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Profumo

di Paola Goretti, Enciclopedia dannunziana

Un santuario olfattivo

Se Il verso è tutto, anche Il profumo è tutto, per perfetta traslazione aerea. Che anch’esso “Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posseder il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto.” (Il piacere).
Il Profumo sta a d’Annunzio come l’aria all’ispirazione, l’acqua alla pioggia, la terra alle radici, il fuoco a se stesso, ignifugo e salamandrato: “La resina frigge, sgrigiola, stroscia. I vaselli d’argilla, bollenti, roventi, traboccanti, saltano, ricascano, scoppiano come le bombe manesche. Ogni raffica dardeggia miriadi d’aghi rossi. Per entro al fragore una melodia misteriosa si disegna, si allunga, fluisce. Cantano le Salamandre?” (Notturno). È scienza consolidata indispensabile, talmente ovvia da diventar tutt’uno col quel mitridatico corpo che si ergeva a guisa di telamone nella scienza e nell’arte della vita; nell’osceno e nella grazia, nella prestanza degli erculei amplessi e nella tanto invocata pudicizia: sempre capolavorando, all’interno di un sogno imbibito di riflessi antichizzanti e slarghi senza confini. Officiante la bestia spasimante dell’olfatto.
Solo ad un primo sguardo il Poeta sembra incappare nell’effetto “madelaine”, dove l’odore porta con sé stratificazioni del tempo andato e subitamente evocato; in verità, il suo vortice elettivo si sostanzia diversamente e il profumo – per Lui – non è un innesco memoriale; piuttosto, un passionario oracolare incessantemente convocato, un’assunzione di vita precedente e presente, un’efficacia trasmutativa del pensiero psicomagico in cui gli assalti del mondo percettivo interiore si riverberano nelle azioni da compiere: nell’estasi di una creatività inarrestabile.
Analogamente alla Pizia – avvolta nei vapori esalanti da una fenditura della terra, seduta su un tripode per convocare il vaticinio e pronunciarlo in versi esametrici – Ariel addensa il suo spirito nel tripode di un alfabetiere olfattivo dai mille composti e, ispiratisssimo, compone arcane salmerìe. Il suo belvedere è colmo di irrequietudini senza sosta da dispensare negli assalti del corpo e nelle adunanze dello spirito, avanzando tra presagi, oracoli, avvertimenti subitanei. Pungolato di ansietà tumultuosa, nel torneamento fiammeggiante di puro ardore; anzi no, lui avrebbe detto, “d’ardenza”, per quella stravaganza d’inventar vocaboli che non lo avrebbe sfiancato mai.
L’alabarda di ogni suo gesto è suffragata da un’improntitudine senza temenza, col cuore gonfio di idoli toscani che apprestano agli inscheletrimenti dell’ora, mentre il guscio di carapace della sua anima partecipa di virtù afrodisie. Così, dopo stagioni di intere trasmutazioni e cambi d’abito, cosa inventarsi che non fosse già stato ideato e assaporato? Sottilizzare i profumi, naturalmente…
Argonauta in esilio forzato (Auronauta, meglio sarebbe dire; e ancor meglio Eternauta), da Fiume scrive d’Annunzio in data 3 marzo 1920, forse già intento all’abbandono dell’avventura utopica per trovar ristoro nell’ebbrezza odorosa; o forse ancora già strologando la programmazione di nuove epifanie messianiche a cui l’intera sua condotta si sarebbe ispirata, tutto mitologizzando:

Caro Signore,
è ottima cosa inventare nuovi profumi in una Italia che fabbrica ogni giorno tanti cattivi odori e vanitosamente li esporta a Parigi, o a Londra.
È bizzarria non senza grazia chiedere i nuovi nomi a chi nella sua fatica e nella sua lotta è costretto di trascurare tutte le delicatezze, anche quelle dei droghieri croati.
Ma oggi Fiume è coronata di violette, come l’antica Atene.
E oggi la violetta di Fiume è la più odorosa violetta del mondo. Sola mihi redolet. Ecco i nomi. Buona Fortuna
(Fiume d’Italia, 3 marzo 1920).

Ecco il Poeta in contatto con la L.E.P.I.T. di Bologna (attiva fino agli anni ’40) che nel 1921 a lui si
rivolse per l’ideazione di una linea specialissima, a suggello delle imprese istriane, come liquidando i residui più aspri del tocco soldatesco e volgerli in virtù meditabonda. Egli la chiamò I Profumi del
Carnaro, accompagnandola col motto Cum lenitate asperitas, e assegnando titolazioni che ribadivano l’elogio dell’italica stirpe, secondo i proponimenti della ditta esplicitati nel retro dell’opuscolo informativo. Con orgoglio la Lepit proclama di avvalersi di maestranze interamente italiche, per la fabbricazione di profumi altrettanto interamente italici: nella sostanza, nel nome, nel battesimo. Il fascicoletto tutti li annuncia: La Fiumanella; La brezza del Carnaro; La Rosa degli Uscocchi; La Liburna; Il Lauro di Laurana; L’Ardore del Carso; L’Alalà.
L’impianto grafico (flaconi, etichette, scatole e illustrazioni dell’opuscolo) venne affidato – come di
consueto – ad Adolfo de Carolis (i flaconi, realizzati a Murano nella vetreria Barovier; la confezione dalle cartiere Miliani di Fabriano; i cofanetti dalle Grafiche Baroni di Milano) che escogitò soluzioni iconografiche vincenti. Tornita come una Venere michelangiolesca e incastonata all’interno di un medaglione vegetale, una figura accovacciata troneggia al centro della scena sotto un getto d’acqua zampillante; è lo stesso zampillìo che si evince nella Fiumanella, lo stesso della targa – sempre ideata da de Carolis nell’impaginato di un francobollo celebrante la reggenza italiana del Carnaro poi eseguita da Mario Buccellati – col motto Indeficienter (incessantemente) recante l’effigie di un vaso sgorgante acqua, circondato da un ramo a ferro di cavallo con fronde di quercia.
Come in un pentagramma che applica gli stessi repertori (sempre gli stessi sono i codici delle
corrispondenze: scultoree, poetiche, olfattive), la matrice celebrativa incalza. E dai profumi di Fiume a quelli del Benaco il passo è breve. Sebbene non di ideazione dannunziana, gli Archivi del Vittoriale conservano un corpus di cartoline benacensi ideate dalla Premiata Fabbrica Profumerie di Lusso Cortellazzo di Brescia riportanti una sorta di versione romantica delle titolazioni precedenti, tra glorie patrie e odi catulliane: La rosa dei Carolingi; Il Giglio di Erculiano; La Passione di Catullo; Le Giunchiglie dell’Isola; Il Lauro del Benaco; La carezza di Lalage; Soave Sirmio.
Nel suo olfattorio, anche l’odore archeomitologico del Garda non sarebbe passato inosservato; né i versi di Catullo (Carmina, Liber I-13) incitanti a un vivere bellissimo (Libro Segreto):

Voglio gettare nel Benaco presso il lito di Catullo, il cofforetto d’argento che ha sul coperchio figurati a opera di smalto i miei tre cavalli arabi del più florido tempo di mia vita quando il Deserto d’Arabia mi fece dimenticare la Campagna romana. È il dono di Hasan in commiato. Conteneva un unguento composto per me da un aromatario del Suk el Attarin: forse migliore di quello che Catullo offriva a cena, quod tu cum olfacies deos rogabis totum ut te faciant nasum.

Una sorta di viatico per le ideazioni postume, a garanzia di una segnatura destinale (Hic Manebimus Optime) che lo rinsaldava alle acque lacustri di zefiro schietto.

Subtilitas

Sono i profumi a chiudere il solenne documento testamentario dove il Poeta dichiara i suoi intenti verso lo Stato italiano: quel mirabile “saggio di arte notària” avviato 22 dicembre 1923 e perfezionato il 7 settembre 1930 in cui si suggella l’atto di donazione del Vittoriale. Tutta la configurazione dei proponimenti risulta essere un disegno molto preciso in cui libri, ornamenta, glorie, tributi et alia prendono posto in una visione meticolosa che non si limita semplicemente a un’accurata regia prospettica, divenendo dottrina di legamento spaziale e temporale:

Tutto è qui dunque una forma della mia mente, un aspetto della mia anima, una prova del mio fervore. […]. Anche da poco ho fondato il Teatro aperto, e ordinato le scuole le botteghe le officine a rimemorare e rinovellare le tradizioni italiane delle arti minori. Batto il ferro, soffio il vetro, incido le pietre dure, stampo i legni con un torchietto che mi trovò Adolfo piceno, colorisco le stoffe, intaglio l’osso e il bosso, interpreto i ricettari di Caterina Sforza, sottilizzo i profumi.

Sottilizzo i profumi. Sebbene negli Archivi non vi sia traccia del volume di Caterina (probabilmente faceva parte del corpus di oggetti della Capponcina, andato distrutto) è evidente che il Poeta possedeva l’anastatica degli Experimenti pubblicata da Pier Desiderio Pasolini nel 1893. O, più probabilmente, quella del ’94. Pasolini, che dapprima l’aveva annessa all’appendice documentaria dei tre poderosi volumi dedicati all’illustre signora, nel 1894 – per conto della Tipografia Galeati di Imola – l’aveva editata in veste singola. Il volume di quell’anno fu infatti concepito fin dall’inizio in un numero esiguo di esemplari – appena 102 – destinandolo alla rarità bibliografica e limitando la sua notorietà a un pubblico ristretto di estimatori: alcuni celebri come d’Annunzio.
A parte la fortuna critica e l’indagine esegetica (il testo è un monumento del pensiero cosmetico di prima età moderna comprendente 454 ricette sintetizzanti un fitto sistema di corrispondenze). In esso convergono scienza aromatica, gastronomia, alchimia, medicina, magia, astrologia, malacologia e lo scibile appartenente al gran libro della Natura. Un poderoso sistema di connessioni che coesiste e si alimenta vicendevolmente, una misura unificante di saperi in cui ciò che è sopra è uguale a ciò che è sotto. Nell’incalzante rivoluzione carneggiante del vivere terreno ribollente di sensi e complessità), esso è, per il Vate, una ghiottoneria in cui tuffarsi con ardore.
Questo era lo statuto che d’Annunzio assegnava ai profumi. Non solo la suprema dignità (la stessa di statue, medaglie, iscrizioni), tanto da farli figurare accanto alle altre pratiche artigianali, ma la
consapevolezza che attorno ad essi si sostanziava un intero universo di relazioni. Arte suprema
dell’estremo presente – e tuttavia immortale nella sua volatilità – il profumo diveniva un nodo carnale contemplante infiniti innesti, nei presagi della vita interiore (e anteriore) mossi da un sentire totalizzante. Un centro radiante da cui far partire illimitate rifrazioni, nella vastità del godimento.
Quattro i livelli in cui si organizzano le passioni aromatiche del Poeta, sature di rimandi, sovrapposizioni, coincidenze. La dilapidazione di cifre folli per gli usi personali (come indicato dai carteggi coi fornitori e dalla panoplia di flaconi pervenutici, disseminati nella Prioria); il retrogusto antichizzante del collezionismo bibliografico di marca cinquecentesca (libri di Experimenti); l’avventura ideativa (da Odorarius Magister), parte della quale non di eccellente fortuna (Aqua Nuntia); l’osmosi liturgica della parola odorosa.
Analogamente a quanto andava maturando nel romanzo francese di fine Ottocento (e a un piglio narrativo stregato dalle voluttà olfattive: basti pensare a Nana di Zola, Notre coeur di Maupassant, L’Ève future di Villiers de l’Isle-Adam), anche d’Annunzio è posseduto dalla scia aromatica. I santuari dei carteggi giustificano gli acquisti coi bisogni spasmodici, quelli della prosa suggellano camei olfattivi dove il tempo e l’odore concorrono alla trasmutazione della materia narrata, i versi traboccano di odori, le visioni innescano cerimoniali, effluvi, litanie: tutto è accompagnato dal profumo, tutto è introdotto dal profumo, tutto è allacciato al profumo. Anche i più intimi pensieri seguono una regola di composizione mossa dall’inseguimento dello spazio aereo, tutto volatilizzando, dentro a damaschinature d’alta epoca coloranti persino il fiato. Ossessiva di deliquio, bruciante di ogni ardore, la Carne impone il suo trasmutarsi, trasmigrando nella Parola. Come fosse profumo. E il profumo, la vince su tutto (Bocca di Serchio, da Alcyone, 1903):

Oh profumo! Sale a un tratto
come una vampa. Il vino dell’Estate!
N’ho bevuto una piena coppa, e un’altra
ne bevo, e un’altra anche più calda, e un’altra
bollente che mi brucia il cuore e fino
alla gola mi sazia, fino agli occhi.
O Glauco, Glauco, il vino dell’Estate
misto di oro di rèsina e di miele!

E chiedo profumi profumi profumi

È nella triplicità di questa invocazione – come nella liturgia del Confiteor – che sembra annidarsi il segreto di tanta passione. Anzitutto, gli acquisti per gli usi quotidiani; liste della spesa, ricevute, richieste, annotazioni. Tredici i fornitori ufficiali: Coty, Rosine, Bichara, Caron, Atkinson, Guerlain (tra i tanti, d’Annunzio possedeva l’Heure Bleue lanciato nel 1912 e il celeberrimo Mitsouko, creato da Jacques Guerlain nel 1919 a seguito del dilagante giapponismo), Lenthéric, Godet, Bryenne, Violet, Grenouille, Lubin, Volnay, tutti francesi; per un totale di 113 tipologie di profumo. Ad essi si aggiunge il Dottor Cavalier Mario Ferrari, titolare della Farmacia Internazionale di Gardone Riviera suo fornitore ufficiale: confidenzialmente detto Pharmachopola o Il Gardènio.
Il Vate è l’Odorarius Magister, come da lettera del 4 marzo 1925. Dal vastissimo e già assai noto
carteggio tra i due traversante l’arco di circa 15 anni (le lettere in entrata sono conservate presso gli
Archivi del Vittoriale; quelle in uscita di proprietà privata), tanto Elena Ledda che Pietro Gibellini
menzionano odoriferi passi che, oltre alle richieste di prodotti lenitivi o olfattivi, ripropongono quanto verificatosi con altri eccellentissimi della Santa Fabbrica (Brozzi, Buccellati). Dopo i primi momenti di composta formalità la temperatura emotiva si scalda, mentre l’intonazione epistolare assume una coloritura confidenziale. Sempre nella devozione al Comandante gli artigiani; gradualmente a loro allacciato anche il Vate, mosso da correnti affettuose che approdano a piccoli gioielli lirici mediante l’escamotage delle richieste: annotazioni sul tempo, stati di gaiezza e di ansietà, tribolazioni. Spiritando di densità il colore dell’ora che profuma.
Non resisto alla voglia di sperperare ogni cosa nuova, scrive il Vate a Ferrari, il 27 giugno 1930. E nel nome del lusso, acquista acquista acquista con smania compulsiva. E chiedo profumi profumi profumi (lettera a Mario Ferrari, 12 novembre 1930). Spese folli, cifre iperboliche (10.000 lire e passa con Ferrari, in un conto del 17 ottobre 1930), tanto col farmacista che con le forniture parigine. Ciotole di saponi per il bagno, lozioni per le gengive, rimedi per tamponare fastidiosi stati infiammatori, cassette intere di profumi di marca. Ecco la solita cassetta di profumi, dice Ferrari in una lettera del 1927, come al servizio di un faraone egizio grondante d’aromi sacrificali. Talvolta sbucano persino soluzioni modernissime, come testimoniato da una missiva del 18 novembre 1924 riecheggiante il profumo d’ambiente. Dice il farmacista:

Le invio tutto quanto Ella mi domanda e spero che i “Brulé” profumo le piacciano. Per usarli – è inutile dirlo a lei – si versano alcune gocce di profumo nelle coppette impresse su ogni lampadina. Aggiungo due pipette per la bisogna. Poiché è tardi, mi permetta di mandarle domani la nota coi pezzi. La ossequia il devotissimo suo Mario Ferrari.

I profumi francesi inondano il Vittoriale, fin quasi a francesizzarlo: Coty, Caron, Malhamé Bichara (un siriano trapiantato a Parigi che si distingue per una cifra fortemente orientalistica: fin dal 1914 gli recapita grandi partite di acque di fiori d’arancio, intensificando le forniture attorno al 1920-21): per sperimentazioni, invenzione di bouquet personalizzati, stravaganze, eleganterie. Gloire au maître de Syrie dice il Vate in un telegramma all’illustre fornitore prodigo di inventive – gli propone un fume cigarette pour parfumer le tabac à l’ambre – e soluzioni di derivazione cinematografica. In una lettera di Bichara datata 18 giugno 1921 si menziona un profumo – Cabiria – che il profumiere gli aveva inviato in dono. Parfum don’t vous avez bien voulu accepter d’etre le parrain, come afferma il siriano, testimoniando una mobilità affaristica piena di rimbalzi, capace di sfruttare l’onda della popolarità per accrescere gli introiti economici con abili operazioni di marketing. Il kolossal era uscito otto anni prima (1914); probabilmente il flacone avrebbe dovuto esserne la naturale prosecuzione glamour, per riversare sul mercato cosmetico le consacrazioni già ottenute e, con abile fiuto imprenditoriale, incitare i bisogni delle masse.
Trabocca poi l’ammontare degli oggetti: storte, alambicchi, ampolle di ogni colore. Un flacone d’ambra del Siam, un’ampollina all’etrusca, una a caffettiera, una con dorso a peduncoli, una con beccuccio a stelo, un flacone col leone di san Marco, uno con etichetta Lotione, uno con etichetta Acqua che sa da bon, un Eau de Cologne Floreale, un flacone a chiocciola, uno esagonale, uno con modanature, uno alla veneziana con stelo elegantissimo, uno a bugnato, uno istoriato, uno con cavalieri in abiti settecenteschi, uno con immagini grecizzanti a rilievo, uno con manici arricciolati, un’intera serie a figurine scontornate di impronta popolare, uno come fiasca da whisky, uno squadrato con logo giapponese, uno in vetro molato con plachetta Eau de Cologne Chypre. E poi, vasi per gli unguenti che paiono sbucare dalle maddalene mirrofore dei dipinti rinascimentali (Crivelli, Bellini, Tiziano), rievocate nel Cristo e la Maddalena di Guido Cadorin (Stanza del Lebbroso, 1924), bruciaprofumi. Una vera e propria cattedrale olfattiva disseminata negli ambienti del Sacro Eremo, nascosta in ogni anfratto e degna di un inventario Gonzaga.
La saldatura con l’antico è assicurata mediante la vicinanza di numerosi frammenti, sebbene la robustezza rinascimentale in lui si sfilacci come parvenza metafisica: teste michelangiolesche (l’Aurora, nella Zambracca), busti quattrocenteschi (incantevole il calco di Laurana con basamento istoriato collocato nella Stanza del Mappamondo e ricavato dal busto di Ippolita Maria Sforza, 1472. Laurana è menzionato fin dagli appunti parigini del 1898 dove l’orgoglio nazionale si intensifica proprio nel citare i tesori italici lì conservati (“Penetrando in quelle sedi occulte, di difficilissimo accesso, ho provato le gioie più acute – scrive il Poeta –. Le medaglie di Pisanello, di Matteo de’ Pasti, di Francesco Laurana, Niccolò Spinelli, del Pollaiuolo, i bronzi di Andrea Riccio, di Caradosso, di Bertoldo, le maioliche di della Robbia, i busti di Mino, di Desiderio, del Verrocchio, di Donatello: tutte le espressioni dell’arte italiana più precise e più possenti sono là, in custodie religiose, esposte a una luce quasi mistica, adorate nella solitudine e nel silenzio, lungi dai profani”); reliquie corsare, come la la maschera funebre di Guidarello (Stanza del Lebbroso) o la targa con l’occhio alato di Brozzi (Sala dei Calchi, Schifamondo).
Una venerabile drammatizzazione archeologica, tanto bulimica e rapsodica nell’uso delle fonti quanto efficace e fascinosa: nella sfragistica, nelle maioliche, nell’uso dei motti latini, nei gessi, nelle stoffe, nella medaglistica, nel beau geste, tra stipi e trumeaux; mentre l’ispirazione chiesastica occhieggia tra colori preziosi (oro, rosso), suppellettili (turiboli e navicelle, come nell’Oratorio Dalmata), soluzioni scenografiche (nicchie, cunicoli) proprie all’iconostasi. Un ambiente alchemico ovattato e segreto che ben si addice al virtuosismo d’alta epoca con cui il Vate sigla ogni commovimento compositivo.
Il profumo diviene arte – aerea musicale danzante – celebrante la sostanza dionisiaca del creato,
riversandosi poi nella parola – profumata anch’essa – che dalla Natura parte e alla Natura ritorna, tra riscorrimento, sommovimento, commozione. Al centro di tutto è la mise en scène del passionario polmonare che assegna all’arte olfattiva la quintessenza del deliquio. Le ampolle si rifrangono l’un l’altra, in un atlante musicale vertiginoso. Quasi che la metafora odorosa fosse la chiave di volta di perpetue giravolte: tra romanzi, carteggi, amori, intimi pensieri. Fulge il maculoso respiro del suo cuore, arroventato in drappeggi sentimentali, in atto di balzare nella perpetua sorgenza e risorgenza. Trasparente come la medusa marina.

In te virtus Aphroditis

C’è da scommettere che L’Aqua Nuntia, capofila delle sperimentazioni olfattive che occuparono il Poeta per anni, anche nel tentativo di commercializzazione – mai compiutamente realizzato – fosse
intenzionalmente implicata con l’antico; tanto per il corredo iconografico che per le sottili allusioni a Isabella d’Este.
Ariel l’ha già in mente in anni precocissimi, menzionandola persino in una lettera alla Marchesa Casati risalente al 1913: “Oso mandarLe in offerta l’Acqua nunzia. Basta fiutarla per dimenticare le cose malvage e per non ricordarsi se non delle cose buone.” Sebbene la titolazione dell’acqua fosse
un’evidente derivazione del cognome del Vate (che con i suoi infiniti anagrammi, gioca coi multipli di sé), non v’è dubbio che dietro questi stratagemmi si nascondesse la riconversione dell’Aqua Nanfa, da Isabella inventata. Anche la divina marchesana – venerata nei secoli al pari di una reliquia – era impazzita per le paste profumate. Sua la cura di procurarsi materie prime di pregio mediante i corrispondenti, per creare bouquet inediti; nel celeberrimo inventario Stivini non manca infatti “una proffumera d’argento, con la sua padeletta, il corpo trafforata a rabesco et il fondo a spicchi di relievo et il piede trafforato a fenestre, parte adorato et parte bianco.” Lo stesso dicasi per le lettere (specie da e a Lorenzo da Pavia, in data 13 agosto 1504 e 21 gennaio 1507) che con costumevole riguardo spruzzano richieste d’acqua nanfa per rimpinguare rifornimenti già esauriti.
Da Isabellofobo convinto, d’Annunzio finisce per miniaturizzarla tra innumerevoli scorribande, passioni numismatiche, rariora; il suo fantasma aleggia persino nel Forse che sì forse che no (1910), titolo notoriamente ricavato dall’enigmatico soffitto ligneo di Palazzo Ducale decorato da Lorenzo Leombruno (1489 – 1536) recante nei lacunari l’ossessiva ripetizione dell’omonima frase, a sua volta ricavata da una frottola di Marchetto Cara (1470 ca – 1525?) – sintetizzante a suon di musica l’emblematico destino dei protagonisti. Introducendo all’allucinogeno riconoscimento dei due amanti, il motto migrava dunque dalla Mantova del tardo Quattrocento alle elegantiae del Vate, insediandosi nello strepitoso portacipria in rame eseguito da Mario Buccellati, che lo riproduceva lungo tutto il perimetro del coperchio.
Proprio nel Forse che sì ha poi luogo un passaggio mirabile di sovrapposizioni e déjà-vu sostanziati dal profumo. Paolo Tarsis e Isabella Inghirami vivono il loro incontro mediante il marcatore temporale del riconoscimento mutuato da altre vite; tra tutte, è quella alla corte di Mantova che li unisce: lei era stata Isabella d’Este, lui, Federico Gonzaga. Eccoli in un colloquio, che si conclude menzionando la formidabile passione della marchesana per acque e profumi:

– Belle mani?
Più belle ora: ti si sono smagrite e allungate. La destra dipinta dal Vecellio, con l’anello nell’indice, ha fini le dita ma un po’ grasso il carpo. Per curarle facevi ricerca delle forbici più sottili e aguzze e delle «lime da ungie» più delicate.
E ordinavi i tuoi guanti a Ocagna e a Valenza, i più morbidi e i più odorosi del mondo.
– Perché amavo anche allora i profumi.
– N’eri folle. Li componevi tu stessa. Ambivi il nome di «perfecta perfumera». La tua «compositione» era d’un’eccellenza insuperabile. Tutti imploravano la grazia d’un bussoletto. Ne donavi a re a regine a cardinali a principi a poeti. E il tuo Federico, quand’era in Francia, non ti chiedeva mai denari senza chiederti profumi, e tanto spesso gli uni, credo, quanto gli altri.
– Eri ben tu Federico allora? Ti riconosco.
Risero forte entrambi, prendendosi le mani, guardandosi negli occhi splendidi.

Più in là nel tempo, si sarebbe trattato di convertire l’Aqua Nanfa di Isabella in Aqua Nuntia,
assimilandone il sostrato e attualizzandolo. Fragranza a lui carissima – evidentemente – tanto da
emulsionarne un trapasso terminologico con predilezione della forma arcaica: “L’invio dell’Acqua nanfa (ottenuta dai fiori d’arancio) e della valigetta Chanel m’è graditissimo” (lettera a Ferrari, 20-21 giugno 1930).
Molti gli studi, per flaconi all’antica o alla moderna: ampolla oblunga bianca con serto vegetale
incorniciante la titolazione (Stanza della Musica); a forma di dattero mignon (Bagno blu); ampolla
arancio con collo mutilo (Bagno blu); ampolla squadrata senza serto vegetale dalla svettante elegantissima linea déco (Bagno delle ospiti). Dalla Camera Baccara spicca un flacone in cristallo lavorato con panciuto pomello ed etichetta parzialmente corrosa in cui si evince l’impianto complessivo. Il modello grafico – sempre di de Carolis – e ancor meglio visibile nei due esemplari distaccati custoditi tra le carte degli Archivi che fungono da studi preparatori – è ancora una volta un tributo all’antico.
L’imagery è di stampo tardoquattrocentesco, con la fontana della giovinezza al centro zampillante di frescura, nel recupero di soluzioni già svolte per Lepit e qui alleggerite, quasi a riproporre gli itinerari iniziatici dell’Hypnerotomachia Poliphili. Il Poeta ben conosce il volume; lo menziona fin dal Piacere, nei trasalimenti d’antiquaria saturi di paganesimo; ne possiede l’edizione aldina originale, che campeggia tra le cinquecentine della biblioteca ammontanti a circa 283 unità; ne indica il possesso in una lettera a Coré, in data 27 marzo 1930: “Tra l’avorio di un’antica bussola azzimuttale d’Olanda e la rilegatura aldina del mio Polifilo ritrovai un piccolo libro raro che tu mi donasti.” C’è da scommettere che persino dietro l’Ypnerotoidina – un farmaco che d’Annunzio chiede a Ferrari nella stessa lettera dove nomina l’acqua nanfa – si celasse il fantasma del Polifilo. A corredo dell’impianto grafico, il motto cutem fovet virtutem movet (riscalda la pelle, scuote la virtù), sintetizzante il doppio registro di piacere e onore.
La suite cinquecentesca dei volumi d’arte profumatoria del Vate non si ferma qui, contemplando,
naturalmente, i Notandissimi secreti de l’arte profumatoria (Venezia, 1555), e qualche tomo ottocentesco di taglio olfattivo: Profumi maledetti; Le parfum de Rome (1862); Le Parfum des îles Borromées (1898). Lo scenario per le sue creazioni si sarebbe dunque avvalso di ispirazioni antichizzanti, recuperabili tanto da fogli sparsi che da una chiosa a margine su un volume fresco di riedizione ottocentesca ma di epoca precedente: una miscellanea anonima (si ipotizza la mano di Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino e cognata di Isabella d’Este) il cui manoscritto originale risiede presso la Biblioteca Universitaria di Bologna con segnatura 1352. La ristampa contempla una specifica annotazione del Vate accanto al rimedio A far belle e lucide le carni.
Egli metteva a punto gli ingredienti per la sua Aqua Nuntia, sulla scorta di tutta la tradizione acquisita, con valutazioni di pesi e misure calibrate: Tintura di Benzoino, grammi 300; Spirito di Rose, grammi 150; Tintura di Sandalo, grammi 200; Lavanda grammi 100; Spirito purissimo, grammi 250. Aggiungendo poi (alla maniera di Caterina: Et provatum est! Et è bonissimo! Et è perfettissimo), l’incitamento a procedere, ossia Mescola e farai opera perfetta. Ed è nuovamente con la Lepit (come per I profumi del Carnaro) che d’Annunzio avvia gli accordi per la messa in opera commerciale, continuando il sodalizio con De Carolis. Scrive Carlo Prati, 19 luglio 1922:

Ill.mo Comandante
Il Sign. Prof. Adolfo de Karolis mi ha riferito il suo desiderio di avere altri profumi fabbricati dalla Soc. LEPIT ai quali Ella diede bellissimi nomi.
Mi sono affrettato a soddisfare il suo desiderio. Nel frattanto il Sign. Prof. De Karolis mi ha riferito che Ella non sarebbe alieno dal dare alla nostra società la produzione della Sua Aqua Nuntia: Sarebbe questo possibile?
Per sua tranquillità le accerto che la nostra Società curerebbe così la preparazione come la vendita in quel preciso modo che lei ci vorrà indicare e con quella serietà e correttezza per cui Ella mai potrebbe avere a lagnarsi.
La nostra Ditta sarebbe orgogliosa di questa sua altissima considerazione e sono certo si renderebbe degna con la perfetta esecuzione.
Sono in attesa di una sua cortese risposta dispostissimo a venire da lei qualora Ella lo desideri.
Colgo pertanto l’occasione per porgerle i miei più vivi omaggi ed auguri

                      Professandomi

L’Aqua Nuntia diviene anche occasione di composizione poetica, in quei tumulti che fluttuano dal
pragmatismo all’ispirazione (e viceversa), che costituiscono la cifra distintiva di tutto lo slargo operativo del Poeta. Il testo, portato a completamento da Annibale Tenneroni (illustre bibliotecario e amico del Vate) riporta la versione definitiva de “Aquae Nuntiae” da inviarsi a Praga:

Aqua Nuntia portentosa
Fluxa lymphis Hippocrenis,
Ora facis aulitosa,
O quam, barba rasa, genis
Dulce refrigerium!
Lactea fis in aqua effusa,
Nardo spirans, nari mitis,
Cumque recte sit abstrusa
In te virtus Aphroditis
Sensus omnes recreas.
Super aliis bene excellis
In reddendo robur cuti,
Rugas vultu pie depellis:
Quisnam te non vellet uti
Clara sic virtutibus?

Increspature, riverberi, ondeggiamenti, trapasso ritmico. Essa si appella forse al ricordo fosforico di un vissuto veneziano tremulo d’aura spiritale. Immensa onda di seta mossa in larghe pieghe, spuma screziata di venature, profumo da bere a sorsi. Acqua refrigerante.

L’inambrato elisire sublimissimo

Il diluvio delle suggestioni olfattive punteggia ogni sospiro. Fin dal Piacere l’intreccio sentimentale tra Andrea Sperelli ed Elena Muti – sviluppato all’interno di temporalità differenti; tra presentificazioni e rammemorazioni – è la nota ferina a distinguersi, allungata nei moti di un ardore panico che tocca, simultaneamente, corpi, oggetti, abiti, opulenze, atmosfere, vibrati, fantasie, stati d’animo. Profumi, infinitamente. Nell’onda subitanea degli accadimenti del vivere inimitabile, i vagabondaggi estetici del protagonista sono intrisi di aste, reliquie, memorabilia, canestrate di antichità, in un retrogusto rinascimentale percepibile fin dalla porta di casa (Palazzo Zuccari).
Le congiunzioni carneggianti – sostanziate mediante un accurato palcoscenico – veicolano il sacrario delle sfere interiori, rovesciate sul cuscino come un fuoco d’ardesia. La spiritualizzazione del gaudio carnale sostanzia la fluidità dei corpi; ogni travaso dei protagonisti si accompagna alla liturgia del profumo, l’effluvio dei sensi celebra la carne fusa in spirito. È l’elisire sublimissimo, il trasfondimento arpeggiante, la forma perfetta dell’ardore. E il profumo la vince su tutto.

Ne’ baci d’Elena era, in verità, per l’amato, l’elisire sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion perfetta, che l’una forma sembrava il natural complemento dell’altra. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d’ambascia, mentre le mani dell’una tremavan su le tempie dell’altro smarritamente. Un bacio li prostrava più d’un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torpida. Ed ella diceva, con la voce un po’ roca, senza sorridere: ― Moriremo.

La temperatura olfattiva è satura di fiori in cui troneggiano rose mistiche e gigli santificati, passeggiate tra alberi vermigli e mughetti floridi, bacche rosse e aranciate, vini inebrianti, muschi e stoffe secolari, orchidee soprannaturali. Tutte le sfere dell’animazione sono sensibilizzate dall’arte del profumo, inghirlandate dalla gloria degli esordi, nei luoghi del principiare privi di corruzione. Ogni esperienza si consuma, si consumano i giorni e le memorie, si consumano gli oracoli e gli amori, si consuma il gioco dell’umano. Ma non si consuma la Natura elementare, pulsante di forza autonoma. Il Poeta si perde in lei, mentre è il fluido odoroso a tutto ammaestrare, rigenerando, refrigerando, rendendo libera la vitalità, rinfocolandola di gioia. La virtù afrodisia è latente in ogni oggetto, come il genio della lampada. Nel furore appagante di forza creatrice, la deificazione della parola incita al vivere sensitivo, per mistero cosmogonico e scioglimento panico. Le carezze carnali compiono i gesti di un erotismo spirituale figlio – anche se un po’ sommariamente – della tradizione Vedica indiana e delle Upaniṣad, assorbita nella stereofonia della carne profonda.
Naturalmente, anche l’epistolario trabocca di odori, travasando prose di romanzi. È questo il caso di un passaggio del Libro segreto (1935).

Et ella il cor m’inambra
Di lei la mia notte s’inambra, il mio letto s’inambra, la mia segreta s’inambra.

Parole quasi interamente ricalcate in Irma Amir Amor: una lettera di incantevole bellezza olfattiva scritta a Irma Colli (una delle mille “badesse di passaggio” che frequentavano il Vittoriale, metamorfosata in divinità lunare), in un periodo databile tra il 1934-36. Essa appare fin da subito come una sorta di scioglilingua che, a partire dal nome della protagonista, confonde le acque. Eccone alcuni stralci, odorosissimi:

Irma, Amir, Amor, quanti misteri la tua carne ha rivelato alla mia carne!
[…]
Tutti i profumi odorano come il tuo solo profumo.
Tutto è ambra come di sotto alle tue braccia, come nel cespo de’ tuoi inguini.
Tu m’inambri. Di te il cor s’inambra.
Ti ricordi? D’improvviso, quell’antica parola obliata si pose a vivere su la tua pelle, fu il respiro di tutta la tua pelle.
[…]
Sono al limite del prodigio. Sta per sorgere dalla mia ebrezza una creatura più bella della tua prima apparizione.
“Senti la neve?”
Tu m’inambri.

Lo stesso era accaduto molti anni prima nelle lettere a Barbara Leoni. Bastano poche frasi per sentirne l’odorosa voluttà (11 giugno 1887):

Io ho invece la tua lettera dolcissima, tutta profumata del profumo che io amo… Ti ricordi? Quando me l’han portata, ero ancora sul letto e fantasticavo ascoltando lo scroscio della pioggia sui vetri dei balconi. Dopo, son rimasto ancora a sognare, aspirando il profumo.

Dieci anni dopo (10 febbraio 1896):

Io sento il profumo ed ho nelle dita il velluto della tua pelle e, se tu apparissi, io forse dimenticherei ogni cosa, l’agonia e la morte, per affondare l’anima nell’oblio che tu sola sai dare.

Tre giorni dopo (13 febbraio 1896):

Tu sei la luce, l’aroma, la musica, la suprema bellezza, il supremo piacere.

Talvolta la scia odorosa appare sotto forma di serraglio fremente e bruciacchiato, saturo di malìa ipnotica. Talvolta, tra galeoni carichi di spezie (Il fuoco):

Avevano le stive cariche di mirra, di spicanardo, di belzuino, di eleomele, di cinnamomo, di tutti gli aromati, e di sandalo, di cedro, di terebinto, di tutti i legni odoriferi in varii strati. Gli indescrivibili colori delle vampe, ond′esse apparivano pavesate, evocavano i profumi e le spezie. Azzurre, verdi, glauche, crocee, violacee, di mescolanze indistinte, le vampe sembravano sprigionarsi da un incendio interiore e colorarsi di sconosciute sublimazioni.

Il loro vibrato mette in luce le perizie del conoscitore che li distingue ad uno ad uno (Notturno):

I fiori sono posati su la rimboccatura. Li ho sotto le mie dita veggenti. Li palpo, li separo, li riconosco. C’è il giacinto. È legato col filo in fascetti. Gli steli sono ineguali. Insieme formano un grappolo folto. Il profumo al fiuto aumenta come il dolore in una scalfittura. C’è la zàgara. È il nome arabico che dà al fiore d’arancio la Sicilia saracena. L’appresi, adolescente, su la mia riva, dal mozzo di una goletta. Tanto mi piace che, se nomino il nome, sento il profumo. C’è la zàgara di serra: un gruppo di foglie che al tocco risuonano, e nel mezzo i bocciuoli duri. A uno a uno li sento. Qualcuno è chiuso, qualcuno è fenduto, qualcuno è mezzo aperto. Qualcuno è delicato e sensitivo come un capezzolo che teme la carezza. L’odore è candido, acerbo, infantile. Ma bisogna cercarlo con le narici in mezzo alle foglie diacce e stillanti che m’inumidiscono il mento e mi entrano in bocca.

L’odore di muffa e di anticaglie, quello del cuoio e dei codici miniati, le zaffate di afrore e il sentore della toscanità, l’odore di pellicce di lontra, rose damascene e umbri vasi di farmacia, violette e manicotti, gardenie appena recise, sigarette russe, fazzoletti di batista con gocce di pao rosa; l’odore fresco dei pezzi di neve, quello acre di muschio e rettile, l’odore bianco di un frutto di polpa bianca, l’odore biondo del medioevo risorto, quello remoto come un vino di cent’anni o quello costosissimo dei grandi marchi francesi; tutto confluisce all’insufflagione a cui l’artista allude per indicare il suo assatanamento: l’odore della bestia fumigante, ispiratissima (Il fastello della mirra):

Io ho la mia bestia meco, quando creo. Quando le scintille si partono da me, allora più sento la materia spessa di cui son fatto. Tutta la mia sostanza è commossa e sommossa, talché non v’è istinto ferino che non si sollevi dal fondo a scoperchiarmi.

L’ispirazione è inspirazione, aspirazione, fiato esalante, ricciolo tatuato nel corpo fino alle pieghe della pagina scritta. Nel demone rovente, il profumo è nodo venerabile, misteriosa lampada carnivora in cui divampa un cortocircuito sempre acceso. Tra desiderio e trasmigrazione.

Iconostasi

Anche il retrogusto chiesastico sprigiona il suo odore, punteggiando – o alternando – la voluttà
spregiudicata con le note del raccoglimento. Tremula e accesa di porpora al sommo, l’arte del divinare si ammanta di incenso, tra stalli del coro e oli di sacrestia.
Bizantinista involontario per via dei trascorsi veneziani, bizantinista crepuscolare per via dei trascorsi mondani, bizantinista ingioiellato tanto nell’oreficeria della parola che nelle scelte encomiastiche di cui si ammanta (lo dimostra l’aggettivo PORPHYROGENITI figurante accanto al consueto GABRIEL NUNCIUS, nell’iscrizione situata sul coperchio del sublime portasigarette del ’29, realizzato da Mario Buccellati su disegno di un celebre ex libris di Aristide Sartorio), bizantinista ispirativo sempre in procinto di ponteggiare con l’antico, il Poeta si riappropria per via sensitiva del cerimoniale imperiale. Non per riprodurre il movimento delle sfere celesti impresso dal Creatore all’unità del Tutto, ma per realizzare le gerarchie delle dignità terrene mediante l’esaltazione della forma pura. Da principe rinascimentale; e, perché rinascimentale, universale: nell’intreccio di relazioni alabastrine; nelle proiezioni di un tempo eterno, eternamente redento dai balsami dell’antimetafisica, nella salvazione dell’estasi estetica, nel sillabario di formule e riti, nel polipaio imaginifico: dentro un impero mistagogico senza limiti né confini. La gigantesca voluttuosa metamorfica labirintica macchina mitologica del Vittoriale, per via dei suoi
infiniti nascondimenti alchemici – camere, cubicoli, sacelli; vestiboli, spazi chiusi, recinti – avrebbe finito per somigliare più a un palazzo bizantino che a una dimora rinascimentale, così carico d’emblemi, figure d’apparato, quartieri di enigmi. C’è da scommettere che Ariel avesse in animo di emulare Costantino VII Porfirogenito, imperatore e Basileus dei romei dal 945 al 959 e autore di quel Liber de Cerimoniis Aulae Byzantinae dedito alla fitta rendicontazione delle operazioni protocollari in uso a corte: le litanie del Sensorium Dei, millimetriche strutture di coniugazione liturgica, messe a punto affinché la terra ascendesse al cielo e il cielo si riversasse sulla terra. D’Annunzio, novello Basilisco, ne sarebbe divento Sacerdote, Incensiere, Aromatiere.
Prova ne è l’Oratorio Dalmata, uno degli ambienti più intimi della Prioria la cui penombra foderata di tappeti, confessionali e stalli del coro è introdotta da un profluvio di suppellettili ecclesiastiche (turiboli navicelle incensieri), come a celebrare la grazia di un mistero teurgico destinato a rinnovarsi perpetuamente. Cercatore di atmosfere – liturgiche e paraliturgiche – del vivere e del comporre, affascinato dai santuari e dalle segrete (vedi le mirabili pagine dedicate al Compianto di Nicolò dall’Arca, ai cui piedi il Vate si rintana, estatico, spaventato, afflitto; davanti al gran vento della veste delle Marie, imbestiate e dementate dal dolore), d’Annunzio si scioglie tra la cera, tutto odorando (Le faville del maglio).

Un odore di cera, d’incenso e di basilico investe l’anima, nella cappella affumicata come una fucina. L’anima cristiana ha larga narice, patulis captat naribus auras. Il coro di San Bernardino è dietro l’altare. La più annosa delle Sibille michelangiolesche, la Persica decrepita e ammantata, sola potrebbe assidersi davanti a quel leggìo di legno che si leva enorme in cima a uno stelo di pietra, più santo di una reliquia custodita in oro o in cristallo, testimonio d’un’antichità immemorabile, pregno della sapienza di tutti i libri scomparsi.

La nota profumata – annunciatrice di sacre fumigazioni – giunge dagli abissi dell’essere. E ancora una volta il profumo è tutto; esso sta alla carne come la carne allo spirito e il suo carisma sembra racchiudersi nell’essenza di una polpa. Dopo i carteggi coi fornitori e il dispendio di cifre favolose, dopo lo sperimentalismo essenziero e quello della parola, dopo la cartografia di un passionario polmonare saturo di assalti insaziabili finalmente l’esalazione fine a se stessa in cui tutto – tutto – si ricompone. La palpitazione della vita turbinante è in ogni istante cambiando, mutando, rifulgendo, tenendo vivo il mistero dell’aura. Sipario tra visibile e invisibile il profumo. Iconostasi.
Così, se è vero che il pittore di icone non dipinge rappresentazioni (mimesi), narrazioni né tantomeno ragguagli naturalistici ma riassorbimenti dell’esperienza delle verità purissime valevoli in ogni tempo – Pavel Florenskij ne tratteggia il carisma in modo perfetto, Le porte regali. Saggio sull’icona (1922), a cura di Elémire Zolla, Milano, Adelphi, 1977 – è l’iconostasi a rivelarne i comandamenti, nella linea di confine che nello schermo del santuario depone il suo mistero –accessibile e inaccessibile – per reintegrarlo nella contemplazione del congiungimento.
L’invisibile ne è il luogo e il collante: luogo e collante nel quale prende corpo l’estasi della fuga materiale, per la celebrazione della – come Florenskij la chiama – abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile, per un’ascensione capace di manifestare la visione apollinea del mondo spirituale. Ma è la materia – la luce raggiante dell’Icona – che lo permette. La sua incarnazione è colma di sublimità, l’arcobaleno della sua presenza-assenza-essenza è insediamento interiore, carezza celeste e convocazione. È lei – la santa icona – l’emanazione portentosa, la finestra sul cielo immarcescibile. In essa due mondi si toccano e dal contrasto trovano unità; squarciando il velo delle contraddizioni il duale diviene principio unificante, l’addensamento dello spazio caricamento di intensità, la materializzazione dello spirito e la spiritualizzazione della materia l’armonia del loro compiersi.
In d’Annunzio la regola si ribalta, visto che all’invisibile egli accede a partire dal sensibile, dagli atti del dionisiaco esaltati all’ennesima potenza. Ma niente cambia. Poiché la chiesa di Ariel è il profumo. Quella, la sua iconostasi, il profumo stesso iconostasi, i flaconi le sue icone venerabili.
Luogo eternamente vivo dove la materia si volatilizza e lo spirito precipita, strettoia dove tutto è possibile, l’orizzonte aromatico si avvolge su se stesso come un imbuto in cui far convergere la convocazione del tempo istantaneo (l’istantaneità temporale – il tempo teleologico – capace di curvare, assottigliarsi e ribaltarsi secondo un andamento circolare e oracolare, fluendo dal futuro al passato e dagli effetti alle cause), annullando il corso della linearità e della corruttibilità.
Il procedere della vita organica è forza vitale, energia plasmatrice, ramificazione continuativa. Soffia l’alito invisibile da altri luoghi, soffia il palpitante, soffia il tumultuario rigenerante. L’esemplare unico, la creazione rarissima, il poema paradisiaco dell’universo imparolato, la spiritualizzazione del gaudio carnale, l’imperlatura melodica, il fluttuamento continuo nei pendoli delle strutture temporali; tutto è corona di una più ricca ammantatura, tutto è dottrina di legamenti, incantamenti, trasalimenti. Tutto è Profumo e il Profumo è Tutto. Tanto mi piace che, se nomino il nome, sento il profumo. Respirante l’etereo. Divinamente, prima di evaporare.

 

Bibliografia

D’Annunzio e l’Arte del Profumo. Odorarius Mirabilis, catalogo della mostra (Gardone Riviera, Il
Vittoriale degli Italiani–Museo d’Annunzio segreto, 14 aprile 2018 – 27 gennaio 2019), a cura di Paola Goretti, allestimenti e scenografie Pier Luigi Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2018.
Gabriele D’Annunzio, Tu m’inambri, a cura di Paola Goretti, Lucca, Edizioni Cinquesensi, 2023.
Pietro Gibellini, Il “naso voluttuoso” di Gabriele d’Annunzio. Dalle lettere al suo profumiere, in Il profumo della letteratura, a cura Daniela Ciani Sorza e Simone Francescato, Milano, Skira, 2014, pp. 211-230.
Paola Goretti, Armamentaria di ingegno e di mistero: gli Experimenti di Caterina Sforza, in Experimenti de la ex.ma s.ra Caterina da Furlj matre de lo inllux.mo signor Giovanni de Medici, Imola, Edizioni Bim, 2009, pp. XXII-XLIX.
Paola Goretti, Odorarium Mirabilis: acque, profumi, voluttà in Gabriele D’Annunzio 150. “Vivo, scrivo”, Atti del convegno internazionale di studi, Pescara, Aurum, 12-13 marzo 2013, “Quaderni del Vittoriale” n.4, a cura di Giordano Bruno Guerri, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2014, pp. 193-205.
Paola Goretti, Ampolle in Prioria, in “Quaderni del Vittoriale” n. 13, a cura di Francesco Perfetti, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2017, pp. 93-102.
Elena Ledda, Giulio Ferrari, D’Annunzio e il Pharmacopola. Lettere inedite al farmacista Ferrari, in “Rassegna dannunziana”, Anno X, n.22, dicembre 1992, pp. 1-19.
Simone Maiolini, Patrizia Paradisi, I motti di Gabriele d’Annunzio. Le fonti, la storia, i significati, introduzione di Giordano Bruno Guerri, saggio di Francesco Parisi, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2022.
Vittorio Pirlo, Elena Ledda, Antonio Duse. Medico di piaghe e dottor di stelle, Salò, Ateneo di Salò, 2007.

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