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Pri Pro

Primo vere

di Claudio Mariotti, Enciclopedia dannunziana

Genesi, elaborazione, vicenda editoriale

Primo vere segna il noviziato poetico di Gabriele d’Annunzio e vede la luce nel dicembre del 1879, mentre era studente liceale al collegio Cicognini di Prato, dove, «ragazzetto timido, silenzioso, col labbro eternamente atteggiato ad un insignificante sorriso» (Ciccarone 1998, p. 133) fu ammesso grazie alla raccomandazione del notaio Giovanni Billi. A stimolare la nascita del libretto fu la lettura delle Odi barbare carducciane: come scrisse a Chiarini in una lettera del 29 febbraio 1880, mentre nel novembre del ’78 tornava da Pescara dalle vacanze autunnali, si fermò a Bologna e là, incuriosito dalla polemica fra veristi e idealisti alimentata dai libri in formato elzeviriano dello Zanichelli che  qualcuno, addirittura, arrivò a tacciare di corruttori della gioventù, ne acquistò alcuni. Fra i quali, le Barbare carducciane che furono una folgorazione: preso da inestinguibile furor poeticus, imparò a memoria le odi del Carducci e iniziò a stendere poesie in quei metri. Così, tra il novembre ’78 e la fine di luglio dell’anno successivo, il Cicognino aveva già composto quasi tutte le poesie che avrebbero formato la prima edizione del libretto.
Molti furono i quaderni che d’Annunzio riempì e che sono all’origine di
Primo vere: da questi si evince che l’opera, in un primo momento (prima di marzo), sotto il nome di Fulvio Giovinelli – allusione alla sua giovinezza – avrebbe dovuto intitolarsi Periclitatio, un hapax ciceroniano, nel significato di ‘prova’, ma contaminato con periclitare, con riferimento al pericolo che correva nel pubblicare delle rime che per i toni apertamente erotici avrebbero destato scandalo. Poi, tra la fine di luglio ed agosto, dovette pensare a un più carducciano Odi arcibarbarissime, seguito da un nome alludente ancora alla giovinezza in fiore e che mimava quello di Enotrio Romano: Albio Laerzio Floro. Infine, mutò nuovamente il titolo nell’ossimorico Crepuscula eoa Odi Barbare – indicando sempre come pseudonimo Albio Laerzio Floro: il cambiamento dovette avvenire prima di settembre. La decisione finale, con il titolo definitivo, Primo vere, con il suo vero nome e con quello di «Floro» relegato sì sul frontespizio, ma tra parentesi, dovette assumerla con ogni probabilità a settembre o più tardi a ottobre, visto che proprio in quel mese consegnava il manoscritto al tipografo.
D’accordo con il padre, decise di stampare il libretto a spese della famiglia e il 1° settembre chiese in un primo momento all’amico Fontana di occuparsi della pubblicazione, intercedendo per lui presso uno dei migliori editori milanesi. Attento sin da subito al mercato, nella lettera faceva intendere che del libriccino si sarebbero senz’altro vendute molte copie, non tanto per la bontà del lavoro, ma per la curiosità che le
Odi barbare destavano in quei giorni nella repubblica delle lettere. Tuttavia, l’illusione di uscire per un editore importante di Milano svanì presto; pertanto l’opera fu stampata dal tipografo e cartolaio Giustino Ricci di Chieti, il quale ne fece un volumetto di circa 150 pagine. Nell’entusiasmo per il successo ottenuto, Primo vere fu spedito al Carducci, dal quale tuttavia d’Annunzio non ottenne risposta, forse anche per il carattere erotico delle liriche.
Verso la fine di dicembre arrivarono nel collegio Cicognini di Prato le prime copie che impensierirono a tal punto il rettore Del Seppia che non solo le sequestrò giudicandole scettiche e eccessivamente sensuali, ma convocò anche il Consiglio direttivo, il quale, tuttavia, soprassedette sull’espulsione del collegiale. Ad ogni modo, d’Annunzio donò un esemplare alla Biblioteca del Cicognini che fu conservato gelosamente e che ebbe a consultare Benedetto Croce nel 1904 per la sua Bibliografia, visto che alla Biblioteca Nazionale di Firenze, per stessa ammissione dell’illustre critico, non se ne trovava più copia.
La prima recensione al libriccino, entusiastica, è datata 4 gennaio 1880, e apparve a firma R. sulla «Gazzetta della Domenica» di Firenze: «Se può chiamarsi imitatore il d’Annunzio ben vengano tutti quelli che lo somigliano! In quanto a me, rallegrandomi di cuore col giovane poeta, dichiaro subito che preferirei pur sempre gli imitatori del bello ai… creatori del brutto!» (Fatini
1959, pp 117-18). Nel frattempo, il 31 dicembre il giovane poeta aveva inviato una copia del volumetto, accompagnata da una lettera malinconica, a Giuseppe Chiarini, intimo di Carducci e ritenuto il maggior critico del tempo, che gli rispose il 19 gennaio preannunciando che molto probabilmente lo avrebbe recensito sul «Fanfulla della Domenica». Il che avvenne il 2 maggio con un articolo intitolato A proposito di un nuovo poeta, che, benché mettesse in luce alcuni difetti della musa dannunziana, ebbe il merito di porre le sue liriche all’attenzione della critica, in un certo qual modo consacrandolo (Chiarini 1880).
Nel frattempo, dato il successo riscontrato dal libriccino, d’Annunzio decide di pubblicare una raccolta di versi dedicata alla nonna scomparsa il 26 gennaio 1879. Il libro, intitolato
In memoriam, esce nel maggio del 1880, stampato dal Niccolai di Pistoia, sempre a spese del padre. In copertina, accanto al proprio nome, il  Cicognino non sa rinunciare allo pseudonimo «Floro», ma vi aggiunge «Bruzio»; sulla quarta, poi, si annuncia la prossima pubblicazione del Primo vere con aggiunte e correzioni. La raccolta è stroncata apertamente dal Chiarini sul «Fanfulla della domenica» il 24 ottobre 1880.
Contemporaneamente a questi epicedi, lavora a nuove liriche che saranno incluse nella seconda edizione di
Primo vere: tra gennaio e luglio 1880 fa uscire prima su «L’Eco della gioventù» e poi sulla «Gazzetta della Domenica» ben sette nuovi componimenti; poi il 2 ottobre Filippo De Titta, per incarico del padre di d’Annunzio, conclude un accordo di pubblicazione presso l’editore Carabba di Lanciano per la stampa di 500 copie. Il volume esce il 14 novembre 1880 ed è notevolmente ampliato rispetto all’edizione precedente: sono presenti 43 poesie, 15 traduzioni dal latino e 4 dal greco, per un totale di 76 componimenti. In sostanza, data anche la revisione integrale «con penna e fuoco», come si legge in copertina, si può considerare un’opera nuova. Secondo il De Titta, l’avvenimento fu salutato con una cena omerica alla Villa del Fuoco, proprietà che i d’Annunzio avevano poco fuori Pescara.
Come hanno ricordato i biografi, un paio di giorni dopo l’uscita dell’opera, la casa di d’Annunzio fu sommersa di telegrammi di condoglianze per la morte prematura del giovane Gabriele. Era successo che la «Gazzetta della Domenica» di Firenze (n. 14) aveva pubblicato una cartolina a firma «G. Rutini» in cui si diceva che il giovinetto, sulla strada di Francavilla, era caduto da cavallo, restando morto sul colpo. In realtà – ed ancora una volta si evidenzia la sua capacità di essere una sorta di
businessman ante litteram – era un’ingegnosa trovata dello stesso Cicognino per lanciare la seconda edizione del volume: ricordava quella dei Postuma in cui Olindo Guerrini aveva finto di pubblicare i versi di un suo cugino, Lorenzo Stecchetti, morto per tisi. Il 21 novembre lo stesso giornale smentiva il decesso, criticando lo scherzo di cattivo gusto.
Nel 1883 venne annunciata una terza edizione del libretto, che però non fu mai realizzata. Come già dei
Postuma di Olindo Guerrini, delle Odi barbare di Giosue Carducci e di altri volumi di successo, anche di Primo vere, vista la notorietà del personaggio, uscirono molte stampe non autorizzate, che, impotente la legge a tutelare la proprietà letteraria, perdurano fino al 1924. Nel 1913 venne ristampata la seconda edizione di Primo vere da Carabba, mentre nel 1925 l’editore Barbèra di Firenze ripubblicò l’opera assieme a Canto novo e a Intermezzo sotto il titolo di Iuvenilia. Infine, nel 1930 il libretto uscì nell’Edizione Nazionale Opera Omnia preceduta dal pretitolo imposto dal d’Annunzio Di gramatica in retorica, conservato poi nell’Edizione «L’Oleandro» (1939) e in Versi d’amore e di gloria, I (Mondadori, 1950).

Contenuto e struttura

La prima edizione è strutturalmente diversa dalla successiva: si compone, infatti, di sole 26 liriche e di un’appendice che include quattro traduzioni da Orazio che il Cicognino chiama «imitazioni». I metri barbari impiegati sono limitati: in prevalenza l’asclepiadea (sette poesie e tre traduzioni),poi il distico elegiaco (otto componimenti) e l’alcaica (sei liriche), ma vi sono anche epodi (due) e saffiche (tre poesie e una traduzione). <
La raccolta si apre con il
topos dell’invocazione alla divinità, in questo caso a Venere, affinché sia ispiratrice della materia (tale afflato è visivamente reso al v. 29 con la dea che bacia il giovinetto tremante), per proseguire con una sorta di dedica e omaggio al suo maestro, Giosue Carducci (A Enotrio Romano), anche se il Maremmano è a suo modo adattato all’ispirazione del poetino: di lui, infatti, è mostrato non tanto l’ardore bellicoso, ma le fugaci impressioni femminili. Segue A la strofe alcaica in cui si compendia la storia dell’ode alcaica da Alceo passando per Orazio e Carducci, A Lilia, dedicata alla donna amata sul cui seno – motivo dei Postuma guerriniani – vorrebbe morire, un omaggio alla donna immaginata classicamente (Suavia), Hellas, rievocazione della Grecia antica e Connubii vespertini, in cui è descritta la natura in tripudio d’amore. Diversa da tutte le altre è Palude, una sorta di poesia civile in cui d’Annunzio rivolge ai miseri contadini l’invito – astratto e indeterminato, però – a una rivolta sociale. Segue A i bagni in cui l’amata è sorpresa a bagnarsi in mare con il coro delle sue amiche, Al mio cavallo Silvano, omaggio alla precoce passione dannunziana per il nobile animale, A una vite che per la natura che sprigiona una forte carica sensuale si ricollega a Connubii vespertini e Fantasia pagana, in cui si descrive il connubio fra il poeta e una fanciulla dopo un’erotica rincorsa, motivo classico che si ritroverà nella sua produzione successiva, ma che è preso a prestito da Carducci e da Guerrini. A seguire una lunga saffica, intitolata A l’Etna e dedicata ai genitori, su di un passato mitico (come Alle fonti del Clitumno di Carducci, anche se non è immemore del poemetto di Nicola Sole intitolato Al Mare Jonio), e un quadrittico (Ora tetra, Ora gioconda, Ora soave e Ora satanica) in cui, nella loro ideale successione, si può ravvisare la chiave del temperamento dannunziano. Con Fa freddo!… il poetino descrive una fredda giornata decembrina: il fulcro, però, è la narrazione della morte della nonna Rita Lolli; nella lirica seguente, il vasto oceano spumeggiante risveglia immagini mitiche (come ad esempio le piroghe che navigano sul Rio delle Amazzoni) ed il poeta esprime il desiderio di morire nell’acqua.
In
Paesaggio si delinea un tramonto con le sue variazioni cromatiche e animato dalla presenza di una fanciulla, soffusa di leggero erotismo, che corre fra gli anemoni e con la veste abbandonata al vento; segue la fantasia orientaleggiante Su ’l Nilo in cui è colta Cleopatra mentre naviga il fiume e  la natura plaude alla sua bellezza. Per nozze è un canto nuziale pervaso però da un’intensa malinconia come si rileva sin dall’incipit caratterizzato dal pianto autunnale; altra rievocazione di un mondo scomparso è A Bacco Dionisio, in cui con un’ekphrasis si descrive una statua di Bacco per poi abbandonarsi ad un passato mitico, mentre Sera d’estate è la narrazione di una serata estiva a Firenze, presso il Lungarno Nuovo (oggi Lungarno Amerigo Vespucci). In Hoc erat in votis dopo aver auspicato di possedere una villetta circondata dal mare, una barca per potersi godere la pace lunare, un cembalo che riempia di melodie le stanze e del vino, vorrebbe ardentemente i baci della donna, culmine dei propri desideri. Infine, il Congedo chiude circolarmente il libretto e vede, nonostante le esortazioni del poeta fanciullo, il venir meno dell’ispirazione poetica dettata da Venere. Nell’appendice quattro traduzioni da Orazio (Per Gliceria, A Lide, A Fauno e Per Plozio Numida) che risentono, nella resa, dell’antologia scolastica di Enrico Bindi.
La seconda edizione, completamente rinnovata, comprende ben 53 componimenti (sono cassate, rispetto alla prima,
Praeludium, A Enotrio Romano, Hellas, Al mio cavallo Silvano, il lungo poemetto A l’Etna, il quadrittico delle Ore, Fa freddo!…, Oceano, Paesaggio, il canto nuziale Per nozze, Hoc erat in votis e il Congedo), più un’appendice – sottotitolo «tradimenti» – con 19 traduzioni dal latino e 4 dal greco. I metri impiegati sono i più vari; alcuni, come quello di Febbre, Nevicata e Solleone neppure barbari, visto che si tratta di endecasillabi sciolti. Ad ogni modo, prevalgono gli esametri (7 poesie e 4 traduzioni) e un metro che Carducci sperimenterà solo nel 1881, ossia il pitiambico (ben 8), anche se le asclepiadee (3 liriche e altrettante traduzioni) e le alcaiche (3 poesie e 4 traduzioni) hanno una buona presenza. L’opera, differentemente dalla princeps, è divisa in quattro libri, l’ultimo dei quali comprende tre sezioni – Studii a guazzo, Tre acquarelli e Idillii selvaggi – che rappresentano il meglio dell’intera raccolta e nelle quali d’Annunzio si conforma all’arte pittorica del sodale Michetti.
L’epigrafe in apertura è mutata: non più un verso di Properzio, ma di Felicia Dorothea Hemans, il che sottolinea l’apertura europea della raccolta. La prima poesia,
Preludio, sostituisce quella della prima edizione: domina adesso la suggestione di immagini vaghe e la dichiarazione di poetica è implicitamente resa attraverso l’ansia di ricerca del «bruno cammelliero». Nel primo e nel secondo libro si collocano le poesie già presenti nella prima edizione assieme a nuovi componimenti come Ex imo corde, un inno alla propria terra natale che, con funzione di dedica, sostituisce la poesia a Enotrio Romano della precedente redazione; Alba d’estate in cui il poeta, in un paesaggio idillico, è dipinto pensoso dell’Arte e dei suoi affetti più cari, un sonetto pieno di galanterie per una nobildonna (A la contessa Egle M…); Oblivia in cui il giovinetto, perso nell’incanto di una notte d’estate, si oblia nella Natura, abbandonandosi a lieti sogni. Il componimento A Firenze, con il successivo (Sera d’estate), già presente nella prima edizione, forma un dittico dedicato a Firenze, cui lo legano ricordi recenti. Di notevole interesse è Febbre che ha fatto scrivere a Palmieri 1953, p. 38 che è «un delirio febbrile, qui descritto e seguìto nelle sue fasi, secondo le oscillazioni dell’arsura»: in effetti, il Cicognino passa repentinamente da un’immagine all’altra, da un tema all’altro. Vi si trovano citazioni dai Promessi sposi e dall’Amleto, allusioni alle battaglie fra veristi e idealisti che in quegli anni imperversavano, al Wiener Blut di Strauss; la poesia termina con il poeta circondato dalle streghe che, in un delirante crescendo, lo soffocano. Il primo libro si chiude con Norah in cui è presente il tema della bellezza statuaria, insensibile e sterile dell’amata.
Il secondo si apre con ben quattro liriche già presenti nella
princeps, a seguire quattro fantasie: Sappho in cui in un fantastico paesaggio greco è dipinta Saffo che suona la lira; Fantasia pagana che, rispetto alla prima versione, è cambiata e rimaneggiata, A un vecchio satiro, in cui in un giardino spicca un satiro che il poeta immagina, ai tempi mitici, rincorrere una bella Oreade dagli occhi azzurri e Su ’l Nilo già presente nell’edizione del 1879. Infine, due liriche dalla princeps: Rosa, originariamente intitolata Connubii vespertini e a chiudere A Bacco Dionisio.
ùIl terzo libro si apre con un’alcaica che, come
A la contessa Egle M…, è piena di galanterie, in questo caso per Silvina Olivieri il cui canto lo rapisce in estatiche visioni; la poesia successiva, Compieta, è dissacrante – sin dal titolo, che indicherebbe l’ultima parte della “liturgia delle ore”, con la quale si chiude la giornata liturgica e che comprende la confessione delle colpe e la recita di salmi e preghiere e che qui, invece, è adoprato in accezione profana –: la donna amata è detta «bruna Madonna», di cui viene celebrato il fascino sensuale e a lei il peccatore d’Annunzio si rivolge in cerca di carità d’amore; infine, il «paradiso» è luogo di delizie terrene. Nel sonetto Ne ’l viale, il giovinetto e l’amata si trovano in un bel viale sul mare, al tramonto, quando d’un tratto – come in un sonetto dei Postuma di Olindo Guerrini – la donna manifesta il suo amore; Occaso è tutta per Iole, ma il poetino a lungo si sofferma sul paesaggio, sul sole che trapela tra le virenti pergole, sui colli coronati di pini, sulle nuvole che navigano per il cielo, sui garriti delle rondini e sul mormorio del mare. Con Letterina alla mamma lancia un breve messaggio alla madre di indicibile tenerezza; Quadretto di genere è una pittura serotina, mentre Rêverie è, come scrive Palmieri 1953, p. 92, «una fantasticaggine, come di chi sogni. Sogna infatti il Poeta affascinato da due occhi color cielo, abbandonandosi a imaginare un’isola sconosciuta dove intrecciare un idillio». Segue Vere novo, due strofe in cui al giovinetto la gioia, senza l’amata, appare lontana, nonostante il tripudio della natura; nella successiva, il Cicognino sfida un temporale per raggiungere la sua innamorata, mentre in Ricordo di Firenze, compone alla maniera di Betteloni: ogni mattina una bionda crestaia passava sotto alle sue finestre, finché, ammalatasi di tisi, giacque all’ospedale e più non la rivide. In Messaggi, d’Annunzio pensa alla sua terra natale e due messaggi, in forma di stornelli, vanno ai cari defunti (la nonna era morta da poco); chiude il libro Notturnino, lirica a tema musicale.
A un tale
apre il quarto libro: come scrive Lorenzini 1982, p. 801 è «rivolto probabilmente a un malevolo recensore di Primo vere ’79, poeta egli pure, e verrebbe da pensare, se le date non divergessero di pochi mesi, a quel Marco Lessona, poeta ventiduenne, alle cui critiche rispose con feroce sarcasmo Guido Biagi […] prendendo le difese del giovane D’Annunzio». Tiene dietro Lontananza che ripropone il tema dei Messaggi; seguono le sette liriche degli Studii a guazzo, dedicati a Michetti. Il primo raffigura un mare agitato e solcato da una barca con vele bianche, guidata da una donna che canta; Nevicata è invece una rielaborazione di Fa freddo!… uscito nella prima edizione, a seguire Vespro d’agosto (ritorno di barche dalla pesca), Pellegrinaggio (i carri dei ciociari vanno sotto un sole implacabile alla Madonna di Loreto), Solleone (sotto il sole una cavalla avanza a fatica, il padrone dorme sdraiato, un cane segue con la lingua penzoloni, cantano le cicale, un vitellino saltella, seguito da una donna con un canestro in capo e da una bambina seminuda), Serata di ottobre («Bozzetto veristico: ottobre avanzato: ancora il mare, e la Pescara con le sue barche, e la cittadina con il suo brusìo serale»: Palmieri 1953, p. 119), Vespro di luglio (tramonto, i pini levano in alto le loro chiome, sulla Pescara tre vele, a riva delle lavandaie, tra le canne un torello). A parte, con un proprio titoletto, è la ballata romantica Seÿda a tema orientale; si ha poi il gruppo dei Tre acquarelli (A la fontana, Ottobrata e Da una mia finestra) il cui metro esclusivo è l’esametro: la rappresentazione è sempre paesistico-stagionale, il sottotitolo «Dal vero», intende significare che il poetino sta ritraendo tutto nel preciso istante in cui scrive, come un pittore en plein air. Nel primo acquarello tre fanciulle, con delle anfore sul capo, prima scendono le scale cantando, mentre dall’altra riva un uomo pesca e dei cavalli pascolano, poi risalgono giulive con l’acqua nelle conche; nel secondo, enormi zucche riposano su delle tegole, mentre un vecchietto sonnecchia, un gatto dorme, le galline razzolano, delle donne ridono, i bimbi trillano e il poeta dipinge; infine, nel terzo, in un assolato settembre, tubano i colombi, mentre il gatto del poeta sonnecchia, un cardellino canta e la maggiore delle tre sorelle di d’Annunzio ricama.
Gli
Idilli selvaggi, dedicati al Cenacolo michettiano, chiudono, prima delle traduzioni, l’intero libretto. Sono sette liriche in metro pitiambico. Ad aprire Lucertole in cui il Cicognino amoreggia con una donna, quando d’un tratto un frusciare di lucertole; segue Vogata, in cui naviga il Pescara con l’amata, al vespero; Nuvoloni, dove i due sono sorpresi dall’improvvisa pioggia; Initium: a settembre i raggi del sole piovono sui volti dei due amanti, mentre gli agricoltori stimolano i bovi aggiogati all’aratro; Bacchanalia, in cui il poetino fa della vendemmia la festa di Bacco; Cicogne, d’autunno, una schiera di cicogne migra verso l’Africa e questo basta per perdersi nel ricordo dell’antico Egitto; infine Addio, in cui è notte, passano le nuvole e l’autunno si spenge: d’Annunzio dice addio alla donna.
In appendice le traduzioni dal latino (ben 16 da Orazio, due da Catullo e una,
Elegia campestre, da Tibullo) in cui è ancora viva la presenza dell’antologia scolastica di Enrico Bindi e quelle dal greco.

Stile e interpretazioni

Consacrata la princeps da una benevola recensione di Chiarini (Chiarini 1880), nel tempo l’opera è stata sempre più marginalizzata, anche perché lo stesso d’Annunzio ne accettò l’inclusione nella sua opera omnia a patto che figurasse il pretitolo non lusinghiero «Di gramatica in retorica»; solo ultimamente è stata recuperata anche grazie agli studi di Valeria Giannantonio che vi ha a lungo impegnato energie e intelligenza (cfr. Giannantonio 1992 e Giannantonio 1999) e a Gianni Oliva che nell’anno accademico 1988-1989 dedicava un seminario di studi all’universo dei sensi dannunziano che copriva tutto l’arco di produzione da Primo vere al Libro segreto e i cui risultati sono confluiti in Oliva 1992. Ad ogni modo, nel passaggio dalla prima alla seconda edizione, il Cicognino apportò numerose correzioni, emendando «con penna e fuoco», escludendo molti componimenti e aggiungendone di nuovi, una parte dei quali fu scritta sotto l’influenza di Francesco Paolo Michetti, il cui Cenacolo il giovinetto frequentava e che si era costituito il 26 ottobre 1880 a Francavilla. Si trattava della compagnia di amici che di tanto in tanto si riuniva prima nella casa solitaria nei pressi del litorale, poi nel leggendario Convento del famoso pittore. La frequentazione fra d’Annunzio e il già celebre artista dovette iniziare nell’estate del 1880 quando il Cicognino si recò da Pescara nello studio di lui per conoscerlo personalmente. Indubbiamente, l’influenza di Michetti si manifestò nel trarre i soggetti dall’Abruzzo. Infatti, se la princeps di Primo vere si era emancipata dalla realtà regionale, assumendo modelli e forme toscaneggianti, con un vivo sforzo di sprovincializzazione (Papponetti 1996, p. 65), la versione definitiva al contrario torna ripetutamente all’Abruzzo,   traendone alimento. Lo testimoniano gli Idillii selvaggi che sono ambientati in Abruzzo o Ex imo corde che proprio al «fiero Abruzzo» è dedicato. Il paesaggismo autobiografico è però affiancato alle fantasie esotiche, collocate in un immaginifico Oriente (Seÿda, ad esempio). Il tutto, ovviamente, con l’intento – da vero e proprio businessman – di vendere più facilmente un prodotto: in fondo alla borghesia del tempo potevano suggerire una fuga fantastica sia l’Egitto che l’Abruzzo che da sempre aveva un che di esotico.
Inoltre, la sontuosità delle opere michettiane doveva incontrare il suo gusto. Solo per fare due esempi:
Sposalizio in Abruzzo (1876) presenta un’esplosione di colori che raggiunge il vertice nel bardamento del cavallo e la seconda edizione di Primo vere va proprio nella direzione di un brulichio di luce più accentuato rispetto alla prima (fra i molti che si sono occupati della tavolozza del libriccino, vale la pena segnalare Russo 1981, De Fabritiis 1992a e Giannantonio 2001; già però Oliva 1979 si era soffermato sulla notomizzazione coloristica, anche se di una lirica di Canto novo). Anche nell’originale Processione del Corpus Domini (1877) è fantasmagorica la sinfonia coloristica così come debordante è l’impatto visivo, tant’è che più tardi il Cicognino scriverà nei Ricordi francavillesi, proprio a proposito di questa tela, di un’armonia coloristica nuova, vibrante, abbagliante. Inoltre, come riconobbe nella dedica del Piacere e come notò lo stesso Ojetti (Ojetti 1910, p. 418), al giovane pittore dovette «l’abitudine dell’osservazione», quello sguardo attento teso a rendere il lettore partecipe di una vera e propria tranche de vie. Va da sé che in Michetti mancava quell’atmosfera sensuale che promanava invece dai versi del poetino. Ad ogni modo, ci sono giunti numerosi taccuini nei quali d’Annunzio annotava le sue impressioni: da questo materiale ricavava nuovi versi, pescava frammenti per dare nuovi sensi e nuovi godimenti.
Tuttavia, né le tele michettiane né le liriche dannunziane sono semplicemente dei bozzetti: infatti, in entrambe l’Abruzzo è colto panicamente e simbolicamente, sotto le scene popolari si celano contenuti ancestrali e mitici. Ad esempio, la lirica
A la fontana si conclude con un’evocazione virgiliana: «ne l’aria sento il verso de ’l mite Virgilio fluire», come a dire che quella pace divina che traspariva dal quadretto realistico appena dipinto, doveva essere trasfigurata in una pace mitica e bucolica. Inoltre, altro dato che allontana le sue poesie dai semplici quadretti di genere, sono le tessere letterarie con cui è intessuto – una  caratteristica anche del d’Annunzio maggiore, segno che per comprendere l’originalità dannunziana è necessario risalire alle sue opere giovanili. In effetti, così come gli elementi naturali sono risemantizzati dall’ingegnoso artefice attraverso quella che Oliva ha chiamato «la poetica dell’invenzione» (Oliva 1992), in ugual maniera possono essere riplasmati anche gli stessi dati letterari. Così Primo vere prende forma e respiro a partire da altri testi, s’invera in un dialogo con altri scrittori (Carducci sopra tutti), con i loro ritmi e i loro pensieri. Un chiaro esempio è Seÿda, una ballata romantica orientaleggiante. Stupirà senz’altro il lettore accorto che d’Annunzio, così attento alle mode del tempo che anzi riuscì talvolta a precorrere, si cimenti in un genere letterario non più in auge e che era inesorabilmente tramontato già nel 1856 con La partenza del Crociato, che ne era una sua dissacrazione. Tuttavia, il tema – l’Oriente – era in quegli anni di moda: se ne interessarono ad esempio Gautier con Una notte di Cleopatra e Il romanzo della mummia e Carducci che lo trattò con la saffica Alessandria. Detto tutto questo, il poemetto dannunziano è tessuto con L’Oriente di Pasquale De Virgilii, autore alquanto noto per chi era attento alle realtà regionali, visto che era stato il fondatore del «Giornale abruzzese di scienze, lettere e arti». Tuttavia, non solo i poeti furono tenuti sott’occhio dal giovinetto. Già Praz (Praz 1988) aveva evidenziato l’utilizzo di molti repertori e dizionari nella composizione delle sue opere ed anche Primo vere non ne è esente. Fra i molti si segnalano il Dizionario della lingua italiana redatto da Tommaseo e Bellini e il Lexicon Totius Latinitatis del Forcellini (Mariotti 2016 e Zanoni 2023). Quel che importa sottolineare, comunque, è che, seppur sedicenne, il poeta seppe cavare da una gelida citazione di vocabolario un frammento di letteratura o, nel caso si trattasse di prestiti, li seppe rinnovare e ricoprire di nuova luce.
Se a livello lessicale e fonomorfologico, d’Annunzio aderisce alla
koinè poetica tradizionale, rispettando le parole nella dizione comune, se lineare è anche l’ordine delle parole, sul piano semantico si assiste ad analogie di gusto impressionistico che torcono la lingua verso nuovi usi, come questi versi di Ottobrata: «zucche gialle […] sbadiglian da qualche fessura uno stupido riso» (vv. 5-6); infatti, il verbo sbadigliare vorrebbe un soggetto animato. Vero che d’Annunzio sta citando Carducci («Oh quei fanali come s’inseguono […] / sbadigliando la luce»), tuttavia, l’effetto che ne nasce è una smagliatura del tessuto convenzionale della lingua poetica della tradizione, voluto per sottolineare il clima languido della scena. Certo, non siamo ancora alle volute sintattiche effusive e sinfoniche o al simbolismo delle opere mature, ma è inoppugnabile l’inizio di un processo di rinnovamento dettato anche dalle accresciute qualità tecniche dell’autore.
Infine, merita segnalare che Masci 1963 prima e Giannantonio 1992 poi, si sono soffermati sulle varianti ricostruibili sugli autografi, così da mettere in luce l’assidua rielaborazione del libretto, e che l’attuale edizione di riferimento è quella in corso di stampa per l’Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni apparse in vita:

Gabriele d’Annunzio, Primo vere, Chieti, Ricci, 1879.

Gabriele d’Annunzio, Primo vere, Lanciano, Carabba, 1880 (ristampa 1913).
Gabriele d’Annunzio,
Iuvenilia, Firenze, Barbèra, 1925.
Gabriele d’Annunzio,
Di gramatica in retorica. Primo vere, Istituto Nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio, Verona, Mondadori, 1930.

 

Edizioni commentate:

Gabriele d’Annunzio, Poesie complete, interpretazione e commento di Enzo Palmieri, Bologna, Zanichelli, 1953, vol. I.
Gabriele d’Annunzio,
Versi d’amore e di gloria, introduzione di Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982, vol. I (le note sono di Niva Lorenzini).
Gabriele d’Annunzio,
Primo vere (1879), prefazione di Valeria Giannantonio, introduzione e cura di Aldo Arminante, note di Domenico Tanza, s.l., Ripostes, 1995.
Gabriele d’Annunzio,
Primo vere (1879), edizione commentata a cura di Claudio Mariotti, Lanciano, Carabba, 2016.
Gabriele d’Annunzio,
Primo vere, edizione critica e commento a cura di Claudio Mariotti, Gardone Riviera, Il Vittoriale degli Italiani («Edizione nazionale delle opere di Gabriele d’Annunzio»), in corso di stampa.

Bibliografia secondaria:

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