di Massimo Migliorati, Enciclopedia dannunziana
I rinvii a d’Annunzio che si recuperano negli indici dei volumi della Vita d’un uomo dedicati a Saggi e interventi e a Viaggi e lezioni non sono molti; se si leggono i corrispondenti loci risulta evidente che l’opera del poeta di Pescara non è occasione di analisi o confronto, ma il rimando s’intende a un autore già nel Pantheon della letteratura nazionale. A una conclusione analoga si giunge compulsando gli epistolari con Leone Piccioni, Carlo Betocchi, Piero Bigongiari, Vittorio Sereni.
Luciano Rebay ha appurato che Ungaretti, già sul «Messaggero egiziano» del 7 giugno 1911,
tesseva fervidi, e sarebbe più preciso dire infuocati elogi di Gian Pietro Lucini e Gabriele d’Annunzio, componendo per le revolverate del primo […] e il Martyre de Saint Sebastien del secondo, forse le più entusiastiche recensioni che quelle opere abbiano mai ricevuto (Rebay 1980, p. 6).
Nel giugno del 1916, tuttavia, Ungaretti prende le distanze da una poesia giudicata facilmente riconoscibile, e in una cartolina a Papini scrive:
benché faccia poesia da quattordici anni (e molto precoce mi sono rivolto verso Mallarmé e Leopardi) (non ho mai scritto un verso ‘a ritmo di piedi’, mai, neanche da ragazzo) (quando in Italia erano tutti dannunziani, ero in un’altr’aria, di già) (Ungaretti 1988, p. 43).
Nel carteggio con Papini Ungaretti non risparmia stilettate: la lettura è interessante sia perché i rinvii a d’Annunzio nelle carte successive sono scarsi, sia perché in quegli anni il Vate è pienamente attivo sulla scena politica e culturale italiana; una figura con cui occorre, giocoforza, confrontarsi. Queste dichiarazioni, oscillanti tra elogi pubblici convinti e palesi riserve private, potrebbero essere assunte a paradigma del giudizio che Ungaretti ebbe sempre dell’opera e della figura del poeta Vate.
In una lettera del 24 giugno 1916, riportando parole già spedite a Fernand Divoire, scrive: «ho detto che quando si dovrà cercare il senso intimo di questa generosa simpatia italiana verso i francesi non si consulterà ‘notre d’Annunzio national’» (Ungaretti 988, p. 47); e due anni dopo, nel gennaio 1918, rincara la dose risparmiando anche il filtro dell’ironia:
rimango il nomade sulle strade, alla ricerca di quella che mi conduca alla mia meta; ma d’Annunzio non è un nomade; è un ‘esibizionista’ un ‘épateur’, se gira il mondo lo gira ‘pour épater le bourgeois’, la sua azione in questa guerra ha bene questo senso, come ogni altra sua azione; se dobbiamo giudicarlo come poeta, è un conto, e lì dentro non c’è anima, c’è sensualità, a volte prodigiosamente resa, a volte morbosamente, c’è un dilettantismo delle parole, come può essere quello di tizio che fa collezione di francobolli; un gusto da mosaicista; ma mettere un’anima in tutto questo, no e poi no e poi no (Ungaretti 1988, p. 183).
Il giudizio, che distingue il soldato dal poeta, è netto, eppure non è una condanna; in una lettera dell’agosto dello stesso 1918, propone a Papini: «pensavo a un’antologia delle cose dei nostri migliori dopo d’Annunzio, te e Soffici in testa» (Ungaretti 1988, p. 217), segno che la posizione nel canone letterario è riconosciuta. Infatti, all’inizio del 1919 annuncia allo stesso l’intenzione – che non ebbe seguito – di recensire la biografia del pescarese scritta da André Geiger. Nell’agosto dello stesso anno, quando l’«Intransigeant» pubblica uno scritto che offende lo spirito del popolo italiano, Ungaretti risponde sulla rivista «La vraie Italie», rivolgendosi al direttore del giornale francese:
rappelez-vous aussi, monsieur, ce que fut l’année 1914-15 pour l’italie. il s’agissait alors da faire passer dans toute âme italienne un grand élan d’amour pour la france. c’est à l’oeuvre d’hommes comme d’Annunzio, Mussolini, Soffici et Papini que cela est dû (Ungaretti 1981, p. 61).
In evidente contraddizione con quanto scritto a Papini del 24 giugno 1916, scrive forse motivato da qualche tentazione opportunistica, visti i personaggi citati. Ungaretti insomma sembra impiegare in modo disinvolto il nome di d’Annunzio – e la sua notorietà negli ambienti culturali – senza troppi scrupoli, salvo confessare in sedi private la sua disaffezione.
In una lettera a Papini del novembre 1919 si legge un commento favorevole all’impresa fiumana: «non credo che ci sia dell’intruglieria di denari dietro a d’Annunzio. Il suo gesto era uno di quelli che per l’onore del nostro paese doveva essere compiuto» (Ungaretti 1988, p. 285). Esprime piena approvazione dell’azione su Fiume e, nel contempo, prende le distanze sia dalle insinuazioni di Papini, sia dal proprio giudizio di un vate ‘épateur de la bourgeoisie’. E non si tratta di un caso isolato: quando chiede una valutazione del suo articolo Roma africana, giudicato irriverente – motivo per il quale viene rimosso dal «Corriere Italiano» – invita Soffici a sottoporre l’articolo stesso e «tutti i fatti della mia vita, in pace e in guerra […] a tre persone, tra le quali il maestro di noi tutti, Gabriele d’Annunzio» (Ungaretti 1981, p. 111). Ancora: nella testimonianza rilasciata per il processo a Maurice Barrès, intentato dal gruppo dadaista parigino nel 1921, d’Annunzio viene detto coraggioso, sì, ma non dotato della necessaria «finesse» (Ungaretti 1974, p. 894). In Per Mallarmé, un articolo apparso su «Il Tevere» nel 1929, Ungaretti si domanda se Versilia «avrebbe avuto quella potenza unica che ha, di evocazione e di trasfigurazione, senza l’Après–midi d’un faune» (Ungaretti 1974, p. 209); sottolinea cioè il debito contratto con Mallarmé più che i punti di forza del testo. Anche nel 1926, quando si propone a Mussolini per un ruolo nella neonata accademia d’Italia, scrive: «il nome di d’Annunzio è sacro a tutti noi. E il primo […] tra i giovani poeti, c’è il sottoscritto» (Petrocchi 1997, p. 205).
Questa breve rassegna conferma quel che si anticipava circa il giudizio non univoco di Ungaretti a proposito dell’opera e dell’uomo; è la stessa conclusione a cui giunge Mario Petrucciani (1993, p. 64), rileggendo i contributi critici che hanno indagato il rapporto intercorso fra Ungaretti e d’Annunzio: se ne deduce, scrive, «una oscillazione tra consenso e dissenso, ossequio e dispetto, coinvolgimento e rigetto: forse un disagio via via messo a tacere ma mai del tutto eliminato».
È stata studiata la possibile influenza della poesia dannunziana quando Ungaretti era ancora in vita. In uno dei primi saggi sulle radici della poesia ungarettiana, Luciano Rebay ha individuato alcune tracce tematiche che deriverebbero in gran parte dall’Alcyone: la comune predilezione per il tema del demone meridiano avrebbe il testo antesignano, per entrambi i poeti, nell’Après-midi d’un faune di Mallarmé. Un acquisto non mediato dalla Bibbia sarebbe invece la figura di Caino; scrive Rebay (1962, p. 175):
la reminiscenza del ‘fanciullo’ dell’Alcyone ha avuto un peso non trascurabile – è evidente – sull’ispirazione del ‘Caino’ del Sentimento, malgrado le altrettanto evidenti diversità fra le due composizioni, e nonostante il fatto che, generalmente parlando, l’arte lirica di Ungaretti – così controllata, così sofferta, così tesa verso l’essenziale – rappresenti proprio gli antipodi della poesia abbandonata, esuberante e non di rado prolissa e iperbolica di Gabriele d’Annunzio.
Sullo stesso terreno si è provato qualche anno dopo anche Pietro Spezzani (1966, p. 107), e il catalogo dei loci che potrebbero derivare dalle opere di d’Annunzio è davvero nutrito; l’indagine, conclude, mostra come Ungaretti «abbia potuto attingere in particolare da d’Annunzio, dai futuristi e da Rebora». A conclusioni simili giunge Carlo Ossola (1975, p. 171) nel suo Giuseppe Ungaretti, dove sostiene che l’Allegria e il Sentimento, rielaborate nello stesso torno di anni, mostrano tracce delle Laudi (in particolare dell’Alcyone), a testimonianza del tentativo di riappropriarsi del «‘sublime’ d’en haut rappresentato dall’esperienza dannunziana». Non solo: Ungaretti avrebbe portato a «saturazione semantica» alcune combinazioni lessicali di matrice alcionia grazie al reimpiego insistito di moduli sintattici, in particolare di quelli fondati sulla ripetizione (ripresa, asindeto, antitesi e coordinazione, adnominatio e cataloghi appositivi). Ossola conclude che «la straordinaria imitazione, tematica e sintattica, dei moduli dannunziani tocca il suo culmine nel Sentimento del tempo» (ivi, p. 175).
Un capitolo interessante riguarda la possibile origine nipponica dell’intuizione che diede alle prime poesie di Ungaretti l’inconfondibile brevità, la sintassi semplificata e la capacità evocativa delle parole, dovuta anche all’isolamento in brevi versicoli. Queste novità sarebbero suggerite dalla lettura della poesia giapponese nella sua forma più tradizionale e diffusa: gli haikai. La conoscenza di questa forma poetica sarebbe stata favorita dalla frequentazione di Gherardo Marone, amico napoletano dei primi anni dieci, nonché esperto della letteratura giapponese e direttore della rivista «La Diana», su cui Ungaretti aveva pubblicato alcune delle prime composizioni, e dove già nel 1915 erano state ospitate traduzioni di haikai curate da Marone e da Harukichi Shimoi, docente all’istituto orientale di Napoli; scriverà Marone (1934, p. 110) anni dopo:
il carattere più manifesto di quella lirica è la straordinaria brevità: una illuminazione improvvisa nel giro di poche parole. Si trattava veramente di una grande poesia che seduceva e incantava. Fu allora che tutta la giovane Italia si mise a rifare giapponeserie.
Frasi riferite anche a Ungaretti, ma la probabile influenza non era passata inosservata: Enzo Palmieri nel 1933 aveva già alimentato qualche sospetto circa una possibile derivazione della novità poetica ungarettiana da componimenti giapponesi; il poeta si era difeso con toni accesi. In uno dei contributi recenti su questo tema, Daniela Baroncini (2015, p. 167), oltre a ricordare che Ungaretti potrebbe aver conosciuto la poesia giapponese in Francia, dove antologie si pubblicavano molti anni prima che in Italia, e che il Giappone aveva interessato Marinetti e Govoni all’alba del secolo, scrive che proprio d’Annunzio fu il primo interprete in Italia del giapponismo, in un intreccio originale di letteratura, arte e moda», e conclude
si potrebbe quindi supporre un influsso dannunziano che sinora non è stato menzionato negli studi sui rapporti tra Ungaretti e i poeti giapponesi. In effetti d’Annunzio fu particolarmente sensibile alla moda del japonisme, che si riflette nei suoi articoli giornalistici, nei racconti mondani, nel Piacere e nelle poesie, ad esempio in Outa occidentale.
Che Ungaretti conoscesse bene le opere in prosa lo conferma Commemorando Gabriele d’Annunzio, il discorso tenuto in Brasile nel trigesimo della morte del pescarese. Sfrondato degli argomenti relativi a Dante e Petrarca, autori su cui lavorava Ungaretti in quei mesi, e dell’enfasi retorica dettata dall’opportunità, non dice tuttavia molto delle poesie; sono presi in esame i romanzi Il piacere, Giovanni Episcopo e L’innocente, pubblicati fra il 1889 e il 1892, e solo incidentalmente Forse che sì forse che no (1910). Più che i motivi, o le caratteristiche dello stile, come ci si potrebbe attendere, sono esposte le trame, con alcuni commenti. Il testo si avvia al congedo però su questa affermazione:
ora dovrei affrontare l’opera poetica più propriamente detta di d’Annunzio: le Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi. È un’opera vastissima e per il numero delle cose che muove, paragonabile – il paragone è di d’Annunzio stesso – alla Divina Commedia. L’esame di questa poesia solleverebbe infiniti problemi d’ordine estetico e tecnico, e sarebbe abusare della vostra pazienza intraprenderlo stasera. Lo farò nella lezione pubblica che devo tenere prossimamente per incarico della nostra facoltà (Ungaretti 2000, p. 725).
Della lezione, se mai fu fatta, non rimane testimone fra le carte del poeta professore. Eppure alcune tracce di d’Annunzio restano nelle opere ungarettiane, come hanno appurato anche studi recenti: scrive Antonio Saccone che l’avantesto di Lucca ha tratti riconducibili alle atmosfere delle Novelle della Pescara, da cui deriverebbero anche alcuni residui lessicali, come evidenzia Paola Montefoschi. Alcune suggestioni dall’Alcyone sono rilevate da Niva Lorenzini, sia nell’Allegria, sia nel Sentimento del tempo. Anche per la stesura della Terra promessa, opera della piena maturità, Ungaretti sembra avere sottomano alcuni testi di d’Annunzio se, come propone Ossola, Variazioni su nulla è debitrice di La sabbia del tempo, uno dei Madrigali dell’estate alcioniana. Entrambi i testi, scrive, oltre a svolgere il medesimo tema dello scorrere inesorabile del tempo e del nulla che ne rimane, sono costruiti sui «movimenti di mano – sabbia – clessidra» (Ossola 1975, p. 422). Il confronto sinottico permette di apprezzare che ai tratti comuni già indicati da Ossola si possono aggiungere il rilievo dato ai fenomeni meteorologici: l’«umido equinozio» in d’Annunzio e la «nube» su cui insiste Ungaretti; insieme al «tacito quadrante» e il «nonnulla silente», suggestioni della sfera auditiva che chiudono, in posizione di rilievo, entrambi i testi.
Le opere di d’Annunzio, dunque, benché mai lodate pubblicamente, furono certo presenti a Ungaretti, sia durante le fasi di lavorazione e rifinitura dell’Allegria e del Sentimento del tempo, nel tentativo di trovare soluzioni originali e, al tempo stesso, in consonanza con il programma di rappel à l’ordre proposto dalla «Ronda»; sia, più tardi, quando Ungaretti pose mano ai testi della Terra promessa, in cui Enrico Tatasciore (2020, pp. 140-141) ha individuato echi di Commemorando Gabriele d’Annunzio letto a San Paolo.
Bibliografia
Daniela Baroncini, Ungaretti e la poesia giapponese: per una rilettura dell’Allegria, in Tra grido e sogno. Forme espressive e modelli esperienziali nell’Allegria di Giuseppe Ungaretti, Atti del Convegno (Friburgo, 20-21 marzo 2014), a cura di Uberto Motta, Bologna, Emil, 2015.
Gherardo Marone, Poesia e moralità, in Idem, Pane nero, Lanciano, Carabba, 1934.
Paola Montefoschi, Le eclissi della memoria, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988.
Francesca Petrocchi, Scrittori italiani e fascismo. Tra sindacalismo e letteratura, Roma, Archivio Guido Izzi, 1997.
Mario Petrucciani, Poesia come inizio. Altri studi su Ungaretti, Napoli, ESI, 1993.
Luciano Rebay, Le origini della poesia di Giuseppe Ungaretti, prefazione di Giuseppe Prezzolini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962.
Luciano Rebay, Ungaretti: gli scritti egiziani 1909-1912, «Forum Italicum», 14, 1980.
Antonio Saccone, Ungaretti, Roma, Salerno, 2012.
Pietro Spezzani, Per una storia del linguaggio di Ungaretti sino a Il sentimento del tempo, in Fernando Bandini, Lorenzo Polato, Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana, 1966.
Carlo Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1975.
Enrico Tatasciore, Moderne parole antiche, Milano, Prospero editore, 2020.
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969.
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Carlo Ossola, Milano, Mondadori, 2009.
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974.
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di Paola Montefoschi, Milano, Mondadori, 2000.
Giuseppe Ungaretti, Lettere a Soffici 1917-1930, a cura di Paola Montefoschi e Leone Piccioni, Firenze, Sansoni, 1981.
Giuseppe Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini, a cura di Maria Antonietta Terzoli, introduzione di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1988.