per la coscia fino all’inguine, con il labbro agile e fuggevole dell’aulete che scorre il doppio flauto. Tableau! Scandalo! Alzo gli occhi. Vedo il volto di Cleopatra, sotto la grande capellatura azzurra, chino su me sorridere con una bocca abbagliante. Mi rialzo in un silenzio ottuso, e mormoro, come trasognato: Saint Sébastien?

Però in un altro taccuino la prima idea sarebbe nata niente meno che 25 anni prima:

A diciannove anni [o forse ventuno] quando Febea – vedendomi nudo addossato al tronco d’un albero, nella selvetta pensile della Villa Medici, fra terrazza e belvedere, esclamò: “San Sebastiano!” (Olga Ossani, giornalista napoletana, redattrice del «Capitan Fracassa», avvalendosi dello pseudonimo di Febea, a cui d’Annunzio, rammentando l’avvenimento del periodo giovanile, invia una lettera firmata “San Sebastiano”, cfr. De Michelis 1960, p. 366).

Il progetto risale al 1908 (l’editore Treves ne prenota l’esclusiva per la pubblicazione), collegato alla relazione sentimentale con la contessa russa Nathalie de Goloubeff chiamata Donatella. Con lei lo scrittore visita chiese e musei apprezzando quadri e sculture ritraenti San Sebastiano. Ida Rubinstein è la designata interprete dell’ineffabile Santo efebo e sarà anche la finanziatrice del futuro spettacolo. Ambiziosissima, sogna per sé uno spettacolo “completo”, in cui possano collaborare con lei gli artisti più raffinati e ricercati.

1910! I Balletti Russi trionfavano. Parigi viveva in un autentico incantesimo. Sembrava che nell’universo solo la Poesia fosse Verità. Il Signor di Montesquiou, con la punta della sua canna d’ebano, tracciava sulla sabbia del Padiglione delle muse i cerchi del proprio sogno. Nessuno era più adatto di Gabriele D’Annunzio per entrare in questa magia […]. Il Signor di Montesquiou persuase d’Annunzio, di cui s’era fatto, per così dire, l’annunciatore, d’assistere a una rappresentazione di Cleopatra.
L’autore del
Fuoco venne. Uscendo dallo spettacolo telegrafò a un amico – Ho visto Cleopatra. Io non domino il mio turbamento […] –.
Gabriele d’Annunzio venne a trovarmi e mi confidò che voleva scrivere per me un mistero che avrei recitato e mimato ispirandomi ai giochi di luce delle vetrate della Cattedrale di Chartres… (Rubinstein 1938, p. 194).

D’Annunzio, intanto, ad Arcachon si dedica all’attenta lettura di autori francesi. Il poeta si procura antichi testi sia nelle biblioteche che presso i librai di Parigi. Si tratta di libri di vario genere, di carattere agiografico o religioso, romanzi o epopee antiche, specialmente sulla nascita del cristianesimo o sulla decadenza del paganesimo, che legge con forte bramosia assorbendone il linguaggio antico e penetrandone la ricchezza spirituale:

Ogni giorno io faccio un bagno di misticismo: ho letto tutto San Francesco di Sales: io leggo di vecchi riti. Quest’opera mi coinvolge: il suo pensiero mi assilla, mi impedisce di dormire (cfr. Sozzi 1967, p. 247. In merito alle «letture più sfruttate» dal poeta, Guy Tosi fornisce alcune informazioni molto interessanti: «Esse vanno dai Martyrs di Chateaubriand alla monumentale Histoire des Persécutions di Paul Allard, dalle Metamorfosi di Apuleio all’opera classica di Franz Cumont su Le Religioni orientali nel paganesimo romano, dalla Bibbia ai Vangeli apocrifi, da Salammbô  e dalla Tentation de Saint Antoine di Flaubert ai Poèmes antiques di Leconte de Lisle e alle sue traduzioni dei bucolici greci, senza dimenticare Poèmes et Ballades di Swinburne letti nella traduzione francese di Gabriel Murey e L’art religieux du XIIIe siècle en France d’Emile Mâle», cfr. Tosi 1977, p. 112). 

In ultimo si rivolge a Debussy, a cui il 25 novembre 1910 invia questa lettera:

Questa estate, mentre tracciavo lo schema di un Mistero a lungo meditato, un amico aveva la consuetudine di cantarmi le vostre canzoni più belle con la voce interiore che voi richiedete. La mia opera nascente ne era tanto affascinata da tremarne, ma non avevo il coraggio di sperare in voi. Vi piace la mia poesia? A Parigi, due settimane fa, ho avuto l’impulso di bussare alla vostra porta. Qualcuno m’ha risposto che non eravate in casa. Ma ora non posso più tacere. Vi chiedo se volete vedermi e ascoltarmi parlare di quest’opera e di questo sogno (Tosi 1948, p. 51).

Il musicista, che si trova intanto a Vienna, scrive a d’Annunzio il 30 novembre:

Caro Maestro, la vostra lettera mi ha raggiunto qui a Vienna dove passo qualche giorno mio malgrado. Vi prego di scusarmi se non ho potuto scrivervi subito della gioia che ho provato nel riceverla. Come potrei non amare la vostra poesia? Il solo pensiero di poter lavorare con voi mi dà una sorta di eccitazione febbrile (Ivi, p. 52).

A Debussy invierà i versi del Mistère, non rispettando la successione logica, ma secondo l’ispirazione. Il 2 marzo viene ultimata tutta l’opera, mentre il 9 dello stesso mese il testo viene letto agli attori principali. La prima messinscena è stabilita il 22 maggio 1911, al Théâtre du Châtelet (in una lettera del 23 gennaio 1911, rivolgendosi a Debussy, d’Annunzio medita «con profonda emozione all’ora santa in cui scriverete la prima nota dell’opera», cfr. D’Annunzio-Debussy 1993, p. 47), e il direttore sarà Desiré-Émile Inghelbrecht (il musicista annota: «Le giornate se ne vanno senza che me ne accorga: è subito domani. È angoscioso e insopportabile», cfr. Inghelbrecht 1953, p. 206). La partitura, tuttavia, è disponibile in tempo grazie all’intervento del giovane musicista André Caplet che completerà la strumentazione non del tutto terminata da Debussy, suo maestro. Caplet dirigerà anche la prima esecuzione. Tra d’Annunzio e Debussy s’instaura un’amicizia fraterna. Comunque, il compositore francese è particolarmente suggestionato dal genio creativo e artistico di d’Annunzio, il quale, in una lettera all’editore Clausetti di Ricordi, apparsa su «Il Giornale d’Italia» del 13 aprile 1911, afferma:

la musica del Debussy è d’una singolare bellezza.

Gli interventi musicali, inseriti nel Mistère, sono, in tutto, diciotto, in base alle precisissime indicazioni del poeta. Si tratta, in tutto, di quasi un’ora di musica, costituita da consistenti preludi orchestrali, da scarsi frammenti solistici vocali e specialmente da importanti interventi corali che commentano le azioni del Santo (i miracoli, le danze, la morte, l’apoteosi).

Con una certa freddezza furono accolte la magnifica invocazione del martirio di San Sebastiano e la scena del dardeggiamento degli arceri, svoltosi forse troppo al buio. Piacque invece grandemente il finale debussiano, di ispirazione altissima, che chiudeva con una mirabile pagina sinfonica il poema dannunziano. Il pubblico evocò allora parecchie volte gli interpreti alla ribalta. Complessivamente le chiamate alla fine degli atti furono una ventina (Corsi 1928, p. 118).

Contenuto e struttura

Prima mansione, La cour des lys (totale vv. 1-1591). La scena rappresenta un portico interno, dipinto col carminio, l’oltremare e l’oro. Attraverso le sette arcate del fondo aperte su azzurri giardini si vedono grandi fasci di gigli. Un’ara di marmo, consacrata agli Idoli, sorge nel recinto e uno spesso strato di carboni e di tizzi copre le lastre del pavimento. La folla in tumulto chiede al Prefetto che i due gemelli Marco e Marcellino subiscano il martirio per aver rifiutato di offrire un sacrificio agli dei. Neppure l’intervento della madre distoglie dal proposito i giovani martiri cristiani, che sono avvinti di corde alle due colonne di una stessa arcata, l’uno di fronte all’altro. Con loro è Sebastiano, coperto di armatura leggera, appoggiato sul suo grande arco, contempla in silenzio i giovani martiri. Si rivolge a Dio, chiedendogli un segno e lo ottiene: una freccia scoccata verso l’alto, non ricade al suolo ed egli inizia la danza sui carboni ardenti, asserendo di camminare su una distesa di gigli, inneggiando alla gloria di Cristo, mentre i cori angelici intonano canti di lode a Dio.

Seconda mansione, La chambre magique (vv. 1592-2931). Si vede una volta ellittica, di materia così nitida da riflettere tutte le immagini come uno specchio concavo. Una porta rettangolare ha due imposte e sette gradini, dipinti di colori planetari. Sebastiano entra in scena e con un martello intende abbattere la porta di bronzo che cela la misteriosa Camera Magica con la stanza dello zodiaco e distruggere gli idoli pagani che le sette maghe adorano. L’atto si conclude con l’esposizione della Sacra Sindone e il canto della Vergine Maria. 

Terza mansione, Le concile des faux dieux (vv. 2932-3604). Il vasto larario dell’imperatore Diocleziano è formato da una sala pentagonale, di cui una parete appare più profonda come una specie di abside dalla volta profondamente dorata. Sebastiano, dinanzi a lui, distrugge la lira, rifiutandosi di suonare le lodi per il dio Apollo, quantunque l’imperatore cerchi di fargli abiurare la fede cristiana, ma il santo non rimuove dal suo proposito. Diocleziano ordina che la sua testa venga poggiata sulla lira spezzata e soffocata sotto il peso di fiori e ghirlande, ma il santo non muore, mentre si levano le intonazioni funebri degli astanti.

Quarta mansione, Le laurier blessé (vv. 3605-3899). Gli antichi lauri del bosco di Apollo si ergono su una collina rotonda, sono folti, irti di foglie aguzze e circondano la santa radura occupata da un’ara triangolare. Tre donne sono sedute sui mucchi delle ceneri vetuste, taciturne, avvolte in mantelli neri. Il martire è legato al tronco per essere trafitto dalle frecce dei suoi arcieri come decretato dall’Imperatore. Uno di loro vuole metterlo in salvo ma Sebastiano affronta sorridendo il supplizio.

Quinta mansione, Le Paradis (vv. 3900-3938). Le porte del Paradiso si aprono alla sua anima, che fa ingresso nel giardino delle chiarità e delle beatitudini, accolto festosamente dagli angeli, dal coro dei martiri e delle vergini, dagli apostoli, che lodano Dio.

Stile e interpretazioni

Le martyre de Saint Sébastien crea una nuova drammaturgia, capace di raccontare non soltanto la storia affascinante di un’epoca ma anche di rivelarne i significati, le suggestioni, le emozioni. In un’intervista rilasciata a Rose Strunsky («New York Tribune», New York, 5 settembre 1915, p. 1), Bakst rivela alcuni elementi molto interessanti, parlando, dopo un po’ di tempo, della mise en scène del Martyre:

[…] È con le linee e con i colori che do vita alle mie emozioni […] A volte nella scenografia emerge l’aspetto puramente mistico, come nel San Sebastiano di D’Annunzio […] Siccome si trattava di un soggetto essenzialmente cristiano, mi sono servito della croce in mille variazioni come base della mia ornamentazione lineare, non soltanto celata e nascosta nei costumi, negli accessori e negli ornamenti della bella opera di D’Annunzio, ma anche nelle linee del paesaggio e degli edifici dello scenario. Il mio metodo generalmente è quello di adottare un motivo semplice e di ripeterlo in infinite variazioni, in modo da creare un’armonia di linea e di colore […] (Ibid.).

Bakst dimostra nell’elaborazione scenografica del I atto di conoscere lo sviluppo che assume la luce nel Medioevo, attraverso non solo le vetrate delle più importanti cattedrali francesi: Notre-Dame de Paris, Sainte-Chapelle e Chartres, ma anche attraverso l’assunzione del rosone a simbolo della funzione catartica della luce.

Bozzetto di scena per il I atto del Martyre de Saint Sébastien (Le Premier Palais, La Cour des Lys). Matita, acquarello, guazzo e oro, 43,4 x 58 cm

A questo risultato egli perviene facendo propria l’intuizione di Leonardo: della luce non come determinante plastica, che, attraverso il chiaroscuro modella i corpi, ma come mezzo espressivo della funzione atmosferica, cioè delle sue compenetrazioni con l’ombra. Non a caso, come nelle opere di Leonardo, anche in questo bozzetto si individuano due fonti di luce: l’una proveniente dai piccoli archi aperti sul piano più arretrato del fondale e un’altra che batte frontalmente e proviene dal punto in cui si colloca fuori del quadro l’osservatore-spettatore. Sicché nello spazio intercorrente tra la fonte di luce, che si irradia sullo sfondo oltre le arcate aperte, e la fonte di luce che batte frontalmente investendo i personaggi, si annida quell’ombra, in cui «tutta l’azione, per dirla con d’Annunzio, sembra svolgersi veramente», una costante che si ritrova anche nella scena del Prologo della Pisanelle .
Si riconosce, pertanto, a Bakst il merito di aver intuito sull’onda-lunga dello sfumato leonardesco che
la massima concentrazione dell’azione scenica non può che avvenire in una zona in cui regnano la penombra e l’ombra (zona intermedia dello spazio scenico).
Un’altra nota di originalità è la coesistenza del fascino di due mondi antitetici: orientale-occidentale. Bakst interpreta così l’orientamento estetico dannunziano, rendendo il potere di suggestione emotiva della luce, evocatrice di sogno e di fiaba. I colori, che campiscono le sagome delle figure dei personaggi in una tecnica a “tarsia”, ricordano non solo le prove della grande pittura, ma anche della pittura minore, espressa nelle miniature orientali. In una dimensione virtuale forse non è azzardato asserire che Bakst abbia racchiuso di proposito tutto l’impianto scenografico-architettonico dello spazio, che si riscontra nel I atto, in una cornice tipicamente orientale, persiana, in particolare. Il motivo di una “greca” ininterrotta, costituita da file di rombi nei quali si aprono, come petali di un fiore, vuoti polilobati (composti da spazi arcuati), inquadra la scena esattamente come, in un gusto squisitamente orientale, cornici decorative racchiudono la scena principale nei codici miniati persiani. Lo stesso motivo del rosone, a forma di un fiore, può assurgere a simbolo dello stesso vincolo miracoloso tra la cultura orientale e quella occidentale. Oltre che, come si è detto, nelle cattedrali francesi medievali, esso ricorre infatti persino nell’arte islamica e precisamente, per esempio, nelle illustrazioni miniaturistiche, come quella per le tombe dei Saadiens (Marrakech, Marocco, fine del XVI secolo).
Bakst, la cui formazione culturale è evidentemente complessa e stratificata, dimostra, inoltre, dopo averla assorbita, di superare la stessa concezione luministica medievale espressa dai motivi contraddistintivi dei rosoni delle vetrate delle cattedrali francesi. Infatti, egli applica la stessa funzione catartica della luce in una dimensione di spazialità tipicamente rinascimentale, dal momento che egli dispone per piani verticali/paralleli l’arretramento o avanzamento dello spazio, secondo le precise regole scientifiche della prospettiva. Non è casuale, pertanto, la rappresentazione in prospettiva centrale del cassettonato del soffitto, le cui linee convergono tutte nel punto centrale, detto punto di fuga (vedi anche il Cenacolo di Leonardo).
L’introduzione del motivo di decorazione geometrica a “scacchiera”
 ottenuta attraverso l’applicazione scientifica della prospettiva centrale nella determinazione del piano-terra (pavimento) o del soffitto è un elemento innovatore nella rappresentazione teatrale, che avrà larga fortuna nell’Art Nouveau successiva, in una linea di sicuro precorrimento iconografico.

Bozzetto di scena per il II atto del Martyre de Saint Sébastien (La Chambre Magique)

Bakst dimostra anche di aver assimilato il valore della luce in funzione di tono: disponendo lo scheletro architettonico degli esili pilastrini tortili, che reggono gli archi a pieno centro, in piena luce, li fa avanzare in primo piano (la legge dei tonalisti dice: «il colore più luminoso avanza verso lo spettatore rispetto ai colori più scuri che arretrano»). Per una rappresentazione teatrale, che si basa sugli effetti luministici, la conoscenza di questa legge costituisce un presupposto imprenscindibile. Sicché l’intera orditura della trama architettonica-compositiva dello scenario in questione risulta caratterizzata da una studiata distribuzione dei colori più luminosi (in primo piano), dei colori meno luminosi (in secondo piano o in piani intermedi). La scena rappresentata rivela, infatti, una raffinata sensibilità di luci e di ombre, in modo che, vista complessivamente, risulta un insieme di piani spaziali, avvolti in una diffusa luminosità, in cui i contorni, le linee, non sono quelle scure della tradizionale demarcazione, ma sono la luce stessa (a volte filiforme ma tagliente, come nei pilastrini e negli archi a pieno centro) emergente dai piani scuri. La luce, dunque, è modulatrice della forma e regolatrice della funzione delle forme, si libera dalla schiavitù della forma, divenendo l’elemento organizzativo ed espressivo dell’effetto scenico. Di qui si dipana lo sviluppo di quel filo conduttore che è la luce, che giunge fino alla pittura tonale del Veronese, del Tintoretto, del Greco, del Velázquez e del Rubens, i cui rapporti con Bakst la critica ha evidenziato, nelle cui opere la luce non si precisa come un aggregato di forme, ma come rappresentazione di mondi spaziali. I brillanti effetti di luce, di colore, che si riscontrano nella scena del I Atto del Martyre de Saint Sébastien, richiamano quelli del Rubens per la stessa forza vitale che presentifica tutto, in un solo istante, in una sola comprensiva immagine. Come nella pittura luministica del Rubens anche nella scenografica visione delle linee-colori-luci, gli apporti di varia provenienza (che abbiamo già individuati nell’architettura e nelle vetrate medievali delle cattedrali francesi fino al Caravaggio) non assumono il significato di “storia”, cioè di accumuli di significati stratificantisi sull’immagine, ma assumono lo scopo di garantire l’immediato, pieno, globale darsi delle immagini alla percezione visiva ed emotiva. Su questo profilo, sia Rubens, sia Bakst intendono servirsi della luce per attrarre lo spettatore all’interno della scena, aderendo ad una necessità propria del teatro 

Bozzetto di scena per il III atto del Martyre de Saint Sébastien (Le Concile des Faux Dieux). Acquarello e guazzo su carta, 62 x 66 cm


Nel bozzetto di scena del III atto
, infatti, compie un calcolo sottile delle quantità di luci connesse ai diversi timbri cromatici, per ottenere la maggiore altezza possibile del cielo, rasentando il bianco.
Come nel Bernini, anche nelle intenzioni di Bakst il motivo spiraliforme delle colonne serve ad avvitare lo sguardo dello spettatore/osservatore verso l’alto, dove c’è un soffitto non chiuso come impedimento visivo, ma a cielo aperto, grazie alla rappresentazione di un cielo e di un paesaggio, in cui sprofonda lo schermo stesso del soffitto. Per questa ragione è legittimo il riferimento che spesso si fa alla pittura del Veronese e del Tiepolo, giacché Bakst si avvale del colore luminoso, per aprire spazi di un’«altezza mai più raggiunta e misura spazi di una vastità e profondità rimaste senza uguali» (Argan 1993, p. 386).
È significativo che egli vi arrivi nel bozzetto di scena del III atto, partendo dalla prospettiva (cfr. la scena del I Atto, fig. 1, in cui la prospettiva è affidata al gioco dell’arretramento-avanzamento di piani verticali e paralleli fatti di sola luce, la cui forma è delineata dal disegno quasi fosforescente dei colori negli archi più grandi, nei quali si inseriscono gli archi più piccoli, sprofondando nello spazio vuoto e libero, diurno, dietro la quinta degli archi più arretrati). Lo stesso effetto di sprofondamento dello spazio, che è nella continua ricerca propria di Bakst, è raggiunto nel IV atto (
Le Laurier Blessé, fig. 5), non più per via prospettica, ma muovendo dalla sensazione empirica della luce, che ha la forza prorompente propria degli impressionisti: la forza di comunicare attraverso l’apparato visivo l’intensa e drammatica emozione. Il pittore/scenografo russo riesce a dare alle «sue composizioni un assetto drammatico di tipo teatrale, come a dire: non fateci caso, è tutto teatro, guardate i colori e non preoccupatevi del soggetto» (Argan 1993, p. 386). Bakst fa dunque il teatro per andare oltre il teatro, non per fare pittura fine a se stessa, ma per servirsi della pittura intesa come forza esplosiva e creatrice di intense emozioni, sicché la pittura va al di là del teatro, al di là della realtà e della finzione. Infatti, sarebbe superfluo andare a ricercare l’aderenza figurativa di ciò che l’artista rappresenta in questi fondali alla realtà storica e oggettiva del soggetto rappresentato. La visionaria realtà coloristica di questi fondali si sostituisce alla realtà naturale e storica, è la realtà dei moti convulsi dell’animo, delle struggenti passioni dell’uomo, del drammatico mondo interiore, in accordo con le indicazioni fornite da d’Annunzio.
Nota peculiare del IV atto è la conoscenza cromatica degli impressionisti. La liquescenza della luce attraverso i colori determina un susseguirsi di assi verticali paralleli tra di loro, che si infittiscono nei tronchi degli alberi a destra e a sinistra, rispetto allo spazio centrale dell’ampio stradone, man mano che dal primo piano lo sguardo si addentra nella profondità del campo. In primo piano, un baluginio di luce folgorante come una serpentina scuote verticalmente lo spazio della scena, provenendo dall’alto, in stridente contrasto, dallo sfondo scuro della verde chioma degli alberi.

Bozzetto di scena per il IV atto del Martyre de Saint Sébastien (Le Laurier Blessé). Acquarello e guazzo su carta

Come un fulmine che si abbatte improvviso sulla terra, proveniente dal cielo, questo baluginio produce lo stesso effetto psicologico di scuotimento dell’animo, che esercita il lampo che squarcia il cielo nella Tempesta del Giorgione. Il chiarore diffuso sul piano della terra, al centro del quadro, dissipa l’oscurità delle ombre delle chiome alte degli alberi, producendo un effetto scenografico di grande efficacia. Può dirsi che il momento culminante del dramma del martirio subito da San Sebastiano coincida con il momento di massima accenzione della luce di quella filiforme serpentina, a cui abbiamo fatto riferimento, e di quel bagliore quasi di un “flash” fotografico sparato sul tronco scuro dell’albero, che si allinea alla detta serpentina e agli altri tronchi laterali con la stessa regolarità di individuazione degli spazi, con cui Piero della Francesca allinea nel suo Battesimo di Cristo gli elementi verticali del corpo del Cristo e dei tronchi d’albero in primo piano. Come nell’opera citata di Piero della Francesca, anche in questo bozzetto di scena di Bakst la luce plasma i corpi solidi degli elementi fisici in un chiarore di spiritualità, che li accomuna. Se per i pittori impressionisti tutta la realtà è luce trasmessa dal colore, non ci possono essere ombre “nere”, poiché il nero è la negazione della luce, né sagome di figure tanto scure da rasentare il nero. Tuttavia, Bakst, per distinguere il misterioso effetto di luce, di cui vibra il paesaggio, dalla figura umana, individua tre sagome nere, scure, di tre personaggi, accostate, per formare un gruppo, in un effetto di scenografico contro-luce, nell’angolo in basso a sinistra. Viste di spalle queste figure, che sembrano quelle degli attori sulla scena, risultano figure di spettatori che assistono stupiti allo scenario paesaggistico di pura e magica luminosità dei colori, determinando il sorprendente risultato di creare un quadro nel quadro. In questo modo riesce a realizzare l’intento che egli più volte dichiara di voler perseguire: di avvicinare il pubblico alla scena e agli attori e viceversa, in un possibile rapporto di diffusa reciprocità. L’effetto finale dell’incantamento si avvale di un silenzio che regna sovrano nello scenario naturalistico, in assenza della figura umana, giacché le stesse tre sagome scure delle tre donne passano quasi inosservate, confuse come macchie scure con le liquescenti masse chiare dei colori luminosi. Il fascino primordiale di una natura incontaminata, nell’arcano silenzio suscitato, sembra sprigionare attraverso la forza della luce, senza voler essere contaminato neppure dall’ombra della figura umana. In una dimensione ideale si potrebbe ipotizzare che Bakst, per deliberato proposito, o solo anche inconsciamente, abbia voluto contrapporre simbolicamente il valore della luce (allusione alla Vita) al valore dell’ombra (allusione alla Morte). È il mistero della fede che si rinnova: le tre figure femminili, così misteriose nell’ombra che le determina, esprimono lo stesso intimo raccoglimento nel dolore e nella preghiera delle tre donne piangenti ai piedi della croce, su cui l’Uomo-Cristo ha subito per primo lo stesso martirio che subisce ora San Sebastiano legato al lauro. Iconograficamente il rapporto tra il tronco d’albero in primo piano, segnalato dal colpo di “flash”, di cui si è detto prima (corrispondente al braccio lungo della croce di Cristo), e le tre pie donne è lo stesso rapporto tacito ma eloquente che intercorre tra la croce di Gesù e le tre figure femminili. Il silenzio incantato di una rappresentazione quasi soprannaturale della natura, espresso nel suo linguaggio tacito (non fatto di parole ma di segni simbolici e di rapporti tonali), è, come gli impressionisti avevano insegnato, l’esito finale di una concezione della luce, che è veicolo di trasmissione di una sensazione visiva, a cui corrisponde inevitabilmente una sensazione emotiva. Carico di pathos emotivo è il colore in funzione di luce in questo fondale.
La prevalente tonalità d’un rosso diffuso, pur nelle infinite modulazioni di luce, che ricopre come una pellicola fotografica l’intero fondale, diviene davvero il tramite emotivo di congiunzione tra la scena e lo spettatore, tra l’ambiente evocato e la folla, che, non più semplicemente spettatrice, rivive e patisce lo stesso dramma passionale messo in scena. Il rosso deve esprimere, come dichiara lo stesso Bakst in una lettera a d’Annunzio del 10 novembre 1910 (Maver Lo Gatto 1978, pp. 54-55), una passione coinvolgente e affollante, ricongiungendosi così, oltre all’impressionismo, sull’onda dell’espressionismo simbolico, alla stessa considerazione del rosso, come veicolo di trasmissione della passione e della drammaticità scenica, che ebbe Moreau, come si può riscontrare nel
Moïse sauvé des eaux, vers 1893. Nel rosso dello sfondo, come nel sangue, affoga la passione.
Se confrontiamo la Guarigione del Cieco di El Greco con il bozzetto del IV atto, lo stesso alone rossastro diffuso sull’intera superficie pittorica esprime la medesima «bruciante e visionaria luminosità» (Argan 1993, p. 386). Impressionanti sono le analogie tra il guizzo serpentinato, quasi fulmine abbattutosi sulla terra, e «gli allucinati guizzi luminosi dell’altarolo estense» (Ibid.) nel dipinto di El Greco.
Di qui l’originalità del teatro dannunziano, capace non soltanto di raccontare la storia affascinante di un’epoca ma di rivelarne i significati, le suggestioni, le emozioni.

 

Bibliografia primaria

Gabriele d’Annunzio, Le martyre de SaintSébastien, Paris, Calmann-Lévy, 1911 (Prima edizione della traduzione francese).
Gabriele d’Annunzio,
Il martirio di San Sebastiano, Milano, Treves, 1911.
Gabriele d’Annunzio,
Le Martyre de Saint Sébastien, Verona, Bodoni (Mondadori), 1927 (Istituto Nazionale per la Edizione di Tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio).
Gabriele d’Annunzio,
Le Martyre de Saint Sébastien, Il Vittoriale degli Italiani, 1939.
Gabriele d’Annunzio,
Le martyre de Saint Sébastien, in Tutto il teatro, III, a cura di Gianni Oliva e Giovanni Antonucci, Roma, Newton Compton, 1995.
Gabriele d’Annunzio,
Il Martirio di San Sebastiano, Introduzione e note di Rossella Palmieri, Bari, Palomar, 2010.
Gabriele d’Annunzio,
Il martirio di San Sebastiano, a cura di Maria Paola Sorge, Roma, Elliot, 2013.

Bibliografia secondaria

d’Annunzio-Debussy, Mon cher ami. Epistolario 1910-1917, Prefazione di Cesare Mazzonis, Firenze, Passigli, 1993, p. 47.
D’Annunzio e il teatro
, numero speciale di «Scenario», 4 aprile 1938.
Gabriele d’Annunzio, Léon Bakst e i Balletti russi
di Sergej Djagilev, Atti di Convegno (Roma, Biblioteca nazionale centrale, 4-5 marzo 2010), a cura di Carlo Santoli e Silvana De Capua, «Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma», 15, Roma 2010.
d’Annunzio e l’innovazione drammaturgica
, Premessa di Elena Ledda, Saggi introduttivi di Giovanni Isgrò e Carlo Santoli, numero speciale di «Sinestesie», 24, 2022.
Giulio Carlo Argan,
Storia dell’arte italiana, III, Firenze, Sansoni per la Scuola, 1993, p. 386.
Mario Corsi,
Le prime rappresentazioni dannunziane, Milano, Treves, 1928, p. 118.
Eurialo De Michelis,
Tutto D’Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 366.
Emerico Giachery, «
L’incontro fra D’Annunzio e Debussy», in Id., Verga e D’Annunzio, Roma, Studium, 1991, p. 171.
Germaine e Désiré-Émile, Inghelbrecht,
Claude Debussy, Parigi, Costard ed. 1953, p. 206.
Giovanni Isgrò,
D’Annunzio e la «mise en scène», Palermo, Palumbo, 1993, pp. 166-169.
Giovanni Isgrò,
Il paesaggio scenico di Gabriele D’Annunzio, Roma, Bulzoni, 2024, pp. 60-69.
Anjuta Maver Lo Gatto,
Otto lettere inedite di Léon Bakst a D’Annunzio, «Quaderni del Vittoriale», n° 7, gennaio-febbraio 1978, pp. 54-55.
Paola Martinuzzi,
Il ‘Saint Sébastien’ di D’Annunzio. La sua prima rappresentazione parigina e la versione di Robert Wilson, Venezia, Editoria Universitaria, 1999.
Maria Pia Pagani
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Le théâtre de Gabriele d’Annunzio et lart décoratif de Léon Bakst. La mise en scène du ‘Martyre de saint Sébastien’, de ‘La Pisanelle’ et de ‘Phèdre’ à travers ‘Cabiria’, Paris, PUPS («Jalons»), 2009.
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Omaggio a Djagilev. I Ballets Russes (1909-1929) cento anni dopo, Avellino, Vereja, 2011 (Collana Europa Orientalis 16).

Fonte iconografica

Le immagini sono tratte da:

L’Arte del Tragico. L’avventura scenica del ‘Martyre de Saint Sébastien’ di Gabriele D’Annunzio dal 1911 ad oggi, a cura di Carlo Santoli, prefazione di Annamaria Andreoli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, p. 55 (II atto)
Carlo Santoli, Le théâtre de Gabriele d’Annunzio et l’art décoratif de Léon Bakst. La mise en scène du ‘Martyre de saint Sébastien’, de ‘La Pisanelle’ et de ‘Phèdre’ à travers ‘Cabiria’, Parigi, PUPS («Jalons»), 2009, pp. I, II (I, III e IV atto, Collezione Thyssen-Bornemisza: I atto, Cliché Bibliothèque nationale de France, Paris: III e IV atto)

Un particolare ringraziamento agli Archivi e alla Biblioteca del Vittoriale, Dott. Alessandro Tonacci e Dott.ssa Roberta Valbusa.

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